Capitolo XXV
Gustavino, Il cardinale e don Abbondio
"Don Abbondio stava a capo basso: il suo spirito
si trovava tra quegli argomenti, come un pulcino
negli artigli del falco, che lo tengono sollevato
in una regione sconosciuta, in un'aria che non ha mai respirata. Vedendo che qualcosa bisognava rispondere,
disse, con una certa sommissione forzata:
- monsignore illustrissimo, avrò torto. Quando la vita
non si deve contare, non so cosa mi dire.
Ma quando s'ha a che fare con certa gente,
con gente che ha la forza, e che non vuol sentir ragioni,
anche a voler fare il bravo, non saprei cosa ci si potrebbe guadagnare. È un signore quello,
con cui non si può né vincerla né impattarla..."
Personaggi:
Luoghi: Tempo: Temi: Trama: |
_Lucia, Agnese, don Abbondio, don Rodrigo, il Griso e i bravi, il podestà di Lecco, l'Azzecca-garbugli, il cardinal Borromeo, il sarto e sua moglie, don Ferrante, donna Prassede, il cappellano crocifero
Il paese di Renzo e Lucia, il palazzotto di don Rodrigo, il paese vicino al castello dell'innominato Novembre-dicembre 1628 La giustizia, La cultura del Seicento, Nobiltà e potere, Chiesa e religione La notizia della liberazione di Lucia si sparge nel territorio di Lecco. Don Rodrigo lascia il paese e va a Milano. Il cardinal Borromeo si reca in visita al paese dei due promessi e chiede a don Abbondio notizie di Renzo. Donna Prassede incontra Lucia e Agnese, proponendo di accogliere la ragazza in casa sua. Le due donne tornano al paese e parlano col cardinale. Borromeo parla con don Abbondio e gli chiede conto del mancato matrimonio, rimproverandolo per non aver adempiuto ai suoi doveri. |
Le voci della liberazione di Lucia arrivano in paese
Due popolani (ediz. 1840)
Il giorno seguente a quello della liberazione di Lucia il fatto di cui la ragazza è stata protagonista ha vasta eco nel suo paese e in tutto il territorio di Lecco, specie perché nella vicenda sono implicati anche due personaggi di alto rango e di grande fama come il cardinal Borromeo e l'innominato. Tutti iniziano a parlare anche del coinvolgimento di don Rodrigo, il quale farebbe a meno volentieri di essere oggetto di tante chiacchiere: ovviamente si parlava di lui anche prima, sia pure in maniera segreta e quasi nascosta per timore di sue reazioni, mentre ora il suo nome è sulla bocca di tutti in quanto la sua figura odiosa viene paragonata a quelle del cardinale e dell'innominato, ovvero di due grandissimi personaggi (uno con la fama di santo, l'altro di assassino e appaltatore di delitti che si è tuttavia ravveduto) rispetto ai quali il signorotto diventa assai poca cosa. Tutti i paesani accusano don Rodrigo di aver voluto perseguitare Lucia e gli vengono attribuite tante altre scelleratezze passate, anche se ovviamente nessuno lo fa di fronte a lui temendo la reazione dei suoi bravi, così come viene criticato il podestà suo amico, ma con prudenza per paura dei suoi birri. L'odio del popolo si riversa invece senza troppi riguardi sui cortigiani minori del signorotto, soprattutto sul dottor Azzecca-garbugli che viene additato in strada e fatto oggetto di improperi da parte dei paesani, cosicché per qualche tempo l'avvocato ritiene più prudente non farsi vedere in giro.
Don Rodrigo se ne va a Milano
F. Gonin, L'Azzecca-garbugli e il popolo
Don Rodrigo sulle prime è sbalordito dallo sviluppo imprevisto degli eventi e per due giorni resta rintanato nel suo palazzotto circondato dai bravi, mentre il terzo decide di lasciare il paese e di andare a Milano: non che sia intimorito dalle chiacchiere della gente, poiché anzi sarebbe ansioso di usare qualche prepotenza contro i popolani più arditi per dare un esempio agli altri, ma ciò che lo induce a sloggiare è la notizia che il cardinal Borromeo è sul punto di recarsi in visita al paese, cosa che lo obbligherebbe a fargli qualche dimostrazione pubblica (specie per compiacere le attese del conte zio, ignaro di buona parte dell'intrigo) e il signorotto vuole ovviamente evitare un impegno così imbarazzante. Così una mattina don Rodrigo si alza molto presto e sale su una carrozza, circondato dal Griso e da altri bravi, e lascia il paese per Milano come Catilina in partenza da Roma, giurando fra sé che tornerà presto per vendicarsi dei torti e delle ingiurie subite.
Il cardinale giunge in visita al paese
F. Gonin, Don Abbondio in paese
Intanto il cardinal Borromeo sta visitando le parrocchie del territorio di Lecco e il giorno in cui è previsto il suo arrivo al paese di Lucia una gran folla si reca sulla strada ad attenderlo. Vicino all'ingresso nel villaggio, accanto alla casetta di Lucia e della madre Agnese, è stato posto un rudimentale arco trionfale ornato di paglia ed erbe, mentre la facciata della chiesa è bardata con tendaggi e alle finestre delle case i popolani appendono lenzuoli e fasce da neonati per accogliere festosamente il cardinale; verso le quattro del pomeriggio gran parte dei paesani va incontro al prelato in arrivo, preceduti da don Abbondio che sembra stizzito in mezzo a tutta quella confusione e allegria (il curato teme che Lucia e Agnese possano aver rivelato al cardinale le sue mancanze riguardo al matrimonio). A un tratto si vede spuntare la portantina su cui è il Borromeo, circondata dal suo seguito e da altri popolani che gli fanno da scorta, mentre spunta in aria la croce portata dal cappellano crocifero che cavalca una mula: tutti i paesani accorrono in modo disordinato verso il corteo, invano trattenuti da don Abbondio che li invita a muoversi con maggiore ordine, finché anche lui si rassegna a infilarsi nella chiesa ancora vuota e ad attendere qui l'arrivo del cardinale.
Il cardinale chiede a don Abbondio ragguagli su Renzo
F. Gonin, Don Abbondio soddisfatto
Il cardinale avanza in mezzo alla folla, dando e ricevendo benedizioni dai presenti, mentre i membri del suo seguito hanno un bel daffare a tenere a distanza i popolani più scalmanati: questi vogliono far festa al prelato per via della vicenda di Lucia, anche se il Borromeo riceve accoglienze analoghe ovunque vada (in occasione del suo primo solenne ingresso nel duomo di Milano, infatti, la calca era stata tale che alcuni nobili avevano dovuto tenere a bada la folla con le spade e due giovani preti avevano dovuto sollevare di peso Federigo e portarlo all'altare, per evitare che fosse schiacciato dalla ressa dei fedeli). Il cardinale entra nella chiesa del paese e rivolge un breve discorso di contenuto edificante ai presenti, quindi si apparta con don Abbondio nella sua casa e gli chiede informazioni relative a Renzo: il curato risponde che il giovane filatore ha un carattere un po' testardo e collerico, anche se deve riconoscere che è sempre stato un galantuomo e che nemmeno lui sa spiegarsi come possa essersi messo nei guai con la giustizia. Federigo chiede se Lucia possa tornare a vivere sicura in paese, al che don Abbondio ribatte che al momento non c'è pericolo per lei, data l'assenza del suo persecutore, ma bisognerebbe che il cardinale fosse sempre presente. Federigo afferma di voler trovare per la ragazza un rifugio sicuro e dispone di far venire lei e la madre in paese il giorno dopo, congedandosi poi dal curato: questi crede ingenuamente che Agnese non abbia rivelato al superiore della sua condotta e dunque si rallegra, ignorando che il prelato attende il momento più opportuno per rimproverarlo delle sue mancanze.
Lucia e Agnese in casa del sarto. Donna Prassede
F. Gonin, Il sarto, Lucia e Agnese
In realtà le preoccupazioni del cardinale riguardo a Lucia sono inutili, perché nei giorni precedenti sono accadute alcune cose che l'autore riferisce facendo un passo indietro: Lucia e Agnese sono ospiti nella casa del sarto, nel villaggio vicino al castello dell'innominato, dove la ragazza chiede di lavorare e passa tutto il tempo a cucire, mentre la madre nutre speranze per l'avvenire e sogna una riunificazione con Renzo, senza immaginare che tali discorsi suonano molto penosi alle orecchie della figlia (Lucia, infatti, non le ha ancora rivelato per vergogna la faccenda del voto). Con i padroni di casa è nata un'affettuosa amicizia e Agnese chiacchiera amabilmente con la moglie del sarto, mentre quest'ultimo racconta talvolta alle due donne delle storie che trae dai libri popolari che ama leggere.
Poco lontano dal paese, in una casa di villeggiatura, è presente in quei giorni una coppia di nobili milanesi, don Ferrante e donna Prassede: quest'ultima è una gentildonna che sente il bisogno di fare del bene a tutti, non tanto per inclinazione caritatevole quanto piuttosto per capriccio personale, cosicché usa spesso dei mezzi sconvenienti e impone le sue attenzioni anche a chi non le vorrebbe, finendo per apparire il più delle volte grottesca e ridicola. La donna ha sentito parlare di Lucia e delle sue traversie, quindi decide di incontrarla e un giorno manda una carrozza alla casa del sarto per portare madre e figlia alla sua villa, cosa che imbarazza non poco la ragazza che vorrebbe rifiutare l'invito: il sarto, tuttavia, insiste con la giovane perché non faccia un torto a una signora potente che potrebbe esserle d'aiuto, per cui alla fine Lucia si convince e si reca con la madre alla casa di donna Prassede, che riserva loro una calorosa accoglienza.
Poco lontano dal paese, in una casa di villeggiatura, è presente in quei giorni una coppia di nobili milanesi, don Ferrante e donna Prassede: quest'ultima è una gentildonna che sente il bisogno di fare del bene a tutti, non tanto per inclinazione caritatevole quanto piuttosto per capriccio personale, cosicché usa spesso dei mezzi sconvenienti e impone le sue attenzioni anche a chi non le vorrebbe, finendo per apparire il più delle volte grottesca e ridicola. La donna ha sentito parlare di Lucia e delle sue traversie, quindi decide di incontrarla e un giorno manda una carrozza alla casa del sarto per portare madre e figlia alla sua villa, cosa che imbarazza non poco la ragazza che vorrebbe rifiutare l'invito: il sarto, tuttavia, insiste con la giovane perché non faccia un torto a una signora potente che potrebbe esserle d'aiuto, per cui alla fine Lucia si convince e si reca con la madre alla casa di donna Prassede, che riserva loro una calorosa accoglienza.
Donna Prassede offre ospitalità a Lucia
F. Gonin, Lucia e Agnese da donna Prassede
I modi di donna Prassede, per quanto ispirati da una certa superiorità, risultano alquanto accattivanti agli occhi di Lucia e Agnese, tanto più che la nobildonna, avendo sentito dire che il cardinal Borromeo sta cercando un rifugio per la ragazza, propone di ospitarla nella sua casa di Milano, dove la giovane potrà dare una mano alla servitù senza essere addetta a nessun lavoro in particolare. Donna Prassede si offre di comunicare la cosa al cardinale ed è determinata in questo suo progetto non solo perché vuole giovare a Lucia, ma soprattutto perché è convinta che la ragazza, promessa a un poco di buono e ricercato dalla giustizia come Renzo, sia su una cattiva strada e dunque ha preso l'impegno di rimetterla sulla retta via, benché ovviamente non dica nulla in proposito (l'aspetto di Lucia, ritroso e pudico in apparenza, la convince ancor di più nella sua convinzione, poiché è persuasa che la ragazza nasconda un animo caparbio). Lucia e Agnese si guardano in viso e convengono sull'opportunità di accettare la proposta, se non altro in quanto la villa di donna Prassede è molto vicina al loro paese, quindi rispondono di sì e la nobildonna promette che invierà una lettera al cardinale per informarlo della cosa. La lettera viene poi scritta dal marito don Ferrante, che passa per un letterato e la compone con la consueta maestria, quindi la missiva viene mandata a casa del sarto (di lì a pochi giorni giunge la portantina mandata dal cardinale, che porta le due donne al loro paese).
Lucia e Agnese tornano al paese
F. Gonin, Lucia e Agnese festeggiate
Lucia e Agnese arrivano al paese e smontano alla casa parrocchiale, dove il cardinale le attende e dove il cappellano crocifero si affretta a dare loro qualche ragguaglio su come dovranno comportarsi col prelato (il prete è sempre preoccupato del poco ordine che regna intorno al Borromeo, per la sua troppa bontà). Il cardinale sta parlando con don Abbondio, che dunque deve allontanarsi senza poter dare a sua volta l'imbeccata alle due donne e limitandosi a una veloce occhiata; in seguito Agnese, dopo uno scambio di cortesie con Federigo, gli mostra la lettera di don Ferrante e il prelato, dopo averla letta, conviene che l'invito di donna Prassede è benevolo e che la casa dei due nobili sarà un rifugio sicuro per Lucia. Il prelato ha parole di consolazione e di conforto per le due donne, che vengono esortate a confidare nella Provvidenza divina, quindi sono congedate dal cardinale ed escono dalla chiesa, venendo festeggiate con grande affetto da molti amici e amiche di paese, che le portano a casa tra mille domande e offrendo il loro aiuto, in modo sincero ma certo alquanto tardivamente (l'anonimo, osserva con ironia l'autore, ha coniato il proverbio in base al quale si hanno molte offerte di aiuto quando meno se ne ha bisogno). Tutte quelle attenzioni perlomeno distraggono Lucia dai suoi pensieri, così come la breve permanenza nella loro casa, poi le due donne si recano in chiesa dove hanno luogo le funzioni officiate dal cardinale.
Il cardinale e don Abbondio: le giustificazioni del curato
F. Gonin, Il cardinale e don Abbondio
Alla fine delle funzioni don Abbondio corre a vedere se Perpetua ha predisposto tutto per la cena, ma viene chiamato dal cardinale che inizia con lui un discorso che preannuncia di non essere molto breve, poiché il prelato gli chiede per quale motivo non abbia celebrato il matrimonio tra Renzo e Lucia. Don Abbondio capisce con amarezza che Agnese deve aver raccontato tutto e tenta di opporre al suo superiore delle deboli giustificazioni, che però Federigo rintuzza tornando a chiedere il motivo della condotta del curato. Questi rivela di aver ricevuto delle minacce e non vorrebbe aggiungere altri dettagli, ma poiché il cardinale torna a chiedere conto di quanto avvenuto don Abbondio è costretto a raccontare tutta la storia e il solo particolare che omette è il nome di don Rodrigo, da lui definito un "gran signore".
Il cardinale si mostra assai stupito delle giustificazioni del curato e don Abbondio ribadisce che era in pericolo la sua vita, al che tuttavia Federigo lo rimprovera ricordandogli che il ministero del sacerdozio non dà certo alcuna garanzia di incolumità e, anzi, i parroci sono come agnelli tra i lupi, inviati a predicare il Vangelo anche a chi obbedisce alle leggi della violenza e dell'odio, chiamati ad addossarsi tutti i rischi connessi a questa funzione (come del resto, ricorda il cardinale, fece lo stesso Gesù Cristo una volta sceso sulla Terra). Nessun prete può porre come condizione per fare il proprio dovere quella di aver salva la vita, nel che don Abbondio ha mancato in modo vergognoso e sarebbe assai grave se tutti gli uomini di Chiesa si comportassero come lui, che ha piegato il capo di fronte alla violenza e alla prevaricazione.
Il cardinale si mostra assai stupito delle giustificazioni del curato e don Abbondio ribadisce che era in pericolo la sua vita, al che tuttavia Federigo lo rimprovera ricordandogli che il ministero del sacerdozio non dà certo alcuna garanzia di incolumità e, anzi, i parroci sono come agnelli tra i lupi, inviati a predicare il Vangelo anche a chi obbedisce alle leggi della violenza e dell'odio, chiamati ad addossarsi tutti i rischi connessi a questa funzione (come del resto, ricorda il cardinale, fece lo stesso Gesù Cristo una volta sceso sulla Terra). Nessun prete può porre come condizione per fare il proprio dovere quella di aver salva la vita, nel che don Abbondio ha mancato in modo vergognoso e sarebbe assai grave se tutti gli uomini di Chiesa si comportassero come lui, che ha piegato il capo di fronte alla violenza e alla prevaricazione.
I rimproveri del cardinale a don Abbondio
F. Gonin, Il pulcino e il falco
Don Abbondio resta a capo chino di fronte ai discorsi del cardinale ed è simile a un pulcino che è stato ghermito da un falco e portato a un'altezza sconosciuta, in un'aria che non ha mai respirato: vistosi costretto a rispondere qualche cosa, il curato ribadisce che ha agito così per timore della propria vita e non sa proprio cosa avrebbe potuto ottenere opponendosi a un signore potente, che può raggiungere qualunque obiettivo grazie alla forza e alla violenza. Il cardinale ribadisce a sua volta che nessuno pretendeva che don Abbondio avesse la meglio su chi ha la forza e agisce da prepotente, ma il suo dovere era di fare ciò che prescriveva il suo abito e in questo egli ha mancato, nonostante la proibizione ricevuta con la violenza. Il curato pensa tra sé che, in fin dei conti, al suo superiore sta più a cuore l'amore dei due promessi che non la vita di un suo sacerdote e torna poi a dire che forse ha avuto torto, ma che uno non può darsi il coraggio se ne è privo: il Borromeo ribatte che don Abbondio non avrebbe dovuto abbracciare il sacerdozio se non ha quel coraggio che gli è così necessario, ma che in ogni caso avrebbe potuto implorarlo e ottenerlo da Dio, proprio come i molti martiri che hanno affrontato la morte traendo la forza dall'ispirazione divina e che, certo, non erano meno attaccati alla vita di quanto non sia lui. E comunque, prosegue il cardinale, se anche don Abbondio ha temuto per la propria vita, come può non aver temuto anche per i fedeli affidati alle sue cure e non aver dunque scacciato quell'indegno timore in nome dell'amore che deve senz'altro provare per i propri parrocchiani? Cosa gli hanno pertanto ispirato il timore e l'amore? A questo punto il cardinale resta in silenzio e il suo atteggiamento indica chiaramente che attende una risposta da parte del suo interlocutore.
Temi principali e collegamenti
- Il capitolo è il primo di un "trittico" (formato anche dai capp. XXVI-XXVII) che funge da raccordo con l'ultima parte del romanzo, introdotta dall'affresco storico della carestia e della successiva calata del Lanzichenecchi (capp. XXVIII-XXX) e poi dallo scoppio della peste nel Milanese (capp. XXXI-XXXII). Nella prima parte dell'episodio è narrato il ritorno di Lucia e Agnese al paese, in concomitanza con la visita pastorale del cardinal Borromeo e in preparazione della nuova separazione delle due donne, poiché Lucia si recherà poi a Milano; la seconda parte è occupata dal colloquio del cardinale con don Abbondio, che viene rimproverato dal superiore per le sue mancanze (il confronto tra i due si completerà all'inizio del capitolo seguente).
- All'inizio del capitolo don Rodrigo lascia il paese per recarsi a Milano, irritato degli sviluppi imprevisti della vicenda e per evitare di dover omaggiare il cardinale: non riapparirà più nelle vicende del romanzo, sino all'inizio del cap. XXXIII quando si scoprirà ammalato di peste. La sua partenza è ironicamente paragonata dall'autore a quella di Catilina da Roma, similitudine in cui è evidente la sproporzione tra i due personaggi (così come risulta chiara anche la differente levatura morale del signorotto e dell'innominato, il potente bandito che si è ravveduto delle sue scelleratezze).
- L'arrivo del cardinale al paese è descritto come un evento festoso, con l'accorrere disordinato di tutti gli abitanti intorno al corteo del prelato e l'accalcarsi del popolo attorno alla sua portantina: l'autore riproduce una scena che secondo i documenti storici dell'epoca si ripeteva regolarmente in occasione delle visite pastorali del Borromeo e lui stesso cita l'episodio del suo primo ingresso in duomo a Milano, quando rischiò di essere schiacciato dalla folla.
- Fanno la loro apparizione nel romanzo don Ferrante e donna Prassede, i due nobili milanesi che ospiteranno Lucia nella loro casa per tutta l'ultima parte della vicenda: del primo ci verrà fornito un ironico ritratto nel cap. XXVII, mentre della nobildonna ci viene detto subito che si sente in dovere di "fare del bene" a tutti per puntiglio personale, spesso in maniera grottesca e inopportuna (lo si vedrà anche con Lucia, quando tenterà di toglierle dalla testa Renzo finendo per alimentare nella giovane la nostalgia e il ricordo del suo innamorato). La ragazza resterà nella loro casa sino allo scoppio dell'epidemia di peste e Renzo la cercherà lì in occasione del suo ritorno a Milano (cap. XXXIV).
- Nell'ultima parte del capitolo è descritto il confronto tra don Abbondio e il cardinal Borromeo, che lo rimprovera aspramente per aver mancato il suo dovere non celebrando il matrimonio di Renzo e Lucia: nel confronto è evidente la sproporzione tra il curato, individuo egoista e meschino che pensa solo alla propria vita e ai suoi interessi, e il prelato, animato da una fede vivissima e con un altissimo concetto della missione sacerdotale (sul punto si veda oltre). Il cardinale usa un linguaggio elevato e solenne, ricco di citazioni scritturali, cui fanno comicamente da contrappunto gli "a parte" di don Abbondio che tra sé trova incomprensibile tanto zelo per "gli amori di due giovani", mentre era in gioco la vita di un "povero sacerdote" (il colloquio viene interrotto alla fine del capitolo in un'atmosfera di attesa e sospensione, per essere ripreso all'inizio del successivo).
I rimproveri del cardinale a don Abbondio: responsabilità individuale e collettiva
T. Scarpelli, Don Abbondio e il cardinale
Il colloquio tra don Abbondio e il cardinal Borromeo, che si snoda tra la fine del cap. XXV e l'inizio del XXVI, ha per oggetto i rimproveri del prelato per il comportamento scorretto del sacerdote ed è il primo momento del romanzo in cui il curato, messo di fronte alle sue mancanze e al rifiuto di celebrare il matrimonio di Renzo e Lucia, sembra toccato nel suo cuore e prova qualcosa di simile al pentimento, salvo poi tornare a farsi dominare come sempre dalla paura: i richiami dell'arcivescovo sortiscono un effetto sull'interlocutore e lo spingono a riflettere sui suoi errori, proprio come se ascoltasse la voce della coscienza, tuttavia sul piano del rapporto superiore-subordinato i rimproveri di Federigo appaiono in certa misura eccessivi e tale sproporzione è avvertita dallo stesso autore, che infatti all'inizio del cap. XXVI osserva che vi è "un non so che di strano in questo mettere in campo, con così poca fatica, tanti bei precetti di fortezza e di carità, di premura operosa per gli altri, di sacrifizio illimitato di sé", concludendo con bonaria ironia che quelle cose vengono dette a don Abbondio "da uno che poi le faceva", benché questa appaia come una spiegazione non del tutto convincente. Non va scordato infatti che la posizione del cardinale non è in nessun caso paragonabile a quella di un povero curato di campagna che si trova in effetti esposto alle prepotenze e ai soprusi di un aristocratico come don Rodrigo, dal momento che Federigo è ricco, nobile, vive circondato da privilegi e protetto da servitori, dunque non si troverà mai ad affrontare le concrete situazioni della vita di ogni giorno che invece deve fronteggiare don Abbondio e, come lui, tutti gli altri parroci dei piccoli centri rurali sottoposti alla signoria di un tirannello locale. Lo stesso don Abbondio avverte questa sproporzione tra lui e il superiore, quando gli scappa detto che "bisognerebbe esser ne’ panni d’un povero prete, e essersi trovato al punto", osservazione alla quale Federigo non ribatte con rimproveri ma con la confessione della triste condizione di chi esercita un'autorità: egli sa che deve dare l'esempio e non comportarsi come il dottore della legge cui Gesù nel Vangelo rimprovera di addossare agli altri pesi che "lui non toccherebbe con un dito", dunque il cardinale è ben consapevole di esigere da don Abbondio dei comportamenti che lui, nell'esercizio del suo episcopato, non può assumere per l'evidente distanza che lo separa dai parroci a lui subordinati (anche se questo, ovviamente, non lo esime dalla responsabilità di correggere i loro errori, pur ammettendo la propria debolezza e le sue eventuali mancanze).
Federigo è animato da un grande zelo e da ardente spirito di carità, per cui il suo rimprovero a don Abbondio è a fin di bene e giustificato dalla condotta indegna del curato, ma agli occhi di noi moderni il suo discorso ha qualcosa di forzato e ciò dipende dal fatto che l'autore non tiene conto del limite tra la responsabilità individuale di don Abbondio e quella, che potremmo definire collettiva, delle istituzioni che avrebbero dovuto proteggerlo, ossia la giustizia e la Chiesa: il curato è colpevole in quanto ha mancato al suo dovere e ha mentito a Renzo sui veri motivi per cui ha rimandato le nozze, ma tale comportamento si spiega alla luce dell'oggettiva situazione in cui l'uomo si è venuto a trovare, la quale, se non giustifica i suoi errori, quanto meno costituisce i presupposti della condotta vile e sbagliata del sacerdote. Don Abbondio sa che don Rodrigo è noto "per non minacciare invano", teme di essere ucciso o duramente punito se non eseguirà i suoi ordini, e oltre a ciò sa che la giustizia è connivente col potere del nobile, come la sua amicizia col podestà e l'Azzecca-garbugli confermano; quanto alla Chiesa, essa non è certo esente da macchie o da legami ambigui col potere politico, cosa resa evidente dal comportamento del padre provinciale dei cappuccini che subisce le pressioni del conte zio e trasferisce padre Cristoforo, dunque il curato non può aspettarsi protezione o aiuto neppure dall'istituzione di cui fa parte (incluso il cardinale che, come lo stesso don Abbondio afferma, "non può esser per tutto"). Il punto è che Manzoni ha una visione per così dire "tragica" dell'esistenza umana e la responsabilità delle azioni ricade sempre tutta e soltanto sull'individuo che le compie, il che vale tanto per i personaggi potenti, oggetto di critiche anche dure nel romanzo, quanto per quelli umili come il curato: quando don Abbondio nel cap. I incontra i bravi "al confluente... delle due viottole", è posto di fronte a un vero e proprio bivio morale, dal momento che di fronte a sé ha solo due vie che può percorrere per uscire dalla situazione in cui si trova, ovvero ignorare le minacce e celebrare il matrimonio (e, così facendo, rischiare di essere ucciso, come il cardinale nel suo discorso non ha in effetti escluso), oppure piegare la testa di fronte all'iniquità e tacere, come ha poi del resto fatto in modo conforme al suo carattere. Di fronte a casi simili si può essere eroi o vili, e don Abbondio, dal momento che non è un eroe, ha scelto la via più facile, il che giustifica i duri rimproveri che il cardinale gli rivolge nel dialogo che è oggetto di analisi; il curato è colpevole di fronte alla sua coscienza e non può, secondo l'autore, addurre come giustificazione il contesto sociale o politico in cui si è trovato ad agire, proprio come (su un piano evidentemente più alto, ma analogo sotto il profilo morale) la responsabilità per i processi contro gli untori a Milano è per Manzoni da imputare soltanto ai giudici, di fronte ai quali si apriva un "bivio" non diverso da quello del curato e i quali hanno scelto, proprio come don Abbondio, la via più facile e funesta per tirarsi fuori dalla situazione imbarazzante in cui si sono trovati. Una simile visione del mondo è certo molto pessimistica ed è influenzata dal pensiero cristiano del romanziere e, in particolare, dal giansenismo, che tende a dividere gli uomini in eletti e reprobi e ad accentuare la responsabilità morale di ognuno, ed è in ultima analisi una concezione della società di tipo "pre-moderno", che spiega perché alcuni aspetti della morale manzoniana risultino inaccettabili per i lettori di oggi e abbiano suscitato più di una critica verso il "rigorismo" di alcune posizioni dell'autore: oggi siamo portati ad avere una visione democratica dello Stato e delle istituzioni e, soprattutto, è ormai superata quella stratificazione della società in classi separate che era ancora ben presente nel primo Ottocento e che Manzoni condivide, contesto nel quale l'atteggiamento severo e censorio del cardinale trova ampia giustificazione (Federigo è un uomo moralmente e socialmente superiore a don Abbondio, dunque può e deve richiamarlo al suo ministero anche in ragione di questa sua superiorità, essendo scontato che lui non si troverà mai ad affrontare gli stessi pericoli che il curato ha cercato senza successo di evitare). Per Manzoni l'individuo è solo di fronte al male del mondo e ciò vale anche per il povero sacerdote che è soldato della militia Christi, dunque deve essere pronto ad affrontare il martirio qualora ciò sia necessario (non a caso il cardinale parla a don Abbondio dei "martiri" che andarono coraggiosamente incontro alla morte) e non può certo pretendere di essere protetto o difeso dal gruppo sociale o dall'istituzione cui appartiene: ciò segna la notevole distanza culturale che ci separa dal mondo dell'autore, anche se la questione è ancora attuale e non priva di problematica, visto che nella società dei giorni nostri il confine tra responsabilità del singolo e delle istituzioni non è sempre nettamente tracciato e dunque l'episodio offre spunti di riflessione su un problema (quello del rapporto tra cittadini e Stato in vari settori della vita associata, da quello giudiziario a quello politico) che appare non ancora pienamente risolto e fonte ancor oggi di gravi contraddizioni.
Per approfondire: L. Pirandello, L'umorismo di don Abbondio; A. Spranzi, L'immoralità di don Abbondio.
Federigo è animato da un grande zelo e da ardente spirito di carità, per cui il suo rimprovero a don Abbondio è a fin di bene e giustificato dalla condotta indegna del curato, ma agli occhi di noi moderni il suo discorso ha qualcosa di forzato e ciò dipende dal fatto che l'autore non tiene conto del limite tra la responsabilità individuale di don Abbondio e quella, che potremmo definire collettiva, delle istituzioni che avrebbero dovuto proteggerlo, ossia la giustizia e la Chiesa: il curato è colpevole in quanto ha mancato al suo dovere e ha mentito a Renzo sui veri motivi per cui ha rimandato le nozze, ma tale comportamento si spiega alla luce dell'oggettiva situazione in cui l'uomo si è venuto a trovare, la quale, se non giustifica i suoi errori, quanto meno costituisce i presupposti della condotta vile e sbagliata del sacerdote. Don Abbondio sa che don Rodrigo è noto "per non minacciare invano", teme di essere ucciso o duramente punito se non eseguirà i suoi ordini, e oltre a ciò sa che la giustizia è connivente col potere del nobile, come la sua amicizia col podestà e l'Azzecca-garbugli confermano; quanto alla Chiesa, essa non è certo esente da macchie o da legami ambigui col potere politico, cosa resa evidente dal comportamento del padre provinciale dei cappuccini che subisce le pressioni del conte zio e trasferisce padre Cristoforo, dunque il curato non può aspettarsi protezione o aiuto neppure dall'istituzione di cui fa parte (incluso il cardinale che, come lo stesso don Abbondio afferma, "non può esser per tutto"). Il punto è che Manzoni ha una visione per così dire "tragica" dell'esistenza umana e la responsabilità delle azioni ricade sempre tutta e soltanto sull'individuo che le compie, il che vale tanto per i personaggi potenti, oggetto di critiche anche dure nel romanzo, quanto per quelli umili come il curato: quando don Abbondio nel cap. I incontra i bravi "al confluente... delle due viottole", è posto di fronte a un vero e proprio bivio morale, dal momento che di fronte a sé ha solo due vie che può percorrere per uscire dalla situazione in cui si trova, ovvero ignorare le minacce e celebrare il matrimonio (e, così facendo, rischiare di essere ucciso, come il cardinale nel suo discorso non ha in effetti escluso), oppure piegare la testa di fronte all'iniquità e tacere, come ha poi del resto fatto in modo conforme al suo carattere. Di fronte a casi simili si può essere eroi o vili, e don Abbondio, dal momento che non è un eroe, ha scelto la via più facile, il che giustifica i duri rimproveri che il cardinale gli rivolge nel dialogo che è oggetto di analisi; il curato è colpevole di fronte alla sua coscienza e non può, secondo l'autore, addurre come giustificazione il contesto sociale o politico in cui si è trovato ad agire, proprio come (su un piano evidentemente più alto, ma analogo sotto il profilo morale) la responsabilità per i processi contro gli untori a Milano è per Manzoni da imputare soltanto ai giudici, di fronte ai quali si apriva un "bivio" non diverso da quello del curato e i quali hanno scelto, proprio come don Abbondio, la via più facile e funesta per tirarsi fuori dalla situazione imbarazzante in cui si sono trovati. Una simile visione del mondo è certo molto pessimistica ed è influenzata dal pensiero cristiano del romanziere e, in particolare, dal giansenismo, che tende a dividere gli uomini in eletti e reprobi e ad accentuare la responsabilità morale di ognuno, ed è in ultima analisi una concezione della società di tipo "pre-moderno", che spiega perché alcuni aspetti della morale manzoniana risultino inaccettabili per i lettori di oggi e abbiano suscitato più di una critica verso il "rigorismo" di alcune posizioni dell'autore: oggi siamo portati ad avere una visione democratica dello Stato e delle istituzioni e, soprattutto, è ormai superata quella stratificazione della società in classi separate che era ancora ben presente nel primo Ottocento e che Manzoni condivide, contesto nel quale l'atteggiamento severo e censorio del cardinale trova ampia giustificazione (Federigo è un uomo moralmente e socialmente superiore a don Abbondio, dunque può e deve richiamarlo al suo ministero anche in ragione di questa sua superiorità, essendo scontato che lui non si troverà mai ad affrontare gli stessi pericoli che il curato ha cercato senza successo di evitare). Per Manzoni l'individuo è solo di fronte al male del mondo e ciò vale anche per il povero sacerdote che è soldato della militia Christi, dunque deve essere pronto ad affrontare il martirio qualora ciò sia necessario (non a caso il cardinale parla a don Abbondio dei "martiri" che andarono coraggiosamente incontro alla morte) e non può certo pretendere di essere protetto o difeso dal gruppo sociale o dall'istituzione cui appartiene: ciò segna la notevole distanza culturale che ci separa dal mondo dell'autore, anche se la questione è ancora attuale e non priva di problematica, visto che nella società dei giorni nostri il confine tra responsabilità del singolo e delle istituzioni non è sempre nettamente tracciato e dunque l'episodio offre spunti di riflessione su un problema (quello del rapporto tra cittadini e Stato in vari settori della vita associata, da quello giudiziario a quello politico) che appare non ancora pienamente risolto e fonte ancor oggi di gravi contraddizioni.
Per approfondire: L. Pirandello, L'umorismo di don Abbondio; A. Spranzi, L'immoralità di don Abbondio.
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(voce narrante di Silvia Cecchini).
Capitolo XXV
Il giorno seguente, nel paesetto di Lucia e in tutto il territorio di Lecco, non si parlava che di lei, dell’innominato, dell’arcivescovo e d’un altro tale, che, quantunque gli piacesse molto d’andar per le bocche degli uomini, n’avrebbe, in quella congiuntura, fatto volentieri di meno: vogliam dire il signor don Rodrigo.
Non già che prima d’allora non si parlasse de’ fatti suoi; ma eran discorsi rotti, segreti: bisognava che due si conoscessero bene bene tra di loro, per aprirsi sur un tale argomento. E anche, non ci mettevano tutto il sentimento di che sarebbero stati capaci: perché gli uomini, generalmente parlando, quando l’indegnazione non si possa sfogare senza grave pericolo, non solo dimostran meno, o tengono affatto in sé quella che sentono, ma ne senton meno in effetto. Ma ora, chi si sarebbe tenuto d’informarsi, e di ragionare d’un fatto così strepitoso, in cui s’era vista la mano del cielo, e dove facevan buona figura due personaggi tali? uno, in cui un amore della giustizia tanto animoso andava unito a tanta autorità; l’altro, con cui pareva che la prepotenza in persona si fosse umiliata, che la braverìa fosse venuta, per dir così, a render l’armi, e a chiedere il riposo. A tali paragoni, il signor don Rodrigo diveniva un po’ piccino. Allora si capiva da tutti [1] cosa fosse tormentar l’innocenza per poterla disonorare, perseguitarla con un’insistenza così sfacciata, con sì atroce violenza, con sì abbominevoli insidie. Si faceva, in quell’occasione, una rivista di tant’altre prodezze di quel signore: e su tutto la dicevan come la sentivano, incoraggiti ognuno dal trovarsi d’accordo con tutti. Era un susurro, un fremito generale; alla larga però, per ragione di tutti que’ bravi che colui aveva d’intorno. Una buona parte di quest’odio pubblico cadeva ancora sui suoi amici e cortigiani. Si rosolava bene [2] il signor podestà, sempre sordo e cieco e muto sui fatti di quel tiranno; ma alla lontana, anche lui, perché, se non aveva i bravi, aveva i birri. Col dottor Azzecca-garbugli, che non aveva se non chiacchiere e cabale [3], e con altri cortigianelli suoi pari, non s’usava tanti riguardi: eran mostrati a dito, e guardati con occhi torti; di maniera che, per qualche tempo, stimaron bene di non farsi veder per le strade. Don Rodrigo, fulminato da quella notizia così impensata, così diversa dall’avviso che aspettava di giorno in giorno, di momento in momento, stette rintanato nel suo palazzotto, solo co’ suoi bravi, a rodersi, per due giorni; il terzo, partì per Milano. Se non fosse stato altro che quel mormoracchiare della gente, forse, poiché le cose erano andate tant’avanti, sarebbe rimasto apposta per affrontarlo, anzi per cercar l’occasione di dare un esempio a tutti sopra qualcheduno de’ più arditi; ma chi lo cacciò, fu l’essersi saputo per certo, che il cardinale veniva da quelle parti. Il conte zio, il quale di tutta quella storia non sapeva se non quel che gli aveva detto Attilio, avrebbe certamente preteso che, in una congiuntura simile, don Rodrigo facesse una gran figura, e avesse in pubblico dal cardinale le più distinte accoglienze: ora, ognun vede come ci fosse incamminato. L’avrebbe preteso, e se ne sarebbe fatto render conto minutamente; perché era un’occasione importante di far vedere in che stima fosse tenuta la famiglia da una primaria autorità. Per levarsi da un impiccio così noioso, don Rodrigo, alzatosi una mattina prima del sole, si mise in una carrozza, col Griso e con altri bravi, di fuori, davanti e di dietro; e, lasciato l’ordine che il resto della servitù venisse poi in seguito, partì come un fuggitivo, come (ci sia un po’ lecito di sollevare i nostri personaggi con qualche illustre paragone), come Catilina da Roma [4], sbuffando, e giurando di tornar ben presto, in altra comparsa [5], a far le sue vendette. Intanto, il cardinale veniva visitando, a una per giorno, le parrocchie del territorio di Lecco. Il giorno in cui doveva arrivare a quella di Lucia, già una gran parte degli abitanti erano andati sulla strada a incontrarlo. All’entrata del paese, proprio accanto alla casetta delle nostre due donne, c’era un arco trionfale, costrutto di stili per il ritto, e di pali per il traverso, rivestito di paglia e di borraccina, e ornato di rami verdi di pugnitopo e d’agrifoglio, distinti di bacche scarlatte [6]; la facciata della chiesa era parata di tappezzerie; al davanzale d’ogni finestra pendevano coperte e lenzoli distesi, fasce di bambini disposte a guisa di pendoni [7]; tutto quel poco necessario che fosse atto a fare, o bene o male, figura di superfluo. Verso le ventidue [8], ch’era l’ora in cui s’aspettava il cardinale, quelli ch’eran rimasti in casa, vecchi, donne e fanciulli la più parte, s’avviarono anche loro a incontrarlo, parte in fila, parte in truppa, preceduti da don Abbondio, uggioso in mezzo a tanta festa, e per il fracasso che lo sbalordiva, e per il brulicar della gente innanzi e indietro, che, come andava ripetendo, gli faceva girar la testa, e per il rodìo segreto che le donne avesser potuto cicalare, e dovesse toccargli a render conto del matrimonio. Quand’ecco si vede spuntare il cardinale, o per dir meglio, la turba in mezzo a cui si trovava nella sua lettiga, col suo seguito d’intorno; perché di tutto questo non si vedeva altro che un indizio in aria, al di sopra di tutte le teste, un pezzo della croce portata dal cappellano [9] che cavalcava una mula. La gente che andava con don Abbondio, s’affrettò alla rinfusa, a raggiunger quell’altra: e lui, dopo aver detto, tre e quattro volte: - adagio; in fila; cosa fate? - si voltò indispettito; e seguitando a borbottare: - è una babilonia, è una babilonia, - entrò in chiesa, intanto ch’era vota; e stette lì ad aspettare. Il cardinale veniva avanti, dando benedizioni con la mano, e ricevendone dalle bocche della gente, che quelli del seguito avevano un bel da fare a tenere un po’ indietro. Per esser del paese di Lucia, avrebbe voluto quella gente fare all’arcivescovo dimostrazioni straordinarie; ma la cosa non era facile, perché era uso che, per tutto dove arrivava, tutti facevano più che potevano. Già sul principio stesso del suo pontificato [10], nel primo solenne ingresso in duomo, la calca e l’impeto della gente addosso a lui era stato tale, da far temere della sua vita; e alcuni gentiluomini che gli eran più vicini, avevano sfoderate le spade, per atterrire e respinger la folla. Tanto c’era in que’ costumi di scomposto e di violento, che, anche nel far dimostrazioni di benevolenza a un vescovo in chiesa, e nel moderarle, si dovesse andar vicino all’ammazzare. E quella difesa non sarebbe forse bastata, se il maestro e il sottomaestro delle cerimonie, un Clerici e un Picozzi, giovani preti che stavan bene di corpo e d’animo, non l’avessero alzato sulle braccia, e portato di peso, dalla porta fino all’altar maggiore. D’allora in poi, in tante visite episcopali ch’ebbe a fare, il primo entrar nella chiesa si può senza scherzo contarlo tra le sue pastorali fatiche, e qualche volta, tra i pericoli passati da lui. Entrò anche in questa come poté; andò all’altare e, dopo essere stato alquanto in orazione, fece, secondo il suo solito, un piccol discorso al popolo, sul suo amore per loro, sul suo desiderio della loro salvezza, e come dovessero disporsi alle funzioni del giorno dopo. Ritiratosi poi nella casa del parroco, tra gli altri discorsi, gli domandò informazione di Renzo. Don Abbondio disse ch’era un giovine un po’ vivo, un po’ testardo, un po’ collerico. Ma, a più particolari e precise domande, dovette rispondere ch’era un galantuomo, e che anche lui non sapeva capire come, in Milano, avesse potuto fare tutte quelle diavolerie che avevan detto. - In quanto alla giovine, - riprese il cardinale, - pare anche a voi che possa ora venir sicuramente a dimorare in casa sua? - Per ora, - rispose don Abbondio, - può venire e stare, come vuole: dico, per ora; ma, - soggiunse poi con un sospiro, - bisognerebbe che vossignoria illustrissima fosse sempre qui, o almeno vicino. - Il Signore è sempre vicino, - disse il cardinale: - del resto, penserò io a metterla al sicuro -. E diede subito ordine che, il giorno dopo, si spedisse di buon’ora la lettiga, con una scorta, a prender le due donne. Don Abbondio uscì di lì tutto contento che il cardinale gli avesse parlato de’ due giovani, senza chiedergli conto del suo rifiuto di maritarli. “Dunque non sa niente, - diceva tra sé: - Agnese è stata zitta: miracolo! È vero che s’hanno a tornare a vedere; ma le daremo un’altra istruzione, le daremo”. E non sapeva, il pover’uomo, che Federigo non era entrato in quell’argomento, appunto perché intendeva di parlargliene a lungo, in tempo più libero; e, prima di dargli ciò che gli era dovuto, voleva sentire anche le sue ragioni. Ma i pensieri del buon prelato per metter Lucia al sicuro eran divenuti inutili: dopo che l’aveva lasciata, eran nate delle cose, che dobbiamo raccontare. Le due donne, in que’ pochi giorni ch’ebbero a passare nella casuccia ospitale del sarto, avevan ripreso, per quanto avevan potuto, ognuna il suo antico tenor di vita. Lucia aveva subito chiesto da lavorare; e, come aveva fatto nel monastero, cuciva, cuciva, ritirata in una stanzina, lontano dagli occhi della gente. Agnese andava un po’ fuori, un po’ lavorava in compagnia della figlia. I loro discorsi eran tanto più tristi, quanto più affettuosi: tutt’e due eran preparate a una separazione; giacché la pecora non poteva tornare a star così vicino alla tana del lupo: e quando, quale, sarebbe il termine di questa separazione? L’avvenire era oscuro, imbrogliato: per una di loro principalmente. Agnese tanto ci andava facendo dentro le sue congetture allegre: che Renzo finalmente, se non gli era accaduto nulla di sinistro, dovrebbe presto dar le sue nuove; e se aveva trovato da lavorare e da stabilirsi, se (e come dubitarne?) stava fermo nelle sue promesse, perché non si potrebbe andare a star con lui? E di tali speranze, ne parlava e ne riparlava alla figlia, per la quale non saprei dire se fosse maggior dolore il sentire, o pena il rispondere. Il suo gran segreto l’aveva sempre tenuto in sé; e, inquietata bensì dal dispiacere di fare a una madre così buona un sotterfugio, che non era il primo; ma trattenuta, come invincibilmente, dalla vergogna e da’ vari timori che abbiam detto di sopra, andava d’oggi in domani, senza dir nulla. I suoi disegni eran ben diversi da quelli della madre, o, per dir meglio, non n’aveva; s’era abbandonata alla Provvidenza. Cercava dunque di lasciar cadere, o di stornare quel discorso; o diceva, in termini generali, di non aver più speranza, né desiderio di cosa di questo mondo, fuorché di poter presto riunirsi con sua madre; le più volte, il pianto veniva opportunamente a troncar le parole. - Sai perché ti par così? - diceva Agnese: - perché hai tanto patito, e non ti par vero che la possa voltarsi in bene. Ma lascia fare al Signore; e se... Lascia che si veda un barlume, appena un barlume di speranza; e allora mi saprai dire se non pensi più a nulla -. Lucia baciava la madre, e piangeva. Del resto, tra loro e i loro ospiti era nata subito una grand’amicizia: e dove nascerebbe, se non tra beneficati e benefattori, quando gli uni e gli altri son buona gente? Agnese specialmente faceva di gran chiacchiere con la padrona. Il sarto poi dava loro un po’ di svago con delle storie, e con de’ discorsi morali: e, a desinare soprattutto, aveva sempre qualche bella cosa da raccontare, di Bovo d’Antona o de’ Padri del deserto [11]. Poco distante da quel paesetto, villeggiava una coppia d’alto affare; don Ferrante e donna Prassede: il casato, al solito, nella penna dell’anonimo. Era donna Prassede una vecchia gentildonna molto inclinata a far del bene: mestiere certamente il più degno che l’uomo possa esercitare; ma che pur troppo può anche guastare, come tutti gli altri. Per fare il bene, bisogna conoscerlo; e, al pari d’ogni altra cosa, non possiamo conoscerlo che in mezzo alle nostre passioni, per mezzo de’ nostri giudizi, con le nostre idee; le quali bene spesso stanno come possono. Con l’idee donna Prassede si regolava come dicono che si deve far con gli amici: n’aveva poche; ma a quelle poche era molto affezionata. Tra le poche, ce n’era per disgrazia molte delle storte; e non eran quelle che le fossero men care. Le accadeva quindi, o di proporsi per bene ciò che non lo fosse, o di prender per mezzi, cose che potessero piuttosto far riuscire dalla parte opposta, o di crederne leciti di quelli che non lo fossero punto, per una certa supposizione in confuso, che chi fa più del suo dovere possa far più di quel che avrebbe diritto; le accadeva di non vedere nel fatto ciò che c’era di reale, o di vederci ciò che non c’era; e molte altre cose simili, che possono accadere, e che accadono a tutti, senza eccettuarne i migliori; ma a donna Prassede, troppo spesso e, non di rado, tutte in una volta. Al sentire il gran caso di Lucia, e tutto ciò che, in quell’occasione, si diceva della giovine, le venne la curiosità di vederla; e mandò una carrozza, con un vecchio bracciere [12], a prender la madre e la figlia. Questa si ristringeva nelle spalle, e pregava il sarto, il quale aveva fatta loro l’imbasciata, che trovasse maniera di scusarla. Finché s’era trattato di gente alla buona che cercava di conoscer la giovine del miracolo, il sarto le aveva reso volentieri un tal servizio; ma in questo caso, il rifiuto gli pareva una specie di ribellione. Fece tanti versi, tant’esclamazioni, disse tante cose: e che non si faceva così, e ch’era una casa grande, e che ai signori non si dice di no, e che poteva esser la loro fortuna, e che la signora donna Prassede, oltre il resto, era anche una santa; tante cose insomma, che Lucia si dovette arrendere: molto più che Agnese confermava tutte quelle ragioni con altrettanti - sicuro, sicuro. Arrivate davanti alla signora, essa fece loro grand’accoglienza, e molte congratulazioni; interrogò, consigliò: il tutto con una certa superiorità quasi innata, ma corretta da tante espressioni umili, temperata da tanta premura, condita di tanta spiritualità, che, Agnese quasi subito, Lucia poco dopo, cominciarono a sentirsi sollevate dal rispetto opprimente che da principio aveva loro incusso quella signorile presenza; anzi ci trovarono una certa attrattiva. E per venire alle corte, donna Prassede, sentendo che il cardinale s’era incaricato di trovare a Lucia un ricovero, punta dal desiderio di secondare e di prevenire a un tratto quella buona intenzione, s’esibì di prender la giovine in casa, dove, senz’essere addetta ad alcun servizio particolare, potrebbe, a piacer suo, aiutar l’altre donne ne’ loro lavori. E soggiunse che penserebbe lei a darne parte a monsignore. Oltre il bene chiaro e immediato che c’era in un’opera tale, donna Prassede ce ne vedeva, e se ne proponeva un altro, forse più considerabile, secondo lei; di raddirizzare un cervello, di metter sulla buona strada chi n’aveva gran bisogno. Perché, fin da quando aveva sentito la prima volta parlar di Lucia, s’era subito persuasa che una giovine la quale aveva potuto promettersi a un poco di buono, a un sedizioso, a uno scampaforca in somma, qualche magagna, qualche pecca nascosta la doveva avere. Dimmi chi pratichi, e ti dirò chi sei. La vista di Lucia aveva confermata quella persuasione. Non che, in fondo, come si dice, non le paresse una buona giovine; ma c’era molto da ridire. Quella testina bassa, col mento inchiodato sulla fontanella della gola, quel non rispondere, o risponder secco secco, come per forza, potevano indicar verecondia; ma denotavano sicuramente molta caparbietà: non ci voleva molto a indovinare che quella testina aveva le sue idee. E quell’arrossire ogni momento, e quel rattenere i sospiri... Due occhioni poi, che a donna Prassede non piacevan punto. Teneva essa per certo, come se lo sapesse di buon luogo, che tutte le sciagure di Lucia erano una punizione del cielo per la sua amicizia con quel poco di buono, e un avviso per far che se ne staccasse affatto; e stante questo, si proponeva di cooperare a un così buon fine. Giacché, come diceva spesso agli altri e a se stessa, tutto il suo studio era di secondare i voleri del cielo: ma faceva spesso uno sbaglio grosso, ch’era di prender per cielo il suo cervello. Però, della seconda intenzione che abbiam detto, si guardò bene di darne il minimo indizio. Era una delle sue massime questa, che, per riuscire a far del bene alla gente, la prima cosa, nella maggior parte de’ casi, è di non metterli a parte del disegno. La madre e la figlia si guardarono in viso. Nella dolorosa necessità di dividersi, l’esibizione parve a tutt’e due da accettarsi, se non altro per esser quella villa così vicina al loro paesetto: per cui, alla peggio de’ peggi, si ravvicinerebbero e potrebbero trovarsi insieme, alla prossima villeggiatura. Visto, l’una negli occhi dell’altra, il consenso, si voltaron tutt’e due a donna Prassede con quel ringraziare che accetta. Essa rinnovò le gentilezze e le promesse, e disse che manderebbe subito una lettera da presentare a monsignore. Partite le donne, la lettera se la fece distendere da don Ferrante, di cui, per esser letterato, come diremo più in particolare, si serviva per segretario, nell’occasioni d’importanza. Trattandosi d’una di questa sorte, don Ferrante ci mise tutto il suo sapere, e, consegnando la minuta da copiare alla consorte, le raccomandò caldamente l’ortografia; ch’era una delle molte cose che aveva studiate, e delle poche sulle quali avesse lui il comando in casa. Donna Prassede copiò diligentissimamente, e spedì la lettera alla casa del sarto. Questo fu due o tre giorni prima che il cardinale mandasse la lettiga per ricondur le donne al loro paese. Arrivate, smontarono alla casa parrocchiale, dove si trovava il cardinale. C’era ordine d’introdurle subito: il cappellano, che fu il primo a vederle, l’eseguì, trattenendole solo quant’era necessario per dar loro, in fretta in fretta, un po’ d’istruzione sul cerimoniale da usarsi con monsignore, e sui titoli da dargli; cosa che soleva fare, ogni volta che lo potesse di nascosto a lui. Era per il pover’uomo un tormento continuo il vedere il poco ordine che regnava intorno al cardinale, su quel particolare: - tutto, - diceva con gli altri della famiglia, - per la troppa bontà di quel benedett’uomo; per quella gran famigliarità -. E raccontava d’aver perfino sentito più d’una volta co’ suoi orecchi, rispondergli: messer sì, e messer no. Stava in quel momento il cardinale discorrendo con don Abbondio, sugli affari della parrocchia: dimodoché questo non ebbe campo di dare anche lui, come avrebbe desiderato, le sue istruzioni alle donne. Solo, nel passar loro accanto, mentre usciva, e quelle venivano avanti, poté dar loro d’occhio, per accennare ch’era contento di loro, e che continuassero, da brave, a non dir nulla. Dopo le prime accoglienze da una parte, e i primi inchini dall’altra, Agnese si cavò di seno la lettera, e la presentò al cardinale, dicendo: - è della signora donna Prassede, la quale dice che conosce molto vossignoria illustrissima, monsignore; come naturalmente, tra loro signori grandi, si devon conoscer tutti. Quand’avrà letto, vedrà. - Bene, - disse Federigo, letto che ebbe, e ricavato il sugo del senso da’ fiori [13] di don Ferrante. Conosceva quella casa quanto bastasse per esser certo che Lucia c’era invitata con buona intenzione, e che lì sarebbe sicura dall’insidie e dalla violenza del suo persecutore. Che concetto avesse della testa di donna Prassede, non n’abbiam notizia positiva. Probabilmente, non era quella la persona che avrebbe scelta a un tal intento; ma, come abbiam detto o fatto intendere altrove, non era suo costume di disfar le cose che non toccavano a lui, per rifarle meglio. - Prendete in pace anche questa separazione, e l’incertezza in cui vi trovate, - soggiunse poi: - confidate che sia per finir presto, e che il Signore voglia guidar le cose a quel termine a cui pare che le avesse indirizzate; ma tenete per certo che quello che vorrà Lui, sarà il meglio per voi -. Diede a Lucia in particolare qualche altro ricordo amorevole; qualche altro conforto a tutt’e due; le benedisse, e le lasciò andare. Appena fuori, si trovarono addosso uno sciame d’amici e d’amiche, tutto il comune, si può dire, che le aspettava, e le condusse a casa, come in trionfo. Era tra tutte quelle donne una gara di congratularsi, di compiangere, di domandare; e tutte esclamavano dal dispiacere, sentendo che Lucia se n’anderebbe il giorno dopo. Gli uomini gareggiavano nell’offrir servizi; ognuno voleva star quella notte a far la guardia alla casetta. Sul qual fatto, il nostro anonimo credé bene di formare un proverbio: volete aver molti in aiuto? cercate di non averne bisogno. Tante accoglienze confondevano e sbalordivano Lucia: Agnese non s’imbrogliava così per poco. Ma in sostanza fecero bene anche a Lucia, distraendola alquanto da’ pensieri e dalle rimembranze che, pur troppo, anche in mezzo al frastono, le si risvegliavano, su quell’uscio, in quelle stanzucce, alla vista d’ogni oggetto. Al tocco della campana che annunziava vicino il cominciar delle funzioni, tutti si mossero verso la chiesa, e fu per le nostre donne un’altra passeggiata trionfale. Terminate le funzioni, don Abbondio, ch’era corso a vedere se Perpetua aveva ben disposto ogni cosa per il desinare, fu chiamato dal cardinale. Andò subito dal grand’ospite, il quale, lasciatolo venir vicino, - signor curato, - cominciò; e quelle parole furon dette in maniera, da dover capire, ch’erano il principio d’un discorso lungo e serio: - signor curato; perché non avete voi unita in matrimonio quella povera Lucia col suo promesso sposo? “Hanno votato il sacco stamattina coloro”, pensò don Abbondio; e rispose borbottando: - monsignore illustrissimo avrà ben sentito parlare degli scompigli che son nati in quell’affare: è stata una confusione tale, da non poter, neppure al giorno d’oggi, vederci chiaro: come anche vossignoria illustrissima può argomentare da questo, che la giovine è qui, dopo tanti accidenti, come per miracolo; e il giovine, dopo altri accidenti, non si sa dove sia. - Domando, - riprese il cardinale, - se è vero che, prima di tutti codesti casi, abbiate rifiutato di celebrare il matrimonio, quando n’eravate richiesto, nel giorno fissato; e il perché. - Veramente... se vossignoria illustrissima sapesse... che intimazioni... che comandi terribili ho avuti di non parlare... - E restò lì senza concludere, in un cert’atto, da far rispettosamente intendere che sarebbe indiscrezione il voler saperne di più. - Ma! - disse il cardinale, con voce e con aria grave fuor del consueto: - è il vostro vescovo che, per suo dovere e per vostra giustificazione, vuol saper da voi il perché non abbiate fatto ciò che, nella via regolare, era obbligo vostro di fare. - Monsignore, - disse don Abbondio, facendosi piccino piccino, - non ho già voluto dire... Ma m’è parso che, essendo cose intralciate, cose vecchie e senza rimedio, fosse inutile di rimestare... Però, però, dico... so che vossignoria illustrissima non vuol tradire un suo povero parroco. Perché vede bene, monsignore; vossignoria illustrissima non può esser per tutto; e io resto qui esposto... Però, quando Lei me lo comanda, dirò, dirò tutto. - Dite: io non vorrei altro che trovarvi senza colpa. Allora don Abbondio si mise a raccontare la dolorosa storia; ma tacque il nome principale, e vi sostituì: un gran signore; dando così alla prudenza tutto quel poco che si poteva, in una tale stretta. - E non avete avuto altro motivo? - domandò il cardinale, quando don Abbondio ebbe finito. - Ma forse non mi sono spiegato abbastanza, - rispose questo: - sotto pena della vita, m’hanno intimato di non far quel matrimonio. - E vi par codesta una ragion bastante, per lasciar d’adempire un dovere preciso? - Io ho sempre cercato di farlo, il mio dovere, anche con mio grave incomodo, ma quando si tratta della vita... - E quando vi siete presentato alla Chiesa, - disse, con accento ancor più grave, Federigo, - per addossarvi codesto ministero, v’ha essa fatto sicurtà della vita? V’ha detto che i doveri annessi al ministero fossero liberi da ogni ostacolo, immuni da ogni pericolo? O v’ha detto forse che dove cominciasse il pericolo, ivi cesserebbe il dovere? O non v’ha espressamente detto il contrario? Non v’ha avvertito che vi mandava come un agnello tra i lupi [14]? Non sapevate voi che c’eran de’ violenti, a cui potrebbe dispiacere ciò che a voi sarebbe comandato? Quello da Cui abbiam la dottrina e l’esempio, ad imitazione di Cui ci lasciam nominare e ci nominiamo pastori, venendo in terra a esercitarne l’ufizio, mise forse per condizione d’aver salva la vita? E per salvarla, per conservarla, dico, qualche giorno di più sulla terra, a spese della carità e del dovere, c’era bisogno dell’unzione santa, dell’imposizion delle mani, della grazia del sacerdozio? Basta il mondo a dar questa virtù, a insegnar questa dottrina. Che dico? oh vergogna! il mondo stesso la rifiuta: il mondo fa anch’esso le sue leggi, che prescrivono il male come il bene; ha il suo vangelo anch’esso, un vangelo di superbia e d’odio; e non vuol che si dica che l’amore della vita sia una ragione per trasgredirne i comandamenti. Non lo vuole; ed è ubbidito. E noi! noi figli e annunziatori della promessa! Che sarebbe la Chiesa, se codesto vostro linguaggio fosse quello di tutti i vostri confratelli? Dove sarebbe, se fosse comparsa nel mondo con codeste dottrine? Don Abbondio stava a capo basso: il suo spirito si trovava tra quegli argomenti, come un pulcino negli artigli del falco, che lo tengono sollevato in una regione sconosciuta, in un’aria che non ha mai respirata. Vedendo che qualcosa bisognava rispondere, disse, con una certa sommissione forzata: - monsignore illustrissimo, avrò torto. Quando la vita non si deve contare, non so cosa mi dire. Ma quando s’ha che fare con certa gente, con gente che ha la forza, e che non vuol sentir ragioni, anche a voler fare il bravo, non saprei cosa ci si potesse guadagnare. È un signore quello, con cui non si può né vincerla né impattarla. - E non sapete voi che il soffrire per la giustizia è il nostro vincere? E se non sapete questo, che cosa predicate? di che siete maestro? qual è la buona nuova che annunziate a’ poveri? Chi pretende da voi che vinciate la forza con la forza? Certo non vi sarà domandato, un giorno, se abbiate saputo fare stare a dovere i potenti; che a questo non vi fu dato né missione, né modo. Ma vi sarà ben domandato se avrete adoprati i mezzi ch’erano in vostra mano per far ciò che v’era prescritto, anche quando avessero la temerità di proibirvelo. “Anche questi santi son curiosi, - pensava intanto don Abbondio: - in sostanza, a spremerne il sugo, gli stanno più a cuore gli amori di due giovani, che la vita d’un povero sacerdote”. E, in quant’a lui, si sarebbe volentieri contentato che il discorso finisse lì; ma vedeva il cardinale, a ogni pausa, restare in atto di chi aspetti una risposta: una confessione, o un’apologia, qualcosa in somma. - Torno a dire, monsignore, - rispose dunque, - che avrò torto io... Il coraggio, uno non se lo può dare. - E perché dunque, potrei dirvi, vi siete voi impegnato in un ministero che v’impone di stare in guerra con le passioni del secolo? Ma come, vi dirò piuttosto, come non pensate che, se in codesto ministero, comunque vi ci siate messo, v’è necessario il coraggio, per adempir le vostre obbligazioni, c’è Chi ve lo darà infallibilmente, quando glielo chiediate? Credete voi che tutti que’ milioni di martiri avessero naturalmente coraggio? che non facessero naturalmente nessun conto della vita? tanti giovinetti che cominciavano a gustarla, tanti vecchi avvezzi a rammaricarsi che fosse già vicina a finire, tante donzelle, tante spose, tante madri? Tutti hanno avuto coraggio; perché il coraggio era necessario, ed essi confidavano. Conoscendo la vostra debolezza e i vostri doveri, avete voi pensato a prepararvi ai passi difficili a cui potevate trovarvi, a cui vi siete trovato in effetto? Ah! se per tant’anni d’ufizio pastorale, avete (e come non avreste?) amato il vostro gregge, se avete riposto in esso il vostro cuore, le vostre cure, le vostre delizie, il coraggio non doveva mancarvi al bisogno: l’amore è intrepido. Ebbene, se voi gli amavate, quelli che sono affidati alle vostre cure spirituali, quelli che voi chiamate figliuoli; quando vedeste due di loro minacciati insieme con voi, ah certo! come la debolezza della carne v’ha fatto tremar per voi, così la carità v’avrà fatto tremar per loro. Vi sarete umiliato di quel primo timore, perché era un effetto della vostra miseria; avrete implorato la forza per vincerlo, per discacciarlo, perché era una tentazione: ma il timor santo e nobile per gli altri, per i vostri figliuoli, quello l’avrete ascoltato, quello non v’avrà dato pace, quello v’avrà eccitato, costretto, a pensare, a fare ciò che si potesse, per riparare al pericolo che lor sovrastava... Cosa v’ha ispirato il timore, l’amore? Cosa avete fatto per loro? Cosa avete pensato? E tacque in atto di chi aspetta. |
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Note
- Allora tutti capivano.
- Lo cucinavano a dovere, sparlavano di lui.
- Imbrogli, raggiri.
- Allusione alla vicenda del 63 a.C., quando Cicerone (che ricopriva la carica di console) scoprì la congiura ordita da L. Sergio Catilina e dai suoi complici e lo attaccò pubblicamente in Senato con la prima delle quattro Catilinarie, inducendolo a lasciare Roma in tutta fretta per evitare l'arresto. Il paragone suona ovviamente ironico, specie per la sproporzione tra la cospirazione del nobile romano e lo squallido intrigo messo in atto da don Rodrigo.
- In altra veste, con diverso atteggiamento.
- L'arco è formato da due "stili", ovvero due pali di legno verticali sormontati da assi, ed è rivestito da "borraccina", un'erba simile al muschio (pungitopo e agrifoglio sono piante sempreverdi, in cui spicca il colore rosso delle bacche: siamo a inizio dicembre, quando queste specie raggiungono il massimo rigoglio).
- Festoni.
- Le ventidue corrispondevano all'epoca alle quattro pomeridiane, circa due ore prima del tramonto.
- Si tratta del cappellano crocifero, già visto nei capp. XXII-XXIII.
- Episcopato.
- Bovo d'Antona era un eroico cavaliere dei Reali di Francia, protagonista di un romanzo francese omonimo del XV secolo; la biografia dei Padri eremiti del deserto è probabilmente contenuta nel Leggendario dei santi (entrambi i libri fanno parte della piccola biblioteca del sarto, come detto nel cap. XXIV).
- Cameriere incaricato di porgere il braccio alle nobildonne per aiutarle a salire o a scendere dalla carrozza.
- Le sottigliezze retoriche di cui il nobile ha infarcito la lettera, tipiche dello stile ampolloso del Seicento.
- È una citazione evangelica (Luca, X, 3), in cui Gesù dice agli apostoli "Io vi mando come agnelli in mezzo ai lupi".