Ugo Dotti
"Guerra, fame, peste"
Ugo Dotti
In questo lavoro dedicato più ampiamente allo sviluppo della letteratura italiana, lo studioso analizza il nesso inscindibile che esiste nei "Promessi sposi" (e già prima nel "Fermo e Lucia") tra la guerra, scatenata da re e governanti per futili motivi di ambizione politica, e le drammatiche conseguenze che essa produce nella Lombardia del Seicento, vale a dire la carestia e la peste. Questi due flagelli non solo non vengono sanati dalle autorità a ciò preposte, ma sono addirittura accresciuti con una serie di provvedimenti assurdi, figli del clima di ignoranza dominante nel secolo (e la figura che meglio rappresenta questa follia delle istituzioni pubbliche è il gran cancelliere spagnolo, Antonio Ferrer).
Ugo Dotti (1933-2017) è stato professore di Letteratura Italiana all'Università di Perugia e ha dedicato importanti studi a Petrarca e a Machiavelli, del quale ha anche curato un'edizione del "Principe". Notevole anche la sua attività di traduttore di autori latini, tra cui spiccano Orazio e Petrarca.
Ugo Dotti (1933-2017) è stato professore di Letteratura Italiana all'Università di Perugia e ha dedicato importanti studi a Petrarca e a Machiavelli, del quale ha anche curato un'edizione del "Principe". Notevole anche la sua attività di traduttore di autori latini, tra cui spiccano Orazio e Petrarca.
_ "La carestia, la peste e la guerra - scrive Voltaire nel Dizionario filosofico alla voce "Guerra"- sono i tre ingredienti più famosi di questo mondo". E continua: "Questi due regali [carestia e peste] ci vengono dalla Provvidenza. Ma la guerra, che riunisce tutti questi doni, ci viene dall’immaginazione di tre o quattrocento persone sparse sulla superficie del globo sotto il nome di principi o di ministri... Il più ardito degli adulatori ammetterà senza fatica che la guerra si trascina sempre dietro la peste e la carestia... È davvero una gran bella trovata quella che devasta le campagne, distrugge le abitazioni e fa morire, in media ogni anno, quarantamila uomini su centomila […]".
Abbiamo stralciato questo passo dalla celebre voce volteriana [...], perché nonostante i punti di vista tanto diversi, Voltaire e Manzoni erano pienamente d’accordo su una cosa: l’insensatezza brutale della guerra e la frivolezza delle motivazioni per le quali viene generalmente scatenata. A parte la battuta sulla Provvidenza che ci regala carestia e peste, si potrebbe dire che la voce di Voltaire, nella parte almeno che abbiamo riprodotto, sia la "fonte" di come Manzoni abbia voluto, nel suo romanzo, rappresentare la guerra nelle sue origini, nelle sue motivazioni, e nelle sue conseguenze: si veda nel Fermo e Lucia (IV, 1,) il resoconto delle "origini di tanta rovina" o si leggano certe riflessioni che costellano questa cronaca, riflessioni davvero volteriane: "La morte e il matrimonio terminano per lo più le tragedie e le commedie del teatro, ma danno sovente principio alle tragedie e alle commedie della vita reale". E nei Promessi sposi questo resoconto campeggia ad inizio di capitolo, il XXVII, anche qui con annotazioni particolarmente sarcastiche ("perché le guerre fatte senza una ragione sarebbero ingiuste"); con osservazioni illuminanti nel loro piglio un po’ paradossale (quella ad es. sui "tegoli di Casale"), o con esiti e ritratti volutamente grotteschi, come quello che coglie don Gonzalo mentre dimena la testa "come un baco da seta". È inoltre il capitolo che sempre con l’arma dell’ironia, spazia ancora una volta sulle storture e i pregiudizi del secolo, e sembra quasi riassumere la civiltà e la cultura dell’epoca nei ritratti contrapposti e complementari di donna Prassede e di don Ferrante: qui la donna che non sa cosa sia il bene, e vuole farlo; là l’uomo che non sa cosa sia la cultura, e vuole esserne maestro. Se si eccettua la chiusa, dove il tono muta e preannuncia la tragedia, tutto il capitolo potrebbe persino esser letto come una "voce" dell’Enciclopedia degli illuministi. E ad inizio di capitolo, il XII, è posta anche, nei Promessi sposi, la cronaca della carestia che fece esplodere il tumulto di san Martino. Già accennata in precedenza, essa si dispiega qui in tutta la sua gravità, testimonianza d’accusa contro l’inefficienza e l’insensatezza di un governo tanto inferiore al proprio compito. È questo, col capitolo successivo e conseguente della peste, uno di quei grandi quadri storici che se pur finirono per dispiacere a Goethe, sempre più appaiono oggi come uno dei momenti di forza, se non la forza medesima, del romanzo manzoniano. Il XII e il XIII dedicati ai "perché" della carestia e al suo tramutarsi in rivolta; il XXVIII in cui è ritratta una città, Milano, desolata dalla fame che già si tramuta in pestilenza; il XXXI e il XXXII, infine, che con la narrazione della peste vera e propria, denunciano tutte le responsabilità "politiche" che l’hanno generata: ecco le grandi arcate sulle quali il capolavoro di Manzoni si erge e sfida, ancor oggi, le cosiddette teorie del romanzo. [...]
"L’idea volteriana - ha scritto Bonora - che al progresso portino non gli intrighi dei politici e le distruzioni dei militari, bensì le volontà degli uomini rivolte alle opere di pace, è una conquista del pensiero moderno, grande come tutto quello che ha portato a una visione spregiudicatamente realistica della storia". Ed aggiunge: "Che di lì abbia avuto inizio la necessaria valutazione dei fattori economici nel processo storico, dovrebbe essere ammesso senza difficoltà". Ed è appunto ciò che fa Manzoni in modo più stringato nei Promessi sposi, in modo più ampio nel Fermo e Lucia e nell’edizione del ventisette quando, anche sotto l’influenza delle Memorie storiche sulla Economia pubblica dello Stato di Milano del Verri, pensava a un eventuale saggio d’appendice sul tipo della Colonna infame: il cosiddetto Saggio sulla carestia. "Era quello il second’anno di raccolta scarsa": così l’incipit, nei Promessi sposi, del capitolo XII. Poco diversamente nel Fermo e Lucia (III, 5), ma qui l’analisi prosegue per parecchie pagine. In esse Manzoni non pone soltanto in evidenza il nesso che lega la guerra, "questa bella guerra", con la carestia e il rincaro del prezzo del grano, ma si sofferma su alcuni aspetti della crisi e, quel che più conta, con l’intento dichiarato di riflettere su problemi di "economia pubblica", anche per avanzare, quando è il caso, qualche ragionevole proposta. C’è qui l’evidente influenza dei riformatori illuministi, con le cui soluzioni liberistiche Manzoni concorda (si veda ad es. il capo II del trattato del Gioia Sul commercio dei commestibili); ma vengono affrontati anche temi particolari, come ad esempio quello, già dibattuto dal tardo Cinquecento, della beneficenza e dell’elemosina. Della carità e dell’elemosina, come è ben noto, Manzoni aveva un concetto altissimo; ed ecco allora, per esempio, polemizzare garbatamente, pur senza nominarlo, con il Muratori e con certe posizioni del suo trattato sulla Carità cristiana; ma appena il discorso, anziché sulle soluzioni da dare al flagello, torna sulle responsabilità che hanno prodotto la carestia, sui provvedimenti, o presunti provvedimenti, che vennero adottati, ecco Manzoni riprendere immediatamente il piglio dell’illuminista. Denuncia dell’insensatezza economica di un periodo storico, critica dell’ignoranza e della presunzione, condanna della "irriflessione" dei politici che, ormai in balia della stoltezza comune e popolare, ne divengono complici e persino responsabili. "Cessi il cielo - egli scrive (Fermo e Lucia, III, 5) - che alcuno rinfacci ostilmente l’ignoranza ad un popolo che non ha mai avuto maestri né ozio, l’irritazione fanatica ad un popolo che non trova pane col suo lavoro". Lo scrittore dunque distingue, se non giustifica. Certo l’impero delle passioni travolgenti ed assurde, peggiori del male stesso, diviene dominio, nei momenti più critici, della "moltitudine male e ben vestita": è questo un dato di fatto che Manzoni registra, di cui tiene conto e verso il quale è tutt’altro che indulgente. Ma è alla moltitudine "ben vestita" che egli rivolge le sue critiche più severe: agli intellettuali, a coloro che, avendo tempo e agio per rivolgersi allo studio del fenomeno quand’esso è ancora lontano, e studiandolo prevenirlo, e prevenirlo con argomenti economici (osservazione, diremo di passata, che si trova anche in Gioia); anziché far questo, "al momento del serra serra escono in campo a sentenziare, cominciano a pensare con la voce e studiano dalla cattedra, coprono, vilipendono, calunniano le voci che nascono da un antico pensiero, ripetono in un linguaggio meno incolto e più strano i giudizi storti, le idee appassionate del popolo, e diffondono ed accrescono la stortura e la passione, si oppongono ferocemente a tutti quei raziocini che potrebbero illuminare l’opinione dell’universale sulla natura e sulla misura del male, ricondurre gli spiriti ad una riflessione più tranquilla, e stornare quelle risoluzioni che lo peggiorano" (Fermo e Lucia, III, 5). Ecco da quale complesso di riflessioni, di critiche, di osservazioni nasce nello scrittore, e prende corpo sulla pagina, la figura di Antonio Ferrer, il quale, come tutti sanno, di fronte alla catastrofe da lui stesso accresciuta, stette "immoto a tutti i richiami, come Enea agli scongiuri di Didone" (ivi). Ed è proprio questo immobilismo ciò che Manzoni condanna; questa ostinata pervicacia nell’errore; questa cecità che favorisce, se non genera, il regno delle cosiddette idee dominanti, le idee che fanno un’epoca e la caratterizzano, e che solo quando tramontano, ma solo allora, divengono risibili. In fine al III capitolo del IV tomo del Fermo e Lucia, il capitolo che dà inizio al racconto della peste, Manzoni traccia un interessantissimo excursus della storia dei pregiudizi: su come si formano, su come si mantengono, su come lentamente declinano. E qui, molto giustamente, egli si chiede se molte delle idee regnanti al suo tempo non siano anch’esse, un giorno, destinate a "dar molto da ridere alle età venture": dubbio più che legittimo per chi, osservando la storia dell’uomo, ne sa vedere in controluce su quali presunzioni molto spesso si fonda. E in tale excursus di "politica" così dissennata da far crescere, anziché lenire, l’oggettiva calamità, nel pieno di questa follia, giusta le osservazioni già avanzate nell’introduzione al romanzo, ecco allora campeggiare l’episodio luminoso del padre Felice Casati, rinvigorito dalla testimonianza del Tadino. Quando infine la realtà delle cose non può più essere nascosta, accade che l’inconscio collettivo, favorito dall’irresponsabilità dei politici, si scateni nella crudeltà cieca e perversa: la vendetta sull’innocente. È il momento dei "delirio", dell’autodistruzione della ragione. Ma è anche un momento della storia dello "spirito umano" che per essere storia della sua miseria e della sua irriflessione, è anche storia che comporta riflessioni sulla miseria e sulla irriflessione della natura dell’uomo. Qui sono le unzioni e gli untori; altra volta furono le streghe e i processi per stregoneria; in futuro potrebbe essere altro. Sempre, pare avvertire Manzoni, la verità e la ragione sono insidiate e poste in pericolo dalla congiura della stoltezza e dell’ignoranza, della violenza del potere e dell’aberrante "logica delle passioni". Dal XXXI al XXXII capitolo dei Promessi sposi è un crescendo continuo. La rappresentazione potente del dolore e della sofferenza nasce dalla critica inflessibile delle responsabilità collettive della società, del suo modo d’essere e d’essere governata, del suo modo di pensare e del suo aver trasformato in furore presunte certezze. Qui si legge, ad un tempo, l’atto di accusa più forte contro l’oppressione e il dispotismo delle idee dominanti e la difesa della tolleranza e della ragione. Perché se il delirio delle unzioni nasceva dal povero senno dell’uomo che cozzava contro i fantasmi che si creava da se stesso, è pur vero che il buon senso c’era, anche se era costretto a starsene nascosto per paura del "senso comune". Il senso comune: l’egemonia del pregiudizio, del fanatismo, della corruzione del vero pensiero, franco e ragionevole: ecco l’obiettivo polemico di Manzoni, e, per converso, nella difesa del "buon senso", la difesa e la celebrazione della tolleranza e del buon pensare. Non per nulla le ultime pagine del XXXII capitolo dànno prepotentemente la mano a quelle della Colonna Infame nelle quali, opponendosi alla "fatalistica" interpretazione del Verri, Manzoni conclude il suo discorso in difesa della dignità e dell’autonomia della coscienza non corrotta dalla colpa: "Ma quando, nel guardar più attentamente a que’ fatti [i processi agli untori], ci si scopre un’ingiustizia che poteva esser veduta da quelli stessi che la commettevano, un trasgredir le regole ammesse anche da loro, dell’azioni opposte ai lumi che non solo c’erano al loro tempo ma che essi medesimi, in circostanze simili, mostrarono d’avere, è un sollievo il pensare che, se non seppero quello che facevano, fu per non volerlo sapere, fu per quell’ignoranza che l’uomo assume e perde a suo piacere, e non è una scusa, ma una colpa; e che di tali fatti si può bensì esser forzatamente vittime, ma non autori" (Storia della Colonna Infame, Introduzione). Di tali fatti - di tutti i fatti - non si potrà mai essere "forzatamente autori". Sicché, mentre la storia viene giustamente interpretata nel suo nesso di responsabilità, l’esercizio della mente su siffatte responsabilità - la loro indagine e la loro critica - costituisce veramente la struttura di quel libro, i Promessi sposi, che per molti versi appare unico nella letteratura italiana, certamente il più antiromanzesco.
Abbiamo stralciato questo passo dalla celebre voce volteriana [...], perché nonostante i punti di vista tanto diversi, Voltaire e Manzoni erano pienamente d’accordo su una cosa: l’insensatezza brutale della guerra e la frivolezza delle motivazioni per le quali viene generalmente scatenata. A parte la battuta sulla Provvidenza che ci regala carestia e peste, si potrebbe dire che la voce di Voltaire, nella parte almeno che abbiamo riprodotto, sia la "fonte" di come Manzoni abbia voluto, nel suo romanzo, rappresentare la guerra nelle sue origini, nelle sue motivazioni, e nelle sue conseguenze: si veda nel Fermo e Lucia (IV, 1,) il resoconto delle "origini di tanta rovina" o si leggano certe riflessioni che costellano questa cronaca, riflessioni davvero volteriane: "La morte e il matrimonio terminano per lo più le tragedie e le commedie del teatro, ma danno sovente principio alle tragedie e alle commedie della vita reale". E nei Promessi sposi questo resoconto campeggia ad inizio di capitolo, il XXVII, anche qui con annotazioni particolarmente sarcastiche ("perché le guerre fatte senza una ragione sarebbero ingiuste"); con osservazioni illuminanti nel loro piglio un po’ paradossale (quella ad es. sui "tegoli di Casale"), o con esiti e ritratti volutamente grotteschi, come quello che coglie don Gonzalo mentre dimena la testa "come un baco da seta". È inoltre il capitolo che sempre con l’arma dell’ironia, spazia ancora una volta sulle storture e i pregiudizi del secolo, e sembra quasi riassumere la civiltà e la cultura dell’epoca nei ritratti contrapposti e complementari di donna Prassede e di don Ferrante: qui la donna che non sa cosa sia il bene, e vuole farlo; là l’uomo che non sa cosa sia la cultura, e vuole esserne maestro. Se si eccettua la chiusa, dove il tono muta e preannuncia la tragedia, tutto il capitolo potrebbe persino esser letto come una "voce" dell’Enciclopedia degli illuministi. E ad inizio di capitolo, il XII, è posta anche, nei Promessi sposi, la cronaca della carestia che fece esplodere il tumulto di san Martino. Già accennata in precedenza, essa si dispiega qui in tutta la sua gravità, testimonianza d’accusa contro l’inefficienza e l’insensatezza di un governo tanto inferiore al proprio compito. È questo, col capitolo successivo e conseguente della peste, uno di quei grandi quadri storici che se pur finirono per dispiacere a Goethe, sempre più appaiono oggi come uno dei momenti di forza, se non la forza medesima, del romanzo manzoniano. Il XII e il XIII dedicati ai "perché" della carestia e al suo tramutarsi in rivolta; il XXVIII in cui è ritratta una città, Milano, desolata dalla fame che già si tramuta in pestilenza; il XXXI e il XXXII, infine, che con la narrazione della peste vera e propria, denunciano tutte le responsabilità "politiche" che l’hanno generata: ecco le grandi arcate sulle quali il capolavoro di Manzoni si erge e sfida, ancor oggi, le cosiddette teorie del romanzo. [...]
"L’idea volteriana - ha scritto Bonora - che al progresso portino non gli intrighi dei politici e le distruzioni dei militari, bensì le volontà degli uomini rivolte alle opere di pace, è una conquista del pensiero moderno, grande come tutto quello che ha portato a una visione spregiudicatamente realistica della storia". Ed aggiunge: "Che di lì abbia avuto inizio la necessaria valutazione dei fattori economici nel processo storico, dovrebbe essere ammesso senza difficoltà". Ed è appunto ciò che fa Manzoni in modo più stringato nei Promessi sposi, in modo più ampio nel Fermo e Lucia e nell’edizione del ventisette quando, anche sotto l’influenza delle Memorie storiche sulla Economia pubblica dello Stato di Milano del Verri, pensava a un eventuale saggio d’appendice sul tipo della Colonna infame: il cosiddetto Saggio sulla carestia. "Era quello il second’anno di raccolta scarsa": così l’incipit, nei Promessi sposi, del capitolo XII. Poco diversamente nel Fermo e Lucia (III, 5), ma qui l’analisi prosegue per parecchie pagine. In esse Manzoni non pone soltanto in evidenza il nesso che lega la guerra, "questa bella guerra", con la carestia e il rincaro del prezzo del grano, ma si sofferma su alcuni aspetti della crisi e, quel che più conta, con l’intento dichiarato di riflettere su problemi di "economia pubblica", anche per avanzare, quando è il caso, qualche ragionevole proposta. C’è qui l’evidente influenza dei riformatori illuministi, con le cui soluzioni liberistiche Manzoni concorda (si veda ad es. il capo II del trattato del Gioia Sul commercio dei commestibili); ma vengono affrontati anche temi particolari, come ad esempio quello, già dibattuto dal tardo Cinquecento, della beneficenza e dell’elemosina. Della carità e dell’elemosina, come è ben noto, Manzoni aveva un concetto altissimo; ed ecco allora, per esempio, polemizzare garbatamente, pur senza nominarlo, con il Muratori e con certe posizioni del suo trattato sulla Carità cristiana; ma appena il discorso, anziché sulle soluzioni da dare al flagello, torna sulle responsabilità che hanno prodotto la carestia, sui provvedimenti, o presunti provvedimenti, che vennero adottati, ecco Manzoni riprendere immediatamente il piglio dell’illuminista. Denuncia dell’insensatezza economica di un periodo storico, critica dell’ignoranza e della presunzione, condanna della "irriflessione" dei politici che, ormai in balia della stoltezza comune e popolare, ne divengono complici e persino responsabili. "Cessi il cielo - egli scrive (Fermo e Lucia, III, 5) - che alcuno rinfacci ostilmente l’ignoranza ad un popolo che non ha mai avuto maestri né ozio, l’irritazione fanatica ad un popolo che non trova pane col suo lavoro". Lo scrittore dunque distingue, se non giustifica. Certo l’impero delle passioni travolgenti ed assurde, peggiori del male stesso, diviene dominio, nei momenti più critici, della "moltitudine male e ben vestita": è questo un dato di fatto che Manzoni registra, di cui tiene conto e verso il quale è tutt’altro che indulgente. Ma è alla moltitudine "ben vestita" che egli rivolge le sue critiche più severe: agli intellettuali, a coloro che, avendo tempo e agio per rivolgersi allo studio del fenomeno quand’esso è ancora lontano, e studiandolo prevenirlo, e prevenirlo con argomenti economici (osservazione, diremo di passata, che si trova anche in Gioia); anziché far questo, "al momento del serra serra escono in campo a sentenziare, cominciano a pensare con la voce e studiano dalla cattedra, coprono, vilipendono, calunniano le voci che nascono da un antico pensiero, ripetono in un linguaggio meno incolto e più strano i giudizi storti, le idee appassionate del popolo, e diffondono ed accrescono la stortura e la passione, si oppongono ferocemente a tutti quei raziocini che potrebbero illuminare l’opinione dell’universale sulla natura e sulla misura del male, ricondurre gli spiriti ad una riflessione più tranquilla, e stornare quelle risoluzioni che lo peggiorano" (Fermo e Lucia, III, 5). Ecco da quale complesso di riflessioni, di critiche, di osservazioni nasce nello scrittore, e prende corpo sulla pagina, la figura di Antonio Ferrer, il quale, come tutti sanno, di fronte alla catastrofe da lui stesso accresciuta, stette "immoto a tutti i richiami, come Enea agli scongiuri di Didone" (ivi). Ed è proprio questo immobilismo ciò che Manzoni condanna; questa ostinata pervicacia nell’errore; questa cecità che favorisce, se non genera, il regno delle cosiddette idee dominanti, le idee che fanno un’epoca e la caratterizzano, e che solo quando tramontano, ma solo allora, divengono risibili. In fine al III capitolo del IV tomo del Fermo e Lucia, il capitolo che dà inizio al racconto della peste, Manzoni traccia un interessantissimo excursus della storia dei pregiudizi: su come si formano, su come si mantengono, su come lentamente declinano. E qui, molto giustamente, egli si chiede se molte delle idee regnanti al suo tempo non siano anch’esse, un giorno, destinate a "dar molto da ridere alle età venture": dubbio più che legittimo per chi, osservando la storia dell’uomo, ne sa vedere in controluce su quali presunzioni molto spesso si fonda. E in tale excursus di "politica" così dissennata da far crescere, anziché lenire, l’oggettiva calamità, nel pieno di questa follia, giusta le osservazioni già avanzate nell’introduzione al romanzo, ecco allora campeggiare l’episodio luminoso del padre Felice Casati, rinvigorito dalla testimonianza del Tadino. Quando infine la realtà delle cose non può più essere nascosta, accade che l’inconscio collettivo, favorito dall’irresponsabilità dei politici, si scateni nella crudeltà cieca e perversa: la vendetta sull’innocente. È il momento dei "delirio", dell’autodistruzione della ragione. Ma è anche un momento della storia dello "spirito umano" che per essere storia della sua miseria e della sua irriflessione, è anche storia che comporta riflessioni sulla miseria e sulla irriflessione della natura dell’uomo. Qui sono le unzioni e gli untori; altra volta furono le streghe e i processi per stregoneria; in futuro potrebbe essere altro. Sempre, pare avvertire Manzoni, la verità e la ragione sono insidiate e poste in pericolo dalla congiura della stoltezza e dell’ignoranza, della violenza del potere e dell’aberrante "logica delle passioni". Dal XXXI al XXXII capitolo dei Promessi sposi è un crescendo continuo. La rappresentazione potente del dolore e della sofferenza nasce dalla critica inflessibile delle responsabilità collettive della società, del suo modo d’essere e d’essere governata, del suo modo di pensare e del suo aver trasformato in furore presunte certezze. Qui si legge, ad un tempo, l’atto di accusa più forte contro l’oppressione e il dispotismo delle idee dominanti e la difesa della tolleranza e della ragione. Perché se il delirio delle unzioni nasceva dal povero senno dell’uomo che cozzava contro i fantasmi che si creava da se stesso, è pur vero che il buon senso c’era, anche se era costretto a starsene nascosto per paura del "senso comune". Il senso comune: l’egemonia del pregiudizio, del fanatismo, della corruzione del vero pensiero, franco e ragionevole: ecco l’obiettivo polemico di Manzoni, e, per converso, nella difesa del "buon senso", la difesa e la celebrazione della tolleranza e del buon pensare. Non per nulla le ultime pagine del XXXII capitolo dànno prepotentemente la mano a quelle della Colonna Infame nelle quali, opponendosi alla "fatalistica" interpretazione del Verri, Manzoni conclude il suo discorso in difesa della dignità e dell’autonomia della coscienza non corrotta dalla colpa: "Ma quando, nel guardar più attentamente a que’ fatti [i processi agli untori], ci si scopre un’ingiustizia che poteva esser veduta da quelli stessi che la commettevano, un trasgredir le regole ammesse anche da loro, dell’azioni opposte ai lumi che non solo c’erano al loro tempo ma che essi medesimi, in circostanze simili, mostrarono d’avere, è un sollievo il pensare che, se non seppero quello che facevano, fu per non volerlo sapere, fu per quell’ignoranza che l’uomo assume e perde a suo piacere, e non è una scusa, ma una colpa; e che di tali fatti si può bensì esser forzatamente vittime, ma non autori" (Storia della Colonna Infame, Introduzione). Di tali fatti - di tutti i fatti - non si potrà mai essere "forzatamente autori". Sicché, mentre la storia viene giustamente interpretata nel suo nesso di responsabilità, l’esercizio della mente su siffatte responsabilità - la loro indagine e la loro critica - costituisce veramente la struttura di quel libro, i Promessi sposi, che per molti versi appare unico nella letteratura italiana, certamente il più antiromanzesco.
_(da Storia degli intellettuali in Italia, vol. 3, 1999)