Giusi Baldissone
"La rappresentazione iconografica della peste"
Giusi Baldissone
In questo saggio la studiosa piemontese mette l'accento sulla particolare rappresentazione della peste nel romanzo, in quanto a suo avviso lo scrittore non si limita a descrivere gli aspetti più propriamente oggettivi dell'epidemia, ma suggerisce l'esistenza un significato che va oltre ciò che si vede e che pertanto va rappresentato in modo onirico, con uno sguardo che deforma la realtà e pare in alcuni casi allucinato. Tale rappresentazione della peste coinvolge anche gli illustratori dell'edizione 1840 dei "Promessi sposi", tra cui soprattutto il Gonin, anche se - a giudizio dell'autrice - gli esiti artistici sono alquanto deludenti.
Giusi Baldissone è nata a Vercelli e attualmente insegna Letteratura Italiana all'Università del Piemonte Orientale. Ha pubblicato saggi critici su vari autori della nostra tradizione, tra cui soprattutto Dante, Manzoni, Montale.
Giusi Baldissone è nata a Vercelli e attualmente insegna Letteratura Italiana all'Università del Piemonte Orientale. Ha pubblicato saggi critici su vari autori della nostra tradizione, tra cui soprattutto Dante, Manzoni, Montale.
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Se dai modelli letterari si passa poi a quelli iconografici, la peste conduce il lettore a fianco a fianco dello scrittore a riconoscere l'urbanistica e la devozione, la scienza medica e la magia, il fantastico e l'allegorico, la burocrazia e la cronaca, tutta la complessa realtà della malattia, visivamente ricostruibile negli archivi polverosi e nelle piazze segnate dalla memoria, in ciò che resta degli edifici, nelle chiese, nei quadri e negli ex-voto.
Lo scrittore intensifica qui la sua presenza diretta nel testimoniare il percorso concreto dei suoi occhi alla ricerca delle tracce rimaste, per rendere conto il più iconograficamente possibile dello spazio che fu abitato dalla morte, in cui si giocarono in modo inatteso e decisivo i destini della storia e quelli dei suoi personaggi: Lucia e Renzo, don Rodrigo, padre Cristoforo. Gli occhi dello scrittore diventano quelli del lettore non solo perché il primo interviene più spesso in prima persona, ma anche perché nello spazio e nel tempo della peste si identificano le questioni, i problemi: si accentua, insomma, l'atteggiamento interlocutorio dello scrittore nei confronti di una realtà, che non sembra mai quella che è veramente, e viceversa. La necessità intensa di guardare nasce dunque dall'altra, più profonda, di interrogarsi sul significato di quel che si vede, su ciò che sta sotto, od oltre quel che si vede, che è quello di cui veramente si dovrebbe rendere conto al lettore. La questione dello sguardo è forse quella che conta di più in tutta la narrazione della peste, e se l'autore cerca immagini d'epoca a cui appoggiarsi lo fa soltanto per la difficoltà e la profondità della questione filosofica che vuole affrontare. […]
Nulla è certo, nella vista dell'uomo, all'apparire della peste. La peste, non a caso, suscita anche sulla mano del Gonin, l'illustratore costantemente controllato dallo scrittore, immagini fantastiche che per tutto il resto del romanzo sono decisamente assenti. Basta scorrere con attenzione le pagine della “quarantana” per accorgersi che fin dal XXVIII capitolo si incontrano sul piano iconografico alcune novità. Intanto, la figura che apre questo capitolo è un'allegoria, munita di cornucopia vuota, della carestia. Ma l'inizio del XXXI, quello che esplicitamente pronuncia la parola “peste”, è il più interessante: l'allegoria della morte con ali da pipistrello e con la falce in mano, accompagnata dal fregio d'apertura che presenta tre avvoltoi, preannuncia un livello più complesso di narrazione, che viene confermato dal drago che divora una colomba in apertura del XXXII, e poi dall'illustrazione degli exempla sull'unzione: “amenità e orrori, deserti e giardini, caverne e sale”; “era rimasto un lupo sotto il letto, e tre gattoni sopra” (XXXII).
Sono cinque illustrazioni allegorico-fantastiche, di ispirazione iconografica diversa dal solito, in cui sembra di intravedere la maniera di Füssli. La loro eccezionalità nel complesso delle restanti illustrazioni rappresenta l'equivalente iconografico di quel discorso astratto sulla relatività della conoscenza visiva, che è il tratto più caratteristico della descrizione manzoniana della peste. I fantasmi, le paure, le superstizioni, le immagini della mente si sovrappongono a quelle degli occhi, in modo tale da renderle ambigue e prive di ogni certezza. A sottolineare ancor di più questo problema “visivo”, interviene oltre tutto una disparità di modelli, sicuramente suggerita dallo scrittore stesso, che finisce per togliere all'illustrazione dei capitoli dedicati alla peste ogni carattere di omogeneità. Vi si riconoscono Rembrandt e Canaletto (i soldati sembrano tutti usciti dalla Ronda di notte e la processione di San Carlo sembra una veduta delle feste veneziane del Settecento): i ritratti sono copiati da Van Dyck, l'antro del primo exemplum sull'unzione sembra un'illustrazione di Blake per la Divina Commedia, e poi si possono riconoscere Tanzio da Varallo e il Ceruti, Hayez, Molteni, Mosè Bianchi, Previati, Léopold Robert, Piccio e Induno, forse anche il Goya delle più sinistre mascherate.
Il fatto è che questi modelli, prima che sulla mano di Gonin, sono nella mente e sulla penna dello scrittore. È noto il fitto carteggio intercorso fra i due durante la preparazione dell'edizione del 1840, da cui emerge la complessità della rappresentazione iconografica che lo scrittore ha in testa, complessità che non sempre l'illustratore e la sua équipe riescono a esprimere compiutamente. Proprio la peste rappresenta il groviglio più inestricabile di quella complessità (e non a caso proprio sulla peste gli esiti iconografici sono più deludenti).
Il Manzoni ha nella mente e davanti agli occhi tutto ciò che altri occhi hanno visto e rappresentato, tutto ciò che anche il Gonin può vedere osservando quadri, passeggiando per il lazzeretto o per la piazza di Gian Giacomo Mora, leggendo le cronache del Verri, del Tadino e del Ripamonti, del Settala e di tutti gli altri. Ma ciò che manca al Gonin è ciò che va oltre l'occhio e ne eccede la misura, ciò che penetra nella complessità della psiche umana e dà forma anche alle visioni, che alla vista aggiunge l'immaginario e tutto quel guazzabuglio del cuore e del “povero senno umano”, e non consente di riposare sicuri sulle immagini e sui fenomeni, ma mette continuamente in discussione la capacità della vista nello squadrare e nel conoscere la verità.
Se dai modelli letterari si passa poi a quelli iconografici, la peste conduce il lettore a fianco a fianco dello scrittore a riconoscere l'urbanistica e la devozione, la scienza medica e la magia, il fantastico e l'allegorico, la burocrazia e la cronaca, tutta la complessa realtà della malattia, visivamente ricostruibile negli archivi polverosi e nelle piazze segnate dalla memoria, in ciò che resta degli edifici, nelle chiese, nei quadri e negli ex-voto.
Lo scrittore intensifica qui la sua presenza diretta nel testimoniare il percorso concreto dei suoi occhi alla ricerca delle tracce rimaste, per rendere conto il più iconograficamente possibile dello spazio che fu abitato dalla morte, in cui si giocarono in modo inatteso e decisivo i destini della storia e quelli dei suoi personaggi: Lucia e Renzo, don Rodrigo, padre Cristoforo. Gli occhi dello scrittore diventano quelli del lettore non solo perché il primo interviene più spesso in prima persona, ma anche perché nello spazio e nel tempo della peste si identificano le questioni, i problemi: si accentua, insomma, l'atteggiamento interlocutorio dello scrittore nei confronti di una realtà, che non sembra mai quella che è veramente, e viceversa. La necessità intensa di guardare nasce dunque dall'altra, più profonda, di interrogarsi sul significato di quel che si vede, su ciò che sta sotto, od oltre quel che si vede, che è quello di cui veramente si dovrebbe rendere conto al lettore. La questione dello sguardo è forse quella che conta di più in tutta la narrazione della peste, e se l'autore cerca immagini d'epoca a cui appoggiarsi lo fa soltanto per la difficoltà e la profondità della questione filosofica che vuole affrontare. […]
Nulla è certo, nella vista dell'uomo, all'apparire della peste. La peste, non a caso, suscita anche sulla mano del Gonin, l'illustratore costantemente controllato dallo scrittore, immagini fantastiche che per tutto il resto del romanzo sono decisamente assenti. Basta scorrere con attenzione le pagine della “quarantana” per accorgersi che fin dal XXVIII capitolo si incontrano sul piano iconografico alcune novità. Intanto, la figura che apre questo capitolo è un'allegoria, munita di cornucopia vuota, della carestia. Ma l'inizio del XXXI, quello che esplicitamente pronuncia la parola “peste”, è il più interessante: l'allegoria della morte con ali da pipistrello e con la falce in mano, accompagnata dal fregio d'apertura che presenta tre avvoltoi, preannuncia un livello più complesso di narrazione, che viene confermato dal drago che divora una colomba in apertura del XXXII, e poi dall'illustrazione degli exempla sull'unzione: “amenità e orrori, deserti e giardini, caverne e sale”; “era rimasto un lupo sotto il letto, e tre gattoni sopra” (XXXII).
Sono cinque illustrazioni allegorico-fantastiche, di ispirazione iconografica diversa dal solito, in cui sembra di intravedere la maniera di Füssli. La loro eccezionalità nel complesso delle restanti illustrazioni rappresenta l'equivalente iconografico di quel discorso astratto sulla relatività della conoscenza visiva, che è il tratto più caratteristico della descrizione manzoniana della peste. I fantasmi, le paure, le superstizioni, le immagini della mente si sovrappongono a quelle degli occhi, in modo tale da renderle ambigue e prive di ogni certezza. A sottolineare ancor di più questo problema “visivo”, interviene oltre tutto una disparità di modelli, sicuramente suggerita dallo scrittore stesso, che finisce per togliere all'illustrazione dei capitoli dedicati alla peste ogni carattere di omogeneità. Vi si riconoscono Rembrandt e Canaletto (i soldati sembrano tutti usciti dalla Ronda di notte e la processione di San Carlo sembra una veduta delle feste veneziane del Settecento): i ritratti sono copiati da Van Dyck, l'antro del primo exemplum sull'unzione sembra un'illustrazione di Blake per la Divina Commedia, e poi si possono riconoscere Tanzio da Varallo e il Ceruti, Hayez, Molteni, Mosè Bianchi, Previati, Léopold Robert, Piccio e Induno, forse anche il Goya delle più sinistre mascherate.
Il fatto è che questi modelli, prima che sulla mano di Gonin, sono nella mente e sulla penna dello scrittore. È noto il fitto carteggio intercorso fra i due durante la preparazione dell'edizione del 1840, da cui emerge la complessità della rappresentazione iconografica che lo scrittore ha in testa, complessità che non sempre l'illustratore e la sua équipe riescono a esprimere compiutamente. Proprio la peste rappresenta il groviglio più inestricabile di quella complessità (e non a caso proprio sulla peste gli esiti iconografici sono più deludenti).
Il Manzoni ha nella mente e davanti agli occhi tutto ciò che altri occhi hanno visto e rappresentato, tutto ciò che anche il Gonin può vedere osservando quadri, passeggiando per il lazzeretto o per la piazza di Gian Giacomo Mora, leggendo le cronache del Verri, del Tadino e del Ripamonti, del Settala e di tutti gli altri. Ma ciò che manca al Gonin è ciò che va oltre l'occhio e ne eccede la misura, ciò che penetra nella complessità della psiche umana e dà forma anche alle visioni, che alla vista aggiunge l'immaginario e tutto quel guazzabuglio del cuore e del “povero senno umano”, e non consente di riposare sicuri sulle immagini e sui fenomeni, ma mette continuamente in discussione la capacità della vista nello squadrare e nel conoscere la verità.
_(da Il vuoto in biblioteca: Alessandro Manzoni e la peste,
in Prospettive sui “Promessi sposi”, Torino 1991, pp. 81-83)
in Prospettive sui “Promessi sposi”, Torino 1991, pp. 81-83)