Il Nibbio
F. Gonin, Lucia e il Nibbio
È uno dei bravi al servizio dell'innominato, suo luogotenente e l'elemento più valido al quale il bandito affida gli incarichi più delicati: compare nel cap. XX, dopo che il suo padrone ha accettato, sia pure con qualche remora, di aiutare don Rodrigo a rapire Lucia dal convento di Monza in cui è rifugiata sotto la protezione di Gertrude (l'innominato gli ordina di andare in quella città e contattare Egidio, suo compagno di scelleratezze dal quale spera di avere sostegno). Poco tempo dopo il Nibbio torna con la risposta di Egidio, che promette che l'impresa sarà "facile e sicura" e fornisce le istruzioni per portare a termine il rapimento della ragazza, quindi l'innominato incarica il Nibbio di occuparsene e disporre tutto secondo le indicazioni del giovinastro amante della "Signora".
Il Nibbio torna a Monza con una carrozza e due bravi, con l'aiuto dei quali rapisce Lucia che è stata fatta uscire dal convento con un inganno di Gertrude: mentre uno sgherro d'Egidio distrae la ragazza fingendo di chiederle un'indicazione sulla strada per Monza, il Nibbio la afferra per la vita e la caccia nella carrozza, che poi riparte a spron battuto con a bordo la prigioniera. Lucia, terrorizzata, tenta subito di fuggire ma viene trattenuta dai bravi, quindi sviene e mentre è priva di sensi il Nibbio ordina ai compagni di prendere i fucili senza farli vedere alla ragazza, che definisce un "pulcin bagnato che basisce per nulla" (sarà lui a parlarle quando rinverrà e a tenerla ferma, mentre i compari sono invitati a non farle paura). Quando Lucia riprende i sensi tenta nuovamente di gettarsi fuori dallo sportello, viene tuttavia trattenuta e il Nibbio le ordina di tacere, minacciandola di tapparle di nuovo la bocca col fazzoletto; la giovane inizia poi a pregare i suoi rapitori di lasciarla andare, al che il Nibbio la esorta a calmarsi dicendole che, se l'avessero voluta uccidere, l'avrebbero già fatto, poi le rivela che è stato loro ordinato di rapirla e ovviamente rifiuta di indicare il nome del loro padrone. Alla fine del lungo viaggio la carrozza giunge al castello dell'innominato (XXI), dove Lucia è obbligata a salire sulla portantina insieme alla vecchia ed è indotta a non urlare dal Nibbio, che le fa "gli occhiacci del fazzoletto"; l'uomo corre poi a fare il suo rapporto al padrone, come ordinato dalla vecchia, e riferisce che tutto è andato secondo i piani, anche se, ammette, avrebbe preferito uccidere Lucia piuttosto che sentire i suoi pianti e le sue preghiere durante il viaggio, cosa che lo ha mosso a "compassione". L'innominato è sbalordito a una tale affermazione e chiede ulteriori spiegazioni al suo luogotenente, il quale definisce la compassione come la paura, poiché quando uno "la lascia prender possesso, non è più uomo", aggiungendo altri dettagli "pietosi" circa lo spavento di Lucia, le sue suppliche, il suo mortale pallore. Alla fine l'innominato gli ordina di andare a riposare in attesa di ulteriori ordini e dopo questo episodio non compare più nel romanzo (ignoriamo, pertanto, se egli sia rimasto col padrone dopo la sua clamorosa conversione).
Benché il suo ruolo sia secondario, il Nibbio ha comunque una parte essenziale nel ravvedimento dell'innominato, poiché parlando della compassione provata per Lucia suscita nel padrone la curiosità di recarsi a vederla nella stanza dov'è prigioniera, incontro dal quale nasceranno poi i rimorsi che spingeranno il bandito a voler incontrare il cardinal Borromeo e poi a pentirsi pubblicamente. Il suo ruolo fra i bravi dell'innominato è simile a quello del Griso per don Rodrigo, anche se rispetto a quello il Nibbio si mostra più umano (sulla carrozza ordina ai compagni di non spaventare inutilmente Lucia ed egli stesso evita di essere troppo duro con lei) e proprio questo suo lato "compassionevole" sarà poi decisivo nella positiva svolta della vicenda. Il nome allude all'uccello rapace ed è evidentemente un epiteto di battaglia, come nel caso degli altri bravi indicati nel corso del romanzo.
Il Nibbio torna a Monza con una carrozza e due bravi, con l'aiuto dei quali rapisce Lucia che è stata fatta uscire dal convento con un inganno di Gertrude: mentre uno sgherro d'Egidio distrae la ragazza fingendo di chiederle un'indicazione sulla strada per Monza, il Nibbio la afferra per la vita e la caccia nella carrozza, che poi riparte a spron battuto con a bordo la prigioniera. Lucia, terrorizzata, tenta subito di fuggire ma viene trattenuta dai bravi, quindi sviene e mentre è priva di sensi il Nibbio ordina ai compagni di prendere i fucili senza farli vedere alla ragazza, che definisce un "pulcin bagnato che basisce per nulla" (sarà lui a parlarle quando rinverrà e a tenerla ferma, mentre i compari sono invitati a non farle paura). Quando Lucia riprende i sensi tenta nuovamente di gettarsi fuori dallo sportello, viene tuttavia trattenuta e il Nibbio le ordina di tacere, minacciandola di tapparle di nuovo la bocca col fazzoletto; la giovane inizia poi a pregare i suoi rapitori di lasciarla andare, al che il Nibbio la esorta a calmarsi dicendole che, se l'avessero voluta uccidere, l'avrebbero già fatto, poi le rivela che è stato loro ordinato di rapirla e ovviamente rifiuta di indicare il nome del loro padrone. Alla fine del lungo viaggio la carrozza giunge al castello dell'innominato (XXI), dove Lucia è obbligata a salire sulla portantina insieme alla vecchia ed è indotta a non urlare dal Nibbio, che le fa "gli occhiacci del fazzoletto"; l'uomo corre poi a fare il suo rapporto al padrone, come ordinato dalla vecchia, e riferisce che tutto è andato secondo i piani, anche se, ammette, avrebbe preferito uccidere Lucia piuttosto che sentire i suoi pianti e le sue preghiere durante il viaggio, cosa che lo ha mosso a "compassione". L'innominato è sbalordito a una tale affermazione e chiede ulteriori spiegazioni al suo luogotenente, il quale definisce la compassione come la paura, poiché quando uno "la lascia prender possesso, non è più uomo", aggiungendo altri dettagli "pietosi" circa lo spavento di Lucia, le sue suppliche, il suo mortale pallore. Alla fine l'innominato gli ordina di andare a riposare in attesa di ulteriori ordini e dopo questo episodio non compare più nel romanzo (ignoriamo, pertanto, se egli sia rimasto col padrone dopo la sua clamorosa conversione).
Benché il suo ruolo sia secondario, il Nibbio ha comunque una parte essenziale nel ravvedimento dell'innominato, poiché parlando della compassione provata per Lucia suscita nel padrone la curiosità di recarsi a vederla nella stanza dov'è prigioniera, incontro dal quale nasceranno poi i rimorsi che spingeranno il bandito a voler incontrare il cardinal Borromeo e poi a pentirsi pubblicamente. Il suo ruolo fra i bravi dell'innominato è simile a quello del Griso per don Rodrigo, anche se rispetto a quello il Nibbio si mostra più umano (sulla carrozza ordina ai compagni di non spaventare inutilmente Lucia ed egli stesso evita di essere troppo duro con lei) e proprio questo suo lato "compassionevole" sarà poi decisivo nella positiva svolta della vicenda. Il nome allude all'uccello rapace ed è evidentemente un epiteto di battaglia, come nel caso degli altri bravi indicati nel corso del romanzo.