Vittorio Spinazzola
"La reticenza di Manzoni verso l'amore"
Vittorio Spinazzola
In questa pagina il critico contemporaneo analizza la reticenza del grande romanziere verso tutto ciò che riguarda l'amore e la sessualità, esemplificando la sua analisi con il personaggio-chiave di Lucia: l'attenzione si concentra sul momento dell'addio al paese natale (fine cap. VIII), pieno di sottintesi e di accenni velati alla vita matrimoniale sognata dalla ragazza, eppure fonte per lei di vergogna e rossore, al punto che - com'è noto - in questo celebre passo è lo scrittore a sostituirsi a lei nella narrazione, a descrivere i suoi pensieri attraverso la sua mediazione intellettuale.
Vittorio Spinazzola, nato nel 1934, è stato Ordinario di Letteratura Italiana all'Università degli Studi di Milano; critico di ispirazione gramsciana, ha dedicato saggi a vari autori della nostra tradizione (incluso Collodi) ed è stato anche apprezzato critico cinematografico.
Vittorio Spinazzola, nato nel 1934, è stato Ordinario di Letteratura Italiana all'Università degli Studi di Milano; critico di ispirazione gramsciana, ha dedicato saggi a vari autori della nostra tradizione (incluso Collodi) ed è stato anche apprezzato critico cinematografico.
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Il proposito manzoniano di esperire una nomenclatura totale della realtà umana si arresta dunque proprio sul terreno tradizionalmente più frequentato dalla letteratura. All’arte della disquisizione d’amore viene contrapposto un modulo accortamente stilizzato di insistente esaltazione della ritrosia dimostrata da una ragazza del popolo, che proprio nella sua predilezione per la parola schietta avvalora l’indicibilità del sentimento da cui è posseduta: «non c’era verso che potesse proferir quella parola [moglie], e spiegar quell’intenzione, senza fare il viso rosso».
L’amore non può esser rappresentato letterariamente, perché chiede, esige esso stesso di non venir partecipato, divulgato. Causa ed effetto di ciò è che l’individuo nemmeno entro se stesso è disposto a dichiarare con consapevolezza dispiegata il proprio desiderio, se non ponendolo immediatamente sotto l’egida della cauzione morale. Così il desiderio, o diciamo addirittura la pulsione erotica si affaccia alla pagina solo in forma fortemente ellittica. A maggior ragione, ciò vale quando il sesso si accompagna a un fantasma di violenza paurosa: esempio massimo, le circostanze del voto di Lucia, quando ci viene detto che «l’animo suo non poteva concepire altra affezione che di spavento, né concepire altro desiderio che della liberazione». Manzoni rinunzia ad elaborare un linguaggio critico dell’«affezione» per eccellenza; rinunzia quindi all’uso del suo strumento deputato per certificare gli stati di coscienza dei personaggi, il soliloquio. Quando Lucia è davvero sopraffatta dalla piena dei sentimenti, lo scrittore si sostituisce a lei per dare compostezza levigata al suo affanno: «Di tal genere, se non tali appunto, erano i pensieri di Lucia». Nella calibratura sapiente della piccola allocuzione interiore, il lessico amoroso si espande grado a grado con concretezza insolita: ma siamo fuori dell’area della rappresentazione realistica, e della connessa prospettiva criticistica. Quattro sono gli addii che scandiscono il brano. Il primo e più diffuso, l’addio ai monti, è quello in cui i procedimenti di sublimazione elegiaca appaiono più vistosi, nel celebrare e illeggiadrire, tra dolci evocazioni paesistiche e meste fantasticherie sul futuro, lo strazio di chi viene allontanato dalla propria terra. Il secondo addio mette a fuoco, con sensibile stacco, un’immagine particolare, la casa natia: e già con essa il «pensiero occulto» della sua abitatrice, e il «misterioso timore» delle attese di un passo ben noto.
Per associazione stretta di idee, ecco poi la «casa ancora straniera», meta di sguardi lanciati «alla sfuggita, passando, e non senza rossore»: la sfacciataggine, per usare un vocabolo tipico di Lucia, del ricordo allusivo, viene subito esorcizzata sviluppandolo nella figurazione di «un soggiorno tranquillo e perpetuo di sposa». Ma quest’ultimo, a sua volta, è ancora un termine forte: subentra quindi, con il quarto addio, l’immagine della casa di Dio, la chiesa, luogo di serenità indefettibile. Qui il rimpianto trova un fulcro sicuro: maggiore dunque è la cura di equilibrare con la compostezza dell’espressione la realtà palpitante del sentimento: prima un’anafora bimembre con due soggetti diversamente indeterminati a struttura chiastica («dov’era promesso, preparato un rito; dove il sospiro segreto del cuore doveva essere solennemente benedetto»); poi una doppia coordinata introduce finalmente il soggetto vero, l’amore, associandolo però e contrapponendolo, attraverso il richiamo alla prescrittività matrimoniale, a un concetto, non che di liceità, di santità addirittura.
In tal modo, lo struggimento amoroso appare complessivamente inquadrato fra due assi prospettici, la sublimazione elegiaca e la sublimazione religiosa. A ulteriore cautela, la pagina esclude ogni riferimento diretto a persone e cose specifiche: la serie dei pronomi indefiniti, «chi», «quello stesso che», lascia luogo alle forme impersonali del verbo, «s’imparò», cui subentrano sostantivi non meno astratti, «la mente», «l’animo». Nelle righe finali, come s’è visto, la vaghezza semantica acquista maggior pregnanza. Per contro, nel periodo con cui si conclude la pagina ritorna l’indeterminatezza pronominale: ma stavolta per indicare il soggetto supremo, in cui tutto si riassume, e dalla cui posizione di solennità discende l’onda ritmica che accompagna l’animo nel suo abbandonarsi a una consolante certezza fiduciosa: «Chi dava a voi tanta giocondità è per tutto; e non turba mai la gioia de’ suoi figli, se non per prepararne loro una più certa e più grande».
L’«addio monti» segna il più complesso artificio del Manzoni per interiorizzare il resoconto delle vicissitudini sentimentali, senza però affidarne la responsabilità al personaggio e quindi esimendosi dall’impegno di dargli un connotato critico. Ovvio notare che la sia pur mediatissima dicibilità qui raggiunta in tanto può stabilirsi in quanto l’animo è tutto volto al passato; cioè in quanto le circostanze esterne appaiono così nemiche da indurre un ripiegamento accorato su se stessi e una disposizione all’effusività intenerita. Ma appunto la singolarità dell’espediente adottato, intonando il soliloquio sulla voce propria, non di Lucia, dimostra la persistente riluttanza dello scrittore a concedere autonomia dispiegata alla rappresentazione della «potenza misteriosa», del «misterioso timore» da cui è connotata la realtà biopsichica dell’eros.
Il proposito manzoniano di esperire una nomenclatura totale della realtà umana si arresta dunque proprio sul terreno tradizionalmente più frequentato dalla letteratura. All’arte della disquisizione d’amore viene contrapposto un modulo accortamente stilizzato di insistente esaltazione della ritrosia dimostrata da una ragazza del popolo, che proprio nella sua predilezione per la parola schietta avvalora l’indicibilità del sentimento da cui è posseduta: «non c’era verso che potesse proferir quella parola [moglie], e spiegar quell’intenzione, senza fare il viso rosso».
L’amore non può esser rappresentato letterariamente, perché chiede, esige esso stesso di non venir partecipato, divulgato. Causa ed effetto di ciò è che l’individuo nemmeno entro se stesso è disposto a dichiarare con consapevolezza dispiegata il proprio desiderio, se non ponendolo immediatamente sotto l’egida della cauzione morale. Così il desiderio, o diciamo addirittura la pulsione erotica si affaccia alla pagina solo in forma fortemente ellittica. A maggior ragione, ciò vale quando il sesso si accompagna a un fantasma di violenza paurosa: esempio massimo, le circostanze del voto di Lucia, quando ci viene detto che «l’animo suo non poteva concepire altra affezione che di spavento, né concepire altro desiderio che della liberazione». Manzoni rinunzia ad elaborare un linguaggio critico dell’«affezione» per eccellenza; rinunzia quindi all’uso del suo strumento deputato per certificare gli stati di coscienza dei personaggi, il soliloquio. Quando Lucia è davvero sopraffatta dalla piena dei sentimenti, lo scrittore si sostituisce a lei per dare compostezza levigata al suo affanno: «Di tal genere, se non tali appunto, erano i pensieri di Lucia». Nella calibratura sapiente della piccola allocuzione interiore, il lessico amoroso si espande grado a grado con concretezza insolita: ma siamo fuori dell’area della rappresentazione realistica, e della connessa prospettiva criticistica. Quattro sono gli addii che scandiscono il brano. Il primo e più diffuso, l’addio ai monti, è quello in cui i procedimenti di sublimazione elegiaca appaiono più vistosi, nel celebrare e illeggiadrire, tra dolci evocazioni paesistiche e meste fantasticherie sul futuro, lo strazio di chi viene allontanato dalla propria terra. Il secondo addio mette a fuoco, con sensibile stacco, un’immagine particolare, la casa natia: e già con essa il «pensiero occulto» della sua abitatrice, e il «misterioso timore» delle attese di un passo ben noto.
Per associazione stretta di idee, ecco poi la «casa ancora straniera», meta di sguardi lanciati «alla sfuggita, passando, e non senza rossore»: la sfacciataggine, per usare un vocabolo tipico di Lucia, del ricordo allusivo, viene subito esorcizzata sviluppandolo nella figurazione di «un soggiorno tranquillo e perpetuo di sposa». Ma quest’ultimo, a sua volta, è ancora un termine forte: subentra quindi, con il quarto addio, l’immagine della casa di Dio, la chiesa, luogo di serenità indefettibile. Qui il rimpianto trova un fulcro sicuro: maggiore dunque è la cura di equilibrare con la compostezza dell’espressione la realtà palpitante del sentimento: prima un’anafora bimembre con due soggetti diversamente indeterminati a struttura chiastica («dov’era promesso, preparato un rito; dove il sospiro segreto del cuore doveva essere solennemente benedetto»); poi una doppia coordinata introduce finalmente il soggetto vero, l’amore, associandolo però e contrapponendolo, attraverso il richiamo alla prescrittività matrimoniale, a un concetto, non che di liceità, di santità addirittura.
In tal modo, lo struggimento amoroso appare complessivamente inquadrato fra due assi prospettici, la sublimazione elegiaca e la sublimazione religiosa. A ulteriore cautela, la pagina esclude ogni riferimento diretto a persone e cose specifiche: la serie dei pronomi indefiniti, «chi», «quello stesso che», lascia luogo alle forme impersonali del verbo, «s’imparò», cui subentrano sostantivi non meno astratti, «la mente», «l’animo». Nelle righe finali, come s’è visto, la vaghezza semantica acquista maggior pregnanza. Per contro, nel periodo con cui si conclude la pagina ritorna l’indeterminatezza pronominale: ma stavolta per indicare il soggetto supremo, in cui tutto si riassume, e dalla cui posizione di solennità discende l’onda ritmica che accompagna l’animo nel suo abbandonarsi a una consolante certezza fiduciosa: «Chi dava a voi tanta giocondità è per tutto; e non turba mai la gioia de’ suoi figli, se non per prepararne loro una più certa e più grande».
L’«addio monti» segna il più complesso artificio del Manzoni per interiorizzare il resoconto delle vicissitudini sentimentali, senza però affidarne la responsabilità al personaggio e quindi esimendosi dall’impegno di dargli un connotato critico. Ovvio notare che la sia pur mediatissima dicibilità qui raggiunta in tanto può stabilirsi in quanto l’animo è tutto volto al passato; cioè in quanto le circostanze esterne appaiono così nemiche da indurre un ripiegamento accorato su se stessi e una disposizione all’effusività intenerita. Ma appunto la singolarità dell’espediente adottato, intonando il soliloquio sulla voce propria, non di Lucia, dimostra la persistente riluttanza dello scrittore a concedere autonomia dispiegata alla rappresentazione della «potenza misteriosa», del «misterioso timore» da cui è connotata la realtà biopsichica dell’eros.
_(da Il libro per tutti: saggio sui “Promessi sposi”, Roma 1983)