Scritti di poetica e letteratura
C. Gerosa, Ritratto di A. Manzoni (1835)
Manzoni ha dedicato vari testi alla riflessione teorica intorno a questioni letterarie (alcuni di carattere privato e resi pubblici in un secondo momento), nei quali esprime la sua concezione artistica che contemporanemante trova spazio nelle opere letterarie vere e proprie: questi scritti hanno un'importanza fondamentale per comprendere l'evoluzione del pensiero dell'autore in materia di creazione letteraria, specie dopo l'edizione definitiva del romanzo quando, deluso dalle opere narrarive di invenzione, si dedicherà in modo esclusivo alla storiografia. Non fanno parte di questo gruppo di scritti le lettere strettamente private che affrontano questioni relative alla gestazione del romanzo, di indubbio interesse ma non destinate alla pubblicazione e che dunque esulano dalla presente trattazione. Ecco, schematicamente, i titoli e i contenuti dei testi cui si fa riferimento:
Prefazione al "Conte di Carmagnola" (1820) - È il primo scritto di poetica significativo, in cui l'autore premette alla prima delle due tragedie importanti considerazioni intorno alla struttura dell'opera e affronta anche questioni letterarie di interesse più generale: Manzoni intende giustificare il mancato rispetto da parte sua delle cosiddette unità aristoteliche di tempo e luogo, dal momento che l'azione della tragedia si dilata in un arco di tempo assai ampio e si svolge in varie ambientazioni. Egli contesta il fatto che Aristotele nella Poetica intendesse porre questo criterio come norma generale, poiché il filosofo si limitava a osservare che le tragedie greche rispettavano quasi sempre quelle unità; in ogni caso, secondo Manzoni, l'autorità di Aristotele e del teatro classico non è sufficiente a imporre una norma anche al teatro moderno, che oltretutto toglierebbe verosimiglianza e fascino alla rappresentazione delle vicende (come del resto dimostra il fatto che illustri tragediografi europei, tra cui Shakespeare che pure lo scrittore non nomina, non hanno rispettato le unità di tempo e luogo). Manzoni respinge poi la concezione per cui il dramma può essere solo interessante e moralmente dannoso, oppure morale ed esteticamente freddo, poiché è possibile rendere l'opera artistica interessante e "conducente allo scopo morale"; dichiara inoltre di voler ripristinare il "coro" come "cantuccio" riservato all'autore, dove "egli possa parlare in persona propria" ed esprimere la sua posizione sulle vicende rappresentate, benché affermi chiaramente che esso sarà del tutto staccato dall'azione tragica e dunque profondamente diverso dal coro della tragedia greca. La Prefazione è dedicata, come la tragedia, all'amico Claude Fauriel.
Lettera al Signor C.*** (1820) - Il titolo francese è Lettre à M.C.*** sur l'unité de temps et de lieu dans la tragédie e fu scritta nel 1820 come risposta alla recensione con cui il critico francese Victor Chauvet stroncava il Conte di Carmagnola, rimproverando a Manzoni soprattutto il mancato rispetto delle unità aristoteliche di tempo e luogo (la lettera venne pubblicata nel 1823). Manzoni riprende e sviluppa alcuni argomenti già affrontati nella Prefazione alla tragedia, ovvero il fatto che tali unità non fossero proposte da Aristotele come regole fisse, spiegando poi che scopo dello scrittore è soprattutto trattare della verità storica, aggiungendo alla narrazione quei dettagli (i sentimenti dei protagonisti, le sofferenze, le passioni...) che lo storiografo non è in grado di descrivere e che sono perciò oggetto di invenzione. Manzoni definisce dunque la tragedia come un genere letterario che mescola storia e invenzione, ragion per cui l'autore non può concentrare tutta l'azione in un un solo luogo e nell'arco di ventiquattr'ore, poiché questo toglierebbe verosimiglianza alla precisa ricostruzione dei fatti (è già evidente il principio fondante del genere del romanzo storico, cui Manzoni si sarebbe dedicato negli anni successivi).
Lettera al marchese Cesare Taparelli D'Azeglio (1823) - Nota anche come Lettera sul Romanticismo, fu stampata nel 1846 senza il consenso dell'autore e pubblicata nel 1870 dopo essere stata rivista, nella seconda edizione delle Opere varie. Nella prima versione Manzoni si rivolgeva al D'Azeglio (il quale riteneva superati i principi del Romanticismo) e argomentava sostenendo le ragioni del movimento romantico sviluppatosi a Milano e in Lombardia, cui lo scrittore non aveva ufficialmente aderito ma al quale si sentiva molto vicino per tanti aspetti. Manzoni prende le distanze dal Romanticismo inglese e tedesco, pieno di elementi irrazionali e neopagani, mentre quello italiano è "un complesso di idee più ragionevole, più ordinato, più generale, che in nessun altro luogo"; critica inoltre il Neoclassicismo e l'uso della mitologia greca e latina, da lui considerata vuota e frivola, oltre che contraria alla morale del Cristianesimo (egli aveva del resto da tempo troncato ogni rapporto con la poesia neoclassica, almeno dopo la pubblicazione dell'Urania). Manzoni respinge la concezione tipicamente neoclassica di un ideale "eterno" e assoluto di bellezza, svincolato dal contesto culturale e storico, e conclude che per lui la letteratura debba avere "l'utile per iscopo, il vero per soggetto e l'interessante per mezzo" (dunque l'arte deve avere come fine l'utilità morale e pratica degli uomini, deve fondarsi sul vero storico e servirsi di una materia e di uno stile che coinvolgano il maggior numero possibile di lettori, tutti principi coerenti con quelli del movimento romantico e che si ritrovano in tanti altri scritti del Romanticismo lombardo).
Del romanzo storico e, in genere, de' componimenti misti di storia e di invenzione (1850) - È un trattato scritto dopo l'edizione definitiva del romanzo e in cui Manzoni porta a compimento quel processo di allontanamento dalle opere narrative e di invenzione che, da un lato, gli ha fatto abbandonare l'attività di romanziere, dall'altro lo ha spinto a dedicarsi in maniera esclusiva alla storiografia. L'idea di fondo è che tutte le opere che mescolano elementi di verità storica e di invenzione siano inopportune sul piano morale, specie perché lo scrittore è in grado di forzare a suo piacimento la realtà e creare un "lieto fine" che troppo spesso è assente sul piano storico; la sua è un'autocritica e una sorta di ritrattazione delle opere scritte in precedenza (il romanzo e le due tragedie), per cui Manzoni esplicita in forma teorica le ragioni del suo addio alla letteratura di invenzione, scelta che nella pratica aveva operato molti anni prima.
Dell'invenzione (1850) - È un dialogo in cui l'autore immagina che due interlocutori, detti Primo e Secondo e che alludono a due amici di Manzoni, discutano circa il concetto romantico dell'arte quale "creazione". L'autore conclude che l'artista in quanto tale non crea nulla (questa è infatti prerogativa divina), ma si limita a "inventare" nel senso latino del termine, quello cioè di "trovare" degli argomenti con cui esprimere la verità della storia, che è ovviamente creazione di Dio.
Prefazione al "Conte di Carmagnola" (1820) - È il primo scritto di poetica significativo, in cui l'autore premette alla prima delle due tragedie importanti considerazioni intorno alla struttura dell'opera e affronta anche questioni letterarie di interesse più generale: Manzoni intende giustificare il mancato rispetto da parte sua delle cosiddette unità aristoteliche di tempo e luogo, dal momento che l'azione della tragedia si dilata in un arco di tempo assai ampio e si svolge in varie ambientazioni. Egli contesta il fatto che Aristotele nella Poetica intendesse porre questo criterio come norma generale, poiché il filosofo si limitava a osservare che le tragedie greche rispettavano quasi sempre quelle unità; in ogni caso, secondo Manzoni, l'autorità di Aristotele e del teatro classico non è sufficiente a imporre una norma anche al teatro moderno, che oltretutto toglierebbe verosimiglianza e fascino alla rappresentazione delle vicende (come del resto dimostra il fatto che illustri tragediografi europei, tra cui Shakespeare che pure lo scrittore non nomina, non hanno rispettato le unità di tempo e luogo). Manzoni respinge poi la concezione per cui il dramma può essere solo interessante e moralmente dannoso, oppure morale ed esteticamente freddo, poiché è possibile rendere l'opera artistica interessante e "conducente allo scopo morale"; dichiara inoltre di voler ripristinare il "coro" come "cantuccio" riservato all'autore, dove "egli possa parlare in persona propria" ed esprimere la sua posizione sulle vicende rappresentate, benché affermi chiaramente che esso sarà del tutto staccato dall'azione tragica e dunque profondamente diverso dal coro della tragedia greca. La Prefazione è dedicata, come la tragedia, all'amico Claude Fauriel.
Lettera al Signor C.*** (1820) - Il titolo francese è Lettre à M.C.*** sur l'unité de temps et de lieu dans la tragédie e fu scritta nel 1820 come risposta alla recensione con cui il critico francese Victor Chauvet stroncava il Conte di Carmagnola, rimproverando a Manzoni soprattutto il mancato rispetto delle unità aristoteliche di tempo e luogo (la lettera venne pubblicata nel 1823). Manzoni riprende e sviluppa alcuni argomenti già affrontati nella Prefazione alla tragedia, ovvero il fatto che tali unità non fossero proposte da Aristotele come regole fisse, spiegando poi che scopo dello scrittore è soprattutto trattare della verità storica, aggiungendo alla narrazione quei dettagli (i sentimenti dei protagonisti, le sofferenze, le passioni...) che lo storiografo non è in grado di descrivere e che sono perciò oggetto di invenzione. Manzoni definisce dunque la tragedia come un genere letterario che mescola storia e invenzione, ragion per cui l'autore non può concentrare tutta l'azione in un un solo luogo e nell'arco di ventiquattr'ore, poiché questo toglierebbe verosimiglianza alla precisa ricostruzione dei fatti (è già evidente il principio fondante del genere del romanzo storico, cui Manzoni si sarebbe dedicato negli anni successivi).
Lettera al marchese Cesare Taparelli D'Azeglio (1823) - Nota anche come Lettera sul Romanticismo, fu stampata nel 1846 senza il consenso dell'autore e pubblicata nel 1870 dopo essere stata rivista, nella seconda edizione delle Opere varie. Nella prima versione Manzoni si rivolgeva al D'Azeglio (il quale riteneva superati i principi del Romanticismo) e argomentava sostenendo le ragioni del movimento romantico sviluppatosi a Milano e in Lombardia, cui lo scrittore non aveva ufficialmente aderito ma al quale si sentiva molto vicino per tanti aspetti. Manzoni prende le distanze dal Romanticismo inglese e tedesco, pieno di elementi irrazionali e neopagani, mentre quello italiano è "un complesso di idee più ragionevole, più ordinato, più generale, che in nessun altro luogo"; critica inoltre il Neoclassicismo e l'uso della mitologia greca e latina, da lui considerata vuota e frivola, oltre che contraria alla morale del Cristianesimo (egli aveva del resto da tempo troncato ogni rapporto con la poesia neoclassica, almeno dopo la pubblicazione dell'Urania). Manzoni respinge la concezione tipicamente neoclassica di un ideale "eterno" e assoluto di bellezza, svincolato dal contesto culturale e storico, e conclude che per lui la letteratura debba avere "l'utile per iscopo, il vero per soggetto e l'interessante per mezzo" (dunque l'arte deve avere come fine l'utilità morale e pratica degli uomini, deve fondarsi sul vero storico e servirsi di una materia e di uno stile che coinvolgano il maggior numero possibile di lettori, tutti principi coerenti con quelli del movimento romantico e che si ritrovano in tanti altri scritti del Romanticismo lombardo).
Del romanzo storico e, in genere, de' componimenti misti di storia e di invenzione (1850) - È un trattato scritto dopo l'edizione definitiva del romanzo e in cui Manzoni porta a compimento quel processo di allontanamento dalle opere narrative e di invenzione che, da un lato, gli ha fatto abbandonare l'attività di romanziere, dall'altro lo ha spinto a dedicarsi in maniera esclusiva alla storiografia. L'idea di fondo è che tutte le opere che mescolano elementi di verità storica e di invenzione siano inopportune sul piano morale, specie perché lo scrittore è in grado di forzare a suo piacimento la realtà e creare un "lieto fine" che troppo spesso è assente sul piano storico; la sua è un'autocritica e una sorta di ritrattazione delle opere scritte in precedenza (il romanzo e le due tragedie), per cui Manzoni esplicita in forma teorica le ragioni del suo addio alla letteratura di invenzione, scelta che nella pratica aveva operato molti anni prima.
Dell'invenzione (1850) - È un dialogo in cui l'autore immagina che due interlocutori, detti Primo e Secondo e che alludono a due amici di Manzoni, discutano circa il concetto romantico dell'arte quale "creazione". L'autore conclude che l'artista in quanto tale non crea nulla (questa è infatti prerogativa divina), ma si limita a "inventare" nel senso latino del termine, quello cioè di "trovare" degli argomenti con cui esprimere la verità della storia, che è ovviamente creazione di Dio.