La cultura del Seicento
F. Gonin, L'anonimo secentista
È uno degli aspetti per i quali l'autore critica maggiormente il XVII secolo, giudicato un'epoca dominata da ignoranza e superstizione in molti campi del sapere e dal carattere vacuo e frivolo degli studi in generale, come emerge fin dall'Introduzione con l'imitazione del manoscritto secentesco da cui Manzoni finge di aver tratto la vicenda: una prosa ampollosa e prolissa, perfetto esempio dello stile barocco proprio di tanti scritti del Seicento con la sua retorica altisonante e priva di sostanza (da qui la decisione di riscriverlo da capo, correggendone la lingua in senso moderno). Lo stesso formalismo vacuo si riscontra anche nei documenti storici citati all'occasione dal romanziere, ad esempio nelle gride che minacciano pene severissime e sono piene dei titoli pomposi delle autorità milanesi che le emanavano, mentre una frecciata polemica contro la letteratura artificiosa dell'età barocca si ha nel cap. XXVIII, quando Manzoni cita il famigerato verso con cui Claudio Achillini (1574-1640) celebrava la presa della Rochelle da parte del re di Francia ("Sudate, o fochi, a preparar metalli"), seguìto poco oltre dalla citazione indiretta dei versi con cui lo stesso poeta incitava Luigi XIII a partire per una crociata in Terrasanta. Il giudizio dell'autore sul complesso della letteratura del Seicento è assai severo e coinvolge indirettamente anche il cardinal Borromeo, nel cui panegirico (cap. XXII) si dice che fu autore di più di cento opere, le quali sono però state avvolte nell'oblio toccato a molti degli scritti prodotti in quel periodo; del resto il prelato cadde negli stessi errori propri di altri intellettuali del suo tempo, dal momento che promosse vari processi per stregoneria e credette all'opera degli untori, la cui esistenza si diffuse non solo per la superstizione e la paura popolare, ma anche per la convinzione di vari studiosi che sostennero tale opinione con argomenti pseudo-scientifici (basati su cognizioni astrologiche e filosofiche del tutto errate, oltre che su pregiudizi religiosi). Ben più positiva l'opera del Borromeo relativamente alla fondazione della Biblioteca Ambrosiana, nella quale raccolse oltre trentamila volumi e quattordicimila manoscritti provenienti da tutti i paesi d'Europa e in cui creò un collegio di dottori col compito di coltivare studi letterari, teologici e linguistici, nonché un collegio di alunni che dovevano essere educati in vari campi del sapere: non fu facile reperire maestri all'altezza di tale compito, dato lo stato di arretratezza degli studi di cui il cardinale era ben consapevole, mentre suscitò meraviglia la sua decisione di consentire la libera consultazione dei volumi della biblioteca, cosa assai rara all'epoca (i libri erano normalmente tenuti sotto chiave e sottratti alla pubblica lettura, il che dimostra il carattere oscurantista della cultura del periodo a cui il cardinale si oppose).
Di carattere ben diverso è invece la biblioteca di don Ferrante, il nobile milanese nella cui casa viene ospitata Lucia dopo essere stata liberata dall'innominato e nel quale si compendiano tutte le caratteristiche negative del "dotto" del XVII secolo: l'uomo possiede circa trecento volumi, fra cui molte opere di nessun valore che sono il tipico prodotto della cultura del secolo interessata ad argomenti frivoli e privi di utilità, alla cui analisi l'autore dedica la conclusione del cap. XXVII (dalla scelta degli argomenti e degli autori fatta dal gentiluomo si deduce la superficialità dei suoi interessi letterari, comuni alla gran parte degli "intellettuali" del Seicento). Una parte importante hanno i volumi dedicati all'astrologia, il cui studio era assai diffuso nel XVII secolo in quanto si credeva agli influssi delle stelle sulle vicende umane (anche riguardo alla peste, come si vedrà) e nella quale don Ferrante mostra una certa erudizione, citando spesso Gerolamo Cardano come un'autorità in materia (si tratta di uno scrittore pavese oggi quasi sconosciuto, sostenitore nelle sue opere di bislacche superstizioni). Tra i filosofi antichi il maestro per eccellenza è ovviamente Aristotele, considerato la massima autorità nel sapere e sulla cui dottrina si fondavano molte teorie naturalistiche e astronomiche (inutile ricordare che il sistema eliocentrico di Galileo venne avversato anche appellandosi agli insegnamenti aristotelici), mentre lo stesso Ferrante si considera un "peripatetico", un seguace fedele delle sue teorie. Un certo spazio hanno anche i libri di filosofia naturale, in cui gli autori principali sono gli stessi Aristotele e Cardano, nonché Plinio il Vecchio, Alberto Magno e il napoletano G.B. della Porta, autore di una raccolta di mirabilia relativi agli elementi naturali: si tratta di opere che passano in rassegna le proprietà favolose di piante, minerali, animali, le più assurde delle quali sono citate dall'autore come quelle cui crede il "dotto" don Ferrante (il quale si diletta anche dello studio di magia e stregoneria, molto diffuse nell'Italia del suo tempo). Le altre sezioni della bizzarra libreria ospitano saggi storici, opera di scrittori meno che mediocri e oggi per lo più dimenticati, e trattati politici, in cui accanto a nomi di grande spessore come Machiavelli e Botero trova posto anche Valeriano Castiglione, modestissimo autore di un trattatello intitolato Lo statista regnante che riscosse grande successo fra i contemporanei. Non possono mancare infine le opere dedicate allo studio della cavalleria, la cui "scienza" è considerata fondamentale da don Ferrante e nella quale le autorità più celebrate sono autori oggi semi-sconosciuti, con la sola eccezione del Tasso autore, oltre che della Gerusalemme liberata, anche dei due trattati intitolati Forno primo e secondo, considerati una sorta di "Bibbia" delle questioni cavalleresche (il concetto di onore era centrale nella cultura secentesca ed è oggetto di forte critica nel romanzo da parte del Manzoni, parallelamente alla condanna dell'aristocrazia improduttiva di cui Ferrante è in fondo un esponente).
La cultura di questo personaggio è dunque un bizzarro miscuglio di aristotelismo, machiavellismo e strampalate convinzioni astrologiche e naturalistiche, proprie di tanti presunti intellettuali del tempo e che, cosa più grave, finiscono per influenzare negativamente l'operato delle pubbliche autorità, come emerge nella drammatica vicenda della peste: il pericolo della sua diffusione viene dapprima sottovalutato, poi attribuito al maligno influsso astrale, infine all'opera criminale degli untori causando vari episodi di linciaggio, fino al celebre processo che portò alla condanna del Piazza e del Mora. L'autore parla nel cap. XXXII dei "sogni de' dotti", secondo i quali il preannuncio del flagello della peste era stata l'apparizione di una cometa nel 1628, confermata da un'altra cometa vista nel 1630, e tali "congiunzioni astrali" erano invocate non solo come causa del contagio ma, quel che è peggio, come prova dell'esistenza degli untori, per dimostrare la quale venivano citati autori antichi e moderni che avevano trattato materie simili, molti dei quali inclusi nella stessa biblioteca di don Ferrante. Persino il cardinal Borromeo non si mostrò del tutto refrattario a queste credenze, cosa che Manzoni non manca di sottolineare nell'ampia digressione sulla peste come frutto dell'ignoranza del secolo, citando anche un'operetta scritta dal prelato e conservata nella Biblioteca Ambrosiana in cui l'opera degli untori non è affermata, né negata risolutamente. Quanto a don Ferrante, il personaggio è citato da Manzoni verso la fine del romanzo (cap. XXXVII) come vittima egli stesso delle sciocche convinzioni che condivideva con molti altri riguardo alla peste: fermo sostenitore della teoria aristotelica degli influssi astrali, egli confuta con logica apparentemente impeccabile che il contagio si propaghi da un corpo all'altro e attribuisce la peste alle influenze di pianeti molto lontani e sui quali è perciò impossibile intervenire, per cui è del tutto inutile prendere precauzioni per evitare di essere infettati ("E tanto affannarsi a bruciar de' cenci! Povera gente! brucerete Giove? brucerete Saturno?"). Il risultato è naturalmente che anche lui si ammala e muore a letto "come un eroe di Metastasio, prendendosela con le stelle", mentre la sua "famosa libreria" è probabilmente dispersa sulle bancarelle (non essendo cioè di molto valore, e l'uscita di scena grottesca di questo personaggio è la dimostrazione tangibile del carattere vacuo e inconsistente di gran parte della cultura del periodo, che non rinuncia a sostenere assurdità neppure di fronte a un terribile flagello come l'epidemia di peste).
Di carattere ben diverso è invece la biblioteca di don Ferrante, il nobile milanese nella cui casa viene ospitata Lucia dopo essere stata liberata dall'innominato e nel quale si compendiano tutte le caratteristiche negative del "dotto" del XVII secolo: l'uomo possiede circa trecento volumi, fra cui molte opere di nessun valore che sono il tipico prodotto della cultura del secolo interessata ad argomenti frivoli e privi di utilità, alla cui analisi l'autore dedica la conclusione del cap. XXVII (dalla scelta degli argomenti e degli autori fatta dal gentiluomo si deduce la superficialità dei suoi interessi letterari, comuni alla gran parte degli "intellettuali" del Seicento). Una parte importante hanno i volumi dedicati all'astrologia, il cui studio era assai diffuso nel XVII secolo in quanto si credeva agli influssi delle stelle sulle vicende umane (anche riguardo alla peste, come si vedrà) e nella quale don Ferrante mostra una certa erudizione, citando spesso Gerolamo Cardano come un'autorità in materia (si tratta di uno scrittore pavese oggi quasi sconosciuto, sostenitore nelle sue opere di bislacche superstizioni). Tra i filosofi antichi il maestro per eccellenza è ovviamente Aristotele, considerato la massima autorità nel sapere e sulla cui dottrina si fondavano molte teorie naturalistiche e astronomiche (inutile ricordare che il sistema eliocentrico di Galileo venne avversato anche appellandosi agli insegnamenti aristotelici), mentre lo stesso Ferrante si considera un "peripatetico", un seguace fedele delle sue teorie. Un certo spazio hanno anche i libri di filosofia naturale, in cui gli autori principali sono gli stessi Aristotele e Cardano, nonché Plinio il Vecchio, Alberto Magno e il napoletano G.B. della Porta, autore di una raccolta di mirabilia relativi agli elementi naturali: si tratta di opere che passano in rassegna le proprietà favolose di piante, minerali, animali, le più assurde delle quali sono citate dall'autore come quelle cui crede il "dotto" don Ferrante (il quale si diletta anche dello studio di magia e stregoneria, molto diffuse nell'Italia del suo tempo). Le altre sezioni della bizzarra libreria ospitano saggi storici, opera di scrittori meno che mediocri e oggi per lo più dimenticati, e trattati politici, in cui accanto a nomi di grande spessore come Machiavelli e Botero trova posto anche Valeriano Castiglione, modestissimo autore di un trattatello intitolato Lo statista regnante che riscosse grande successo fra i contemporanei. Non possono mancare infine le opere dedicate allo studio della cavalleria, la cui "scienza" è considerata fondamentale da don Ferrante e nella quale le autorità più celebrate sono autori oggi semi-sconosciuti, con la sola eccezione del Tasso autore, oltre che della Gerusalemme liberata, anche dei due trattati intitolati Forno primo e secondo, considerati una sorta di "Bibbia" delle questioni cavalleresche (il concetto di onore era centrale nella cultura secentesca ed è oggetto di forte critica nel romanzo da parte del Manzoni, parallelamente alla condanna dell'aristocrazia improduttiva di cui Ferrante è in fondo un esponente).
La cultura di questo personaggio è dunque un bizzarro miscuglio di aristotelismo, machiavellismo e strampalate convinzioni astrologiche e naturalistiche, proprie di tanti presunti intellettuali del tempo e che, cosa più grave, finiscono per influenzare negativamente l'operato delle pubbliche autorità, come emerge nella drammatica vicenda della peste: il pericolo della sua diffusione viene dapprima sottovalutato, poi attribuito al maligno influsso astrale, infine all'opera criminale degli untori causando vari episodi di linciaggio, fino al celebre processo che portò alla condanna del Piazza e del Mora. L'autore parla nel cap. XXXII dei "sogni de' dotti", secondo i quali il preannuncio del flagello della peste era stata l'apparizione di una cometa nel 1628, confermata da un'altra cometa vista nel 1630, e tali "congiunzioni astrali" erano invocate non solo come causa del contagio ma, quel che è peggio, come prova dell'esistenza degli untori, per dimostrare la quale venivano citati autori antichi e moderni che avevano trattato materie simili, molti dei quali inclusi nella stessa biblioteca di don Ferrante. Persino il cardinal Borromeo non si mostrò del tutto refrattario a queste credenze, cosa che Manzoni non manca di sottolineare nell'ampia digressione sulla peste come frutto dell'ignoranza del secolo, citando anche un'operetta scritta dal prelato e conservata nella Biblioteca Ambrosiana in cui l'opera degli untori non è affermata, né negata risolutamente. Quanto a don Ferrante, il personaggio è citato da Manzoni verso la fine del romanzo (cap. XXXVII) come vittima egli stesso delle sciocche convinzioni che condivideva con molti altri riguardo alla peste: fermo sostenitore della teoria aristotelica degli influssi astrali, egli confuta con logica apparentemente impeccabile che il contagio si propaghi da un corpo all'altro e attribuisce la peste alle influenze di pianeti molto lontani e sui quali è perciò impossibile intervenire, per cui è del tutto inutile prendere precauzioni per evitare di essere infettati ("E tanto affannarsi a bruciar de' cenci! Povera gente! brucerete Giove? brucerete Saturno?"). Il risultato è naturalmente che anche lui si ammala e muore a letto "come un eroe di Metastasio, prendendosela con le stelle", mentre la sua "famosa libreria" è probabilmente dispersa sulle bancarelle (non essendo cioè di molto valore, e l'uscita di scena grottesca di questo personaggio è la dimostrazione tangibile del carattere vacuo e inconsistente di gran parte della cultura del periodo, che non rinuncia a sostenere assurdità neppure di fronte a un terribile flagello come l'epidemia di peste).