Presentazione dell'opera
Frontespizio dell'edizione 1840-42
I Promessi sposi sono un romanzo storico ambientato nella Lombardia del 1628-1630, che ha per protagonisti i giovani Renzo Tramaglino e Lucia Mondella il cui matrimonio viene impedito dal signorotto del loro paese, don Rodrigo, a causa di una futile scommessa col cugino Attilio. In seguito a un tentativo di rapimento della ragazza, i due fidanzati sono costretti a separarsi e a fuggire, andando incontro a una serie di disavventure (Lucia incontrerà la monaca di Monza, l'innominato, il cardinal Borromeo, mentre Renzo sarà coinvolto nei moti popolari a Milano il giorno di S. Martino del 1628 e dovrà rifugiarsi nel Bergamasco). La peste del 1630 farà in modo che i due promessi si ritrovino nel lazzaretto di Milano e, in seguito alla morte del loro persecutore a causa dell'epidemia, potranno infine sposarsi e trasferirsi nel territorio di Bergamo.
Il romanzo ha avuto due edizioni, la prima del 1827 e la seconda, definitiva, del 1840-42, uscita a dispense e illustrata da Francesco Gonin in collaborazione con altri disegnatori. In appendice a questa seconda edizione Manzoni pubblicò la Storia della colonna infame, saggio storico che ricostruisce il processo agli untori di Milano del 1630 di cui dà sommariamente conto nel cap. XXXII del romanzo.
Il romanzo ha avuto due edizioni, la prima del 1827 e la seconda, definitiva, del 1840-42, uscita a dispense e illustrata da Francesco Gonin in collaborazione con altri disegnatori. In appendice a questa seconda edizione Manzoni pubblicò la Storia della colonna infame, saggio storico che ricostruisce il processo agli untori di Milano del 1630 di cui dà sommariamente conto nel cap. XXXII del romanzo.
Genesi del romanzo
W. Scott, ritratto da H. Raeburn (1822)
L'interesse per la storia è sempre stato preminente in Manzoni dopo l'abbandono delle poetiche del Neoclassicismo, come dimostra la composizione delle Odi civili e, soprattutto, delle due tragedie, opere in cui su uno sfondo storico precisamente ricostruito si innestano vicende in parte fantastiche (secondo il principio, tipico del romanzo storico europeo, per cui l'autore mescola verità e invenzione letteraria). Ciò nasce dall'urgenza avvertita dallo scrittore, ed espressa nel Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica in Italia, che la storia si occupi prevalentemente non di fatti e personaggi cospicui, ma dedichi la sua attenzione soprattutto alle masse popolari, agli umili che non hanno voce nella storiografia tradizionale e sono tuttavia i protagonisti dell'agire storico, subendo tra l'altro assai spesso i soprusi e le soperchierie dei potenti. A questo fine mal si adattava il genere tragico, sia per gli evidenti limiti imposti dalla tradizione teatrale (la versificazione, la relativa brevità del componimento...), sia per la necessità di mettere sulla scena personaggi di rango sociale elevato, mentre le popolazioni minute restavano inevitabilmente sullo sfondo; da qui l'interesse a partire dagli anni Venti del XIX secolo per il genere del romanzo, in particolare per il romanzo di genere storico che aveva tutte le caratteristiche adatte per il discorso letterario che Manzoni aveva in mente, ma che presentava il grave difetto di non avere in Italia una tradizione e dei modelli autorevoli cui rifarsi, dal momento che l'esponente di spicco del genere in Europa era lo scozzese Walter Scott, autore, tra gli altri, del famosissimo romanzo Ivanhoe. Il Manzoni decise pertanto di affrontare una sfida impegnativa e dall'esito incerto, poiché si trattava di percorrere una strada seguita da pochi altri prima di lui e di avventurarsi in un genere letterario che, oltretutto, molti intellettuali italiani guardavano con malcelato disprezzo, come un prodotto di rango inferiore (è noto che la letteratura del periodo privilegiava altri generi, come la poesia lirica o la stessa tragedia). Punto di partenza per l'ideazione del romanzo fu certamente la lettura di molti testi e documenti del periodo e del luogo in cui la storia venne poi di fatto ambientata, ovvero la Lombardia del secolo XVII, e in particolare la grida datata 15 ottobre 1627 in cui le autorità milanesi minacciavano pene severe contro chiunque minacciasse un curato perché non celebrasse un matrimonio, che è ovviamente il fatto che dà inizio alla trama del romanzo (è la stessa grida letta dall'Azzecca-garbugli a Renzo nel cap. III del romanzo). Lo scrittore ideò pertanto una vicenda in cui personaggi umili subiscono le angherie di un esponente della media aristocrazia locale, in uno scenario che è quello della Lombardia dominata dagli Spagnoli nel Seicento, ovvero uno Stato decadente in cui, oltre ad esserci un grave malgoverno che causa molti disagi alla popolazione (la cattiva gestione della carestia, l'incapacità di fronteggiare la peste...), vi è una giustizia assolutamente inefficiente che non assicura il rispetto delle leggi e in cui i forti e i prepotenti hanno la meglio grazie ai loro appoggi politici e alla violenza. Pieno di entusiasmo per questo nuovo progetto letterario, Manzoni si dedicò alla prima stesura del romanzo nel 1821-1823 e ne nacque un abbozzo noto con il titolo provvisorio di Fermo e Lucia.
Storia editoriale del romanzo e questione linguistica
Un'immagine di G. P. Vieusseux
Il Fermo e Lucia fu ben presto abbandonato e rimase sostanzialmente incompiuto, per ragioni narrative legate a un certo squilibrio della trama e, soprattutto, per il problema della lingua che non soddisfaceva assolutamente Manzoni e alla soluzione del quale dedicò un lungo lavoro durato quasi un ventennio. L'aspirazione del romanziere era quella, coerente con le poetiche del Romanticismo cui era vicino, di rivolgersi a un ampio pubblico di lettori borghesi, il che rendeva ovviamente impensabile l'uso del dialetto lombardo che avrebbe confinato il romanzo a una diffusione regionale; tuttavia l'italiano conosciuto da Manzoni era quello della tradizione letteraria elaborato nel XVI secolo e basato sul modello fiorentino del Trecento (lo stesso usato da lui nelle tragedie e negli altri scritti precedenti il romanzo), e questa lingua aveva il grave difetto di non corrispondere all'uso corrente della popolazione, cioè di essere artificiale e libresca, oltre che troppo aulica e altisonante per essere messa in bocca a personaggi umili come i contadini protagonisti della vicenda. L'italiano letterario poteva andar bene per opere poetiche come le Odi o i Cori delle tragedie, o per far parlare personaggi di rango elevato come Adelchi e Desiderio, ma sarebbe suonata alquanto ridicola se attribuita a poveri popolani come Renzo, Lucia, Agnese, né era praticabile una sorta di registro multiplo in cui, ad esempio, i personaggi elevati usassero tale lingua e quelli umili il dialetto (tale soluzione era stata praticata da Goldoni in alcune sue commedie, ma era del tutto inadatta a un'opera in prosa come un romanzo, che richiede al contrario una certa unità di lingua e, almeno in parte, di stile). Il risultato del primo abbozzo del Fermo e Lucia fu dunque una lingua composita, in cui su un fondo di toscano letterario Manzoni tentò di innestare lombardismi, francesismi e voci popolari, ottenendo però un vero e proprio "pasticcio" che sarebbe riuscito assai indigesto ai lettori cui l'autore intendeva rivolgersi; a ciò si aggiungeva l'ulteriore difficoltà rappresentata dal suo non essere toscano e dal fatto che la sua lingua naturale era il dialetto lombardo, cosa che influenzava inevitabilmente la stesura della prosa (nella seconda Introduzione al Fermo e Lucia egli afferma che il dialetto gli "cola dalla penna", con un'espressione che chiarisce bene il condizionamento delle sue abitudini linguistiche). Per tutte queste ragioni la stesura del Fermo venne abbandonata nel 1823 e, negli anni seguenti, Manzoni si dedicò alla riscrittura del romanzo di cui venne modificata la trama, mentre la lingua, pur restando sostanzialmente il toscano letterario della prima versione, fu tuttavia depurata degli elementi più dialettali e resa quindi di più facile lettura rispetto al primo tentativo. Nacque così la prima edizione del romanzo, che venne stampato a Milano nel 1827 dall'editore Ferrario col titolo I Promessi sposi. Storia milanese del secolo XVII scoperta e rifatta da Alessandro Manzoni, mentre quello di Sposi promessi (che un tempo veniva erroneamente attribuito alla prima stesura mai pubblicata) fu soltanto un titolo provvisorio che comparve su alcune bozze prima della stampa e che poi venne definitivamente eliminato. Tale edizione è nota anche col nome, brutto ma un tempo diffuso nella tradizione critica, di "ventisettana".
Nonostante il notevole successo di pubblico riscontrato dal romanzo, l'autore era ancora profondamente insoddisfatto della lingua (per ragioni analoghe a quelle esposte per la prima stesura) e questo lo spinse, negli anni successivi al 1827, a cercare un'altra soluzione al problema che andasse in una direzione affatto diversa da quella, apparentemente obbligata, del toscano della tradizione letteraria. Manzoni si convinse che la soluzione fosse quella di adottare, sì, il toscano come lingua del romanzo, ma quello moderno parlato dalla borghesia colta di Firenze, che aveva il vantaggio di essere attestato dall'uso e di non presentare una coloritura eccessivamente "vernacolare", adatto quindi alla prosa e in grado di raggiungere un pubblico altrettanto vasto. Negli anni successivi al 1827 Manzoni si recò dunque spesso a Firenze e soggiornò nella città toscana per lunghi periodi, al fine di impadronirsi della lingua e compiere quella "risciacquatura dei panni in Arno" che avrebbe portato alla revisione linguistica del romanzo, anche grazie alla frequentazione dell'ambiente dell'Antologia in cui lavoravano intellettuali del calibro di Vieusseux, Capponi, Niccolini. Il risultato di questo complesso lavoro fu l'edizione definitiva dei Promessi sposi, stampati ancora a Milano nel 1840-42 presso gli editori Guglielmini e Redaelli e che presentano, rispetto all'edizione del 1827, importanti revisioni linguistiche mantenendo la trama sostanzialmente immutata (è la cosiddetta "quarantana", che riscosse un successo ancora superiore alla "ventisettana" e molti consensi anche di critica). La soluzione al problema della lingua applicata da Manzoni incontrò grande favore da parte di molti intellettuali e fu avversata da altri, ma ebbe comunque il merito di imporsi largamente nell'uso letterario fino ad essere definita "manzonismo", per cui dopo i Promessi sposi il fiorentino parlato divenne la base linguistica di gran parte delle opere letterarie di diffusione nazionale, oltre che il fondamento di quell'italiano lingua di popolo che si sarebbe formato, in modo lento e graduale, nei decenni successivi all'unificazione politica (il principale romanziere successivo a Manzoni, Giovanni Verga, usò il toscano di tradizione manzoniana e rimase fedele a tale modello come garanzia, a suo dire, della stessa unità politica).
Nonostante il notevole successo di pubblico riscontrato dal romanzo, l'autore era ancora profondamente insoddisfatto della lingua (per ragioni analoghe a quelle esposte per la prima stesura) e questo lo spinse, negli anni successivi al 1827, a cercare un'altra soluzione al problema che andasse in una direzione affatto diversa da quella, apparentemente obbligata, del toscano della tradizione letteraria. Manzoni si convinse che la soluzione fosse quella di adottare, sì, il toscano come lingua del romanzo, ma quello moderno parlato dalla borghesia colta di Firenze, che aveva il vantaggio di essere attestato dall'uso e di non presentare una coloritura eccessivamente "vernacolare", adatto quindi alla prosa e in grado di raggiungere un pubblico altrettanto vasto. Negli anni successivi al 1827 Manzoni si recò dunque spesso a Firenze e soggiornò nella città toscana per lunghi periodi, al fine di impadronirsi della lingua e compiere quella "risciacquatura dei panni in Arno" che avrebbe portato alla revisione linguistica del romanzo, anche grazie alla frequentazione dell'ambiente dell'Antologia in cui lavoravano intellettuali del calibro di Vieusseux, Capponi, Niccolini. Il risultato di questo complesso lavoro fu l'edizione definitiva dei Promessi sposi, stampati ancora a Milano nel 1840-42 presso gli editori Guglielmini e Redaelli e che presentano, rispetto all'edizione del 1827, importanti revisioni linguistiche mantenendo la trama sostanzialmente immutata (è la cosiddetta "quarantana", che riscosse un successo ancora superiore alla "ventisettana" e molti consensi anche di critica). La soluzione al problema della lingua applicata da Manzoni incontrò grande favore da parte di molti intellettuali e fu avversata da altri, ma ebbe comunque il merito di imporsi largamente nell'uso letterario fino ad essere definita "manzonismo", per cui dopo i Promessi sposi il fiorentino parlato divenne la base linguistica di gran parte delle opere letterarie di diffusione nazionale, oltre che il fondamento di quell'italiano lingua di popolo che si sarebbe formato, in modo lento e graduale, nei decenni successivi all'unificazione politica (il principale romanziere successivo a Manzoni, Giovanni Verga, usò il toscano di tradizione manzoniana e rimase fedele a tale modello come garanzia, a suo dire, della stessa unità politica).
L'ambientazione storica
Ritratto di don Gonzalo de Cordoba
Manzoni sceglie come scenario del romanzo la Lombardia del Seicento, ovvero un luogo a lui familiare in cui aveva trascorso tutta la vita e un secolo, il XVII, segnato da alcuni gravi problemi quali la dominazione straniera, la decadenza e la corruzione politica, l'inefficienza del sistema giudiziario, l'ignoranza e la superstizione (tutti elementi che in diversa misura sono oggetto di trattazione e di critica nelle pagine del libro). Tale scelta era coerente con l'interesse per le tematiche socio-economiche assai diffuse anche nel Romanticismo (che normalmente respingeva le ambientazioni classiche per preferire quelle medievali) e infatti il romanzo seguiva le due tragedie che raccontavano eventi storici del XV secolo (il Carmagnola) e dell'epoca di Carlo Magno (l'Adelchi), col vantaggio che il Seicento era un'ambientazione alquanto originale e relativamente vicina nel tempo, oltre a presentare numerosi documenti storici cui l'autore poté rifarsi per ricostruire lo scenario con precisione e abbondanza di particolari. Va aggiunto il fatto che la dominazione degli Spagnoli in Lombardia nel XVII secolo sembrava alludere a quella austriaca di inizio XIX, proprio come quella dei Longobardi nella seconda tragedia, per cui vi era una certa attinenza alle vicende del Risorgimento italiano anche se nel romanzo non vi sono riferimenti diretti o passi a doppia lettura come nell'Adelchi (l'idea di fondo è che l'essere assoggettati al dominio di uno Stato straniero è fonte di decadenza politica e di arretratezza, oltre che di ingiustizia sociale e di diffusa anarchia, tutti elementi largamente presenti nelle vicende del romanzo).
Scopo dell'autore è dunque rappresentare con un certo realismo le condizioni di vita delle popolazioni contadine e umili di quell'epoca difficile, rese ancor più dure da eventi traumatici quali la carestia del 1627-28 e l'epidemia di peste del 1630, ma soprattutto criticare l'inefficienza e l'inadeguatezza del governo e delle istituzioni politiche nel fronteggiare quei gravi avvenimenti, per cui si può affermare che il romanzo è una sottile analisi dei meccanismi del potere e del male che inevitabilmente esso porta con sé, idea già presente nelle tragedie (per approfondire: G. Petronio, La storia come trama di violenze e di sangue). Non si tratta solo degli abusi e delle prepotenze esercitate dai nobili sui popolani, ma anche di questioni più generali in cui emerge l'incapacità e l'impreparazione delle più alte cariche dello Stato di Milano: Manzoni sottolinea la dissennata politica economica che dapprima aggrava la carestia sottraendo risorse all'agricoltura per la guerra di Mantova e del Monferrato, quindi fa esplodere la rivolta di S. Martino prima con l'imposizione e poi la revoca di un calmiere sul prezzo del pane; critica l'inefficienza delle autorità di Milano nell'arginare la diffusione della peste, che viene dapprima negata, poi ammessa con mille riserve, infine riconosciuta quando ormai l'epidemia è esplosa; condanna senza appello i processi sommari celebrati contro i presunti "untori", che portarono all'esecuzione di vari innocenti ed erano frutto dell'ignoranza tipica di quel secolo (alla questione specifica è dedicato il trattato storiografico pubblicato in appendice al romanzo). Su tutto ciò domina il carattere vacuo e frivolo dell'aristocrazia terriera italiana e spagnola, legata ai suoi privilegi feudali e prigioniera di un malinteso senso dell'onore cavalleresco, oltre che improduttiva per la società e incapace di integrarsi in un'economia mercantile di stampo "borghese" (essa è oggetto di critica in quanto parte della classe dirigente, ed è evidente che qui Manzoni pensa anche alle trasformazioni sociali di inizio Ottocento verificatesi in conseguenza dell'età napoleonica). Altrettanto frivola anche la cultura secentesca, in cui l'eccessiva importanza data alle questioni cavalleresche e al concetto di "onore" viene spesso messa alla berlina dallo scrittore, essendo di per sé fonte di prepotenze e azioni malvage, non ultima la persecuzione di don Rodrigo ai danni di Lucia che è espressione di un sopruso sessuale non raro nel rapporto nobili-contadini dell'Italia di quel tempo. È comunque da sottolineare che la prospettiva di Manzoni non è assolutamente di tipo "storicista", ovvero il suo intento non è quello di criticare l'arretratezza del XVII secolo per esaltare l'Ottocento come età positiva e di progresso, benché sia implicito che negli ultimi duecento anni vi erano stati passi avanti: ciò che interessa lo scrittore è evidenziare i problemi che affliggono la società e che possono essere connessi con un determinato periodo storico, ma che tendono ad essere comuni con tutti i popoli di tutte le epoche e devono perciò essere combattuti dai governi per arrecare beneficio all'umanità, trovando volta a volta i rimedi e le soluzioni più adatte per eliminare le ingiustizie che, seppure in minor misura, erano ovviamente ancora presenti nel XIX secolo. Ciò deve avvenire secondo una visione politica che è ispirata a un certo moderatismo e conservatorismo, dunque attraverso riforme legislative applicate "dall'alto" e in modo "illuminato", rifuggendo da movimenti rivoluzionari e strappi traumatici che non possono portare che ulteriori sofferenze (la condanna dei moti popolari di Milano riflette quella del giacobinismo e degli eccessi della Rivoluzione francese); grande importanza ha perciò la politica economica, che deve privilegiare il libero mercato e l'integrazione dell'aristocrazia terriera nelle sue logiche, inoltre occorre il miglioramento della giustizia con leggi più eque e una prassi giudiziaria che ne favorisca l'applicazione (un evidente riferimento a Beccaria e all'Illuminismo), la diffusione sempre più ampia della cultura e dell'informazione, la trasformazione delle città in luoghi meno sovraffollati e malsani grazie a una politica sanitaria che nell'Ottocento aveva ancora grandi progressi da compiere (il ruolo delle campagne è privilegiato rispetto a quello dei centri urbani e anche in questo emerge nettamente la matrice illuminista del pensiero di Manzoni).
Da ricordare, infine, che in questo grandioso affresco storico è dedicata notevole attenzione all'elemento della guerra, di cui l'autore sottolinea l'inutilità e il sovrappiù di disagi e problemi che essa crea alle popolazioni contadine, specie quella di Mantova che nasce da futili questioni dinastiche e di politica internazionale: tale conflitto solletica le vane ambizioni di sovrani e primi ministri, mostrando tra l'altro l'incapacità militare e amministrativa del governatore di Milano don Gonzalo de Cordoba, e alla fine non solo acuisce la già grave carestia ma contribuisce al diffondersi della peste, portata in Lombardia dai lanzichenecchi scesi al seguito dei condottieri imperiali fra cui il Wallenstein (ciò è oggetto di trattazione nel cap. XXVIII del romanzo). Anche in questo è ben evidente il contrasto fra le mire e gli obiettivi dei personaggi potenti, che combattono le loro guerre incuranti delle sofferenze delle popolazioni a loro sottomesse, e le misere condizioni di vita dei poveri contadini, che appaiono lontanissimi dalle questioni di alta politica e assai più attenti ai loro problemi quotidiani connessi con la mancanza di pane e la miseria, il che è parte della critica che Manzoni rivolge alla storiografia tradizionale che scarsa attenzione presta alle questioni sociali: non a caso nell'Introduzione l'anonimo contrappone le "gente meccaniche e di piccol affare" ai personaggi potenti, ricordando lo strepito "de' bellici Oricalchi" che alludono alle guerre condannate dallo scrittore. Per approfondire: F. De Sanctis, Un perfetto romanzo storico.
Scopo dell'autore è dunque rappresentare con un certo realismo le condizioni di vita delle popolazioni contadine e umili di quell'epoca difficile, rese ancor più dure da eventi traumatici quali la carestia del 1627-28 e l'epidemia di peste del 1630, ma soprattutto criticare l'inefficienza e l'inadeguatezza del governo e delle istituzioni politiche nel fronteggiare quei gravi avvenimenti, per cui si può affermare che il romanzo è una sottile analisi dei meccanismi del potere e del male che inevitabilmente esso porta con sé, idea già presente nelle tragedie (per approfondire: G. Petronio, La storia come trama di violenze e di sangue). Non si tratta solo degli abusi e delle prepotenze esercitate dai nobili sui popolani, ma anche di questioni più generali in cui emerge l'incapacità e l'impreparazione delle più alte cariche dello Stato di Milano: Manzoni sottolinea la dissennata politica economica che dapprima aggrava la carestia sottraendo risorse all'agricoltura per la guerra di Mantova e del Monferrato, quindi fa esplodere la rivolta di S. Martino prima con l'imposizione e poi la revoca di un calmiere sul prezzo del pane; critica l'inefficienza delle autorità di Milano nell'arginare la diffusione della peste, che viene dapprima negata, poi ammessa con mille riserve, infine riconosciuta quando ormai l'epidemia è esplosa; condanna senza appello i processi sommari celebrati contro i presunti "untori", che portarono all'esecuzione di vari innocenti ed erano frutto dell'ignoranza tipica di quel secolo (alla questione specifica è dedicato il trattato storiografico pubblicato in appendice al romanzo). Su tutto ciò domina il carattere vacuo e frivolo dell'aristocrazia terriera italiana e spagnola, legata ai suoi privilegi feudali e prigioniera di un malinteso senso dell'onore cavalleresco, oltre che improduttiva per la società e incapace di integrarsi in un'economia mercantile di stampo "borghese" (essa è oggetto di critica in quanto parte della classe dirigente, ed è evidente che qui Manzoni pensa anche alle trasformazioni sociali di inizio Ottocento verificatesi in conseguenza dell'età napoleonica). Altrettanto frivola anche la cultura secentesca, in cui l'eccessiva importanza data alle questioni cavalleresche e al concetto di "onore" viene spesso messa alla berlina dallo scrittore, essendo di per sé fonte di prepotenze e azioni malvage, non ultima la persecuzione di don Rodrigo ai danni di Lucia che è espressione di un sopruso sessuale non raro nel rapporto nobili-contadini dell'Italia di quel tempo. È comunque da sottolineare che la prospettiva di Manzoni non è assolutamente di tipo "storicista", ovvero il suo intento non è quello di criticare l'arretratezza del XVII secolo per esaltare l'Ottocento come età positiva e di progresso, benché sia implicito che negli ultimi duecento anni vi erano stati passi avanti: ciò che interessa lo scrittore è evidenziare i problemi che affliggono la società e che possono essere connessi con un determinato periodo storico, ma che tendono ad essere comuni con tutti i popoli di tutte le epoche e devono perciò essere combattuti dai governi per arrecare beneficio all'umanità, trovando volta a volta i rimedi e le soluzioni più adatte per eliminare le ingiustizie che, seppure in minor misura, erano ovviamente ancora presenti nel XIX secolo. Ciò deve avvenire secondo una visione politica che è ispirata a un certo moderatismo e conservatorismo, dunque attraverso riforme legislative applicate "dall'alto" e in modo "illuminato", rifuggendo da movimenti rivoluzionari e strappi traumatici che non possono portare che ulteriori sofferenze (la condanna dei moti popolari di Milano riflette quella del giacobinismo e degli eccessi della Rivoluzione francese); grande importanza ha perciò la politica economica, che deve privilegiare il libero mercato e l'integrazione dell'aristocrazia terriera nelle sue logiche, inoltre occorre il miglioramento della giustizia con leggi più eque e una prassi giudiziaria che ne favorisca l'applicazione (un evidente riferimento a Beccaria e all'Illuminismo), la diffusione sempre più ampia della cultura e dell'informazione, la trasformazione delle città in luoghi meno sovraffollati e malsani grazie a una politica sanitaria che nell'Ottocento aveva ancora grandi progressi da compiere (il ruolo delle campagne è privilegiato rispetto a quello dei centri urbani e anche in questo emerge nettamente la matrice illuminista del pensiero di Manzoni).
Da ricordare, infine, che in questo grandioso affresco storico è dedicata notevole attenzione all'elemento della guerra, di cui l'autore sottolinea l'inutilità e il sovrappiù di disagi e problemi che essa crea alle popolazioni contadine, specie quella di Mantova che nasce da futili questioni dinastiche e di politica internazionale: tale conflitto solletica le vane ambizioni di sovrani e primi ministri, mostrando tra l'altro l'incapacità militare e amministrativa del governatore di Milano don Gonzalo de Cordoba, e alla fine non solo acuisce la già grave carestia ma contribuisce al diffondersi della peste, portata in Lombardia dai lanzichenecchi scesi al seguito dei condottieri imperiali fra cui il Wallenstein (ciò è oggetto di trattazione nel cap. XXVIII del romanzo). Anche in questo è ben evidente il contrasto fra le mire e gli obiettivi dei personaggi potenti, che combattono le loro guerre incuranti delle sofferenze delle popolazioni a loro sottomesse, e le misere condizioni di vita dei poveri contadini, che appaiono lontanissimi dalle questioni di alta politica e assai più attenti ai loro problemi quotidiani connessi con la mancanza di pane e la miseria, il che è parte della critica che Manzoni rivolge alla storiografia tradizionale che scarsa attenzione presta alle questioni sociali: non a caso nell'Introduzione l'anonimo contrappone le "gente meccaniche e di piccol affare" ai personaggi potenti, ricordando lo strepito "de' bellici Oricalchi" che alludono alle guerre condannate dallo scrittore. Per approfondire: F. De Sanctis, Un perfetto romanzo storico.
La Provvidenza e l'elemento religioso
G. C. Procaccini, F. Borromeo
È persino ovvio sottolineare come nel romanzo grandissima importanza abbia la visione religiosa e la fede nella Provvidenza divina da parte dell'autore, per quanto sarebbe riduttivo affermare che Manzoni offra una descrizione rasserenante e consolatoria della vita umana, o addirittura bigotta come è parso a non pochi dei suoi detrattori. La sua visione sotto questo aspetto è invece assai più aperta e problematica, oltre ad essere improntata a un certo pessimismo come già nelle tragedie, per cui si può sostenere che la religiosità dello scrittore sia molto sofferta e frutto di un travaglio interiore non del tutto risolto nella conclusione del romanzo: Dio è ovviamente presente nelle vicende dei Promessi sposi, ma è un Dio invisibile nel quale si può soltanto aver fede e che sottopone spesso le persone innocenti a prove terribili senza rendere espliciti i suoi disegni imperscrutabili, cosa che risulta molto evidente con il disastroso flagello della peste. Essa è presentata come un profondo sconvolgimento dell'ordine sociale e naturale, in cui moltissimi innocenti perdono la vita senza aver commesso alcuna colpa, dunque è una prova cui Dio sottopone i suoi fedeli e che scuote profondamente le coscienze sino a provocare un certo sbigottimento, del quale si ravvisa traccia nello stesso atteggiamento dello scrittore. Del resto gli stessi protagonisti del romanzo reagiscono diversamente di fronte all'epidemia, come don Rodrigo che tenta di ignorare il rischio e scherza in modo macabro sulla morte di Attilio (ma poi è colto da terrore quando si scopre ammalato), padre Cristoforo che sfrutta l'occasione per mettersi al servizio dei bisognosi al lazzaretto, Renzo e Lucia che accettano la malattia con rassegnazione, don Abbondio che considera la peste una "scopa" che ha spazzato via i malvagi e i prepotenti e si rallegra di averla scampata (senza contare il popolo di Milano che cerca un capro espiatorio per il morbo e lo trova nei presunti untori). La stessa morale elaborata dai due protagonisti alla fine delle vicende ha poco di edificante e consolatorio, dal momento che i guai (come afferma Lucia in base alla sua esperienza) colpiscono anche chi non è andato a cercarli, per cui solo la fiducia nella Provvidenza li può addolcire e rendere utili "per una vita migliore", il che però non è vero per tutti in quanto il "lieto fine" del romanzo non trova ovviamente riscontro con le persone reali che soccombono senza colpa sulla scena della storia, come le migliaia di vittime della peste (questo è anche il motivo per cui Manzoni, dopo la stesura del romanzo, abbandonerà la narrativa per dedicarsi alla storia; cfr. I. Calvino, Un mondo senza Provvidenza).
L'autore delinea dunque una vicenda in cui Dio non si mostra mai e non interviene direttamente a dar segno della sua presenza, mentre tutto si svolge sulla scena del mondo e ha come motore la bontà o la malvagità degli uomini: il male della storia è frutto delle azioni umane, non certo dell'intervento del diavolo come affermato ingenuamente dall'anonimo nell'Introduzione, mentre il destino ultraterreno delle persone è relegato in una dimensione che va al di là della morte e non è conoscibile ai vivi sulla Terra (com'è evidente nel caso di don Rodrigo, che muore lasciandoci nel dubbio sul suo eventuale ravvedimento morale). La religiosità è dunque rappresentata come qualcosa di intimo e personale, fonte di sofferenza interiore e di lotta con i propri sentimenti, che può portare anche a conversioni clamorose e inattese come quella dell'innominato o quella, più modesta ma non meno sofferta, di Lodovico: queste due vicende personali sono esemplari di una rappresentazione della misericordia divina che va molto al di là degli stereotipi tradizionali, per cui accanto al personaggio di Lucia che con la sua religiosità portata talvolta all'eccesso può far pensare alla "pinzochera" della commedia del Seicento, abbiamo altri esempi di respiro decisamente più elevato e in cui l'elemento religioso è tutt'altro che scontato, tendente anzi al sublime. Questo vale anche per il cardinal Borromeo, di cui Manzoni traccia un ritratto luminoso che ha fatto pensare all'agiografia (anche se va detto che lo scrittore gli rimprovera alcune gravi colpe, non ultima quella di credere agli untori), ma che presenta uno spessore narrativo che lo rende molto credibile e che diventa complementare alla figura, altrettanto tragica sul versante opposto del male, dell'innominato. Del resto non tutti gli esponenti del clero sono personaggi positivi, giacché accanto al cardinale e a padre Cristoforo, esponente di un monachesimo umile e dedito alla cura dei poveri, abbiamo don Abbondio (un vile che si è fatto prete per avere vita comoda e privilegi, e che dunque rifugge dai suoi doveri) e la monaca di Monza, una nobildonna costretta a prendere il velo e protagonista di una vicenda dai contorni foschi, esponente della nobiltà che usa la religione per i suoi fini economici e dinastici. Se si aggiunge a questi il padre provinciale dei cappuccini, che si mostra sensibile alle pressioni del conte zio e accetta di far trasferire padre Cristoforo da Pescarenico a Rimini, si ha un quadro sufficientemente chiaro di un clero che è oggetto di critica da parte dell'autore, specie quando la religione diventa strumento di potere o elemento puramente esteriore che sfocia in atteggiamenti effettivamente bigotti, respinti e condannati da Manzoni al pari di quelli irreligiosi e atei.
Non va dimenticato, infine, che il Cristianesimo di Manzoni è stato fortemente influenzato dal giansenismo fin dai tempi della "conversione" del 1810, dunque la sua prospettiva è in parte viziata da una visione "manichea" che tende a dividere gli uomini in eletti e reprobi, a sopravvalutare il carattere della misericordia divina e della "predestinazione" a scapito delle azioni umane: tale visione è assai più evidente nelle tragedie e si attenua all'altezza del romanzo, ma resta comunque la sensazione che il Dio dei Promessi sposi sia a tratti quello terribile e vendicativo dell'Antico Testamento che emerge in molte opere precedenti, e che l'aspetto della predestinazione conservi una certa rilevanza specie nella descrizione della peste, in cui è fin troppo facile rilevare che a soccombere sono soprattutto i personaggi negativi della vicenda (oltre a don Rodrigo, alla fine muoiono di peste il conte zio, il conte Attilio, l'Azzecca-garbugli, il podestà).
L'autore delinea dunque una vicenda in cui Dio non si mostra mai e non interviene direttamente a dar segno della sua presenza, mentre tutto si svolge sulla scena del mondo e ha come motore la bontà o la malvagità degli uomini: il male della storia è frutto delle azioni umane, non certo dell'intervento del diavolo come affermato ingenuamente dall'anonimo nell'Introduzione, mentre il destino ultraterreno delle persone è relegato in una dimensione che va al di là della morte e non è conoscibile ai vivi sulla Terra (com'è evidente nel caso di don Rodrigo, che muore lasciandoci nel dubbio sul suo eventuale ravvedimento morale). La religiosità è dunque rappresentata come qualcosa di intimo e personale, fonte di sofferenza interiore e di lotta con i propri sentimenti, che può portare anche a conversioni clamorose e inattese come quella dell'innominato o quella, più modesta ma non meno sofferta, di Lodovico: queste due vicende personali sono esemplari di una rappresentazione della misericordia divina che va molto al di là degli stereotipi tradizionali, per cui accanto al personaggio di Lucia che con la sua religiosità portata talvolta all'eccesso può far pensare alla "pinzochera" della commedia del Seicento, abbiamo altri esempi di respiro decisamente più elevato e in cui l'elemento religioso è tutt'altro che scontato, tendente anzi al sublime. Questo vale anche per il cardinal Borromeo, di cui Manzoni traccia un ritratto luminoso che ha fatto pensare all'agiografia (anche se va detto che lo scrittore gli rimprovera alcune gravi colpe, non ultima quella di credere agli untori), ma che presenta uno spessore narrativo che lo rende molto credibile e che diventa complementare alla figura, altrettanto tragica sul versante opposto del male, dell'innominato. Del resto non tutti gli esponenti del clero sono personaggi positivi, giacché accanto al cardinale e a padre Cristoforo, esponente di un monachesimo umile e dedito alla cura dei poveri, abbiamo don Abbondio (un vile che si è fatto prete per avere vita comoda e privilegi, e che dunque rifugge dai suoi doveri) e la monaca di Monza, una nobildonna costretta a prendere il velo e protagonista di una vicenda dai contorni foschi, esponente della nobiltà che usa la religione per i suoi fini economici e dinastici. Se si aggiunge a questi il padre provinciale dei cappuccini, che si mostra sensibile alle pressioni del conte zio e accetta di far trasferire padre Cristoforo da Pescarenico a Rimini, si ha un quadro sufficientemente chiaro di un clero che è oggetto di critica da parte dell'autore, specie quando la religione diventa strumento di potere o elemento puramente esteriore che sfocia in atteggiamenti effettivamente bigotti, respinti e condannati da Manzoni al pari di quelli irreligiosi e atei.
Non va dimenticato, infine, che il Cristianesimo di Manzoni è stato fortemente influenzato dal giansenismo fin dai tempi della "conversione" del 1810, dunque la sua prospettiva è in parte viziata da una visione "manichea" che tende a dividere gli uomini in eletti e reprobi, a sopravvalutare il carattere della misericordia divina e della "predestinazione" a scapito delle azioni umane: tale visione è assai più evidente nelle tragedie e si attenua all'altezza del romanzo, ma resta comunque la sensazione che il Dio dei Promessi sposi sia a tratti quello terribile e vendicativo dell'Antico Testamento che emerge in molte opere precedenti, e che l'aspetto della predestinazione conservi una certa rilevanza specie nella descrizione della peste, in cui è fin troppo facile rilevare che a soccombere sono soprattutto i personaggi negativi della vicenda (oltre a don Rodrigo, alla fine muoiono di peste il conte zio, il conte Attilio, l'Azzecca-garbugli, il podestà).
Narratore e punto di vista
F. Gonin, L'anonimo secentista
Il romanzo si basa sulla finzione narrativa che Manzoni abbia ritrovato un anonimo manoscritto del Seicento, scritto in una lingua ampollosa e di difficile lettura ma che racconta una bella storia, per cui l'autore (dopo aver tentato con poca convinzione di trascriverlo) dichiara di averlo rimaneggiato correggendone la lingua e lo stile. Si tratta di un espediente che ha altri precedenti nella narrativa europea e che, da un lato, vuole presentare le vicende raccontate come realmente avvenute, dall'altro consente all'autore di attribuire all'anonimo secentista molti "difetti" come originali del manoscritto, dallo stile barocco e spagnoleggiante sino alla reticenza nell'indicare nomi di personaggi o di luoghi, i famosi asterischi mantenuti nella versione manzoniana. Questo ovviamente fa sì che nel romanzo vi siano due narratori, vale a dire l'anonimo e Manzoni, e il secondo è in una posizione privilegiata rispetto al primo perché conosce maggiori dettagli sullo scenario storico, può correggere o integrare le informazioni dello "scartafaccio" secentesco, interviene spesso con commenti e giudizi che riflettono le idee personali del romanziere dell'Ottocento. Questo secondo narratore, che è ovviamente l'io narrante del romanzo, è di tipo "onnisciente", in quanto ne sa più dei personaggi e li muove dall'alto spiegando al lettore i loro pensieri e la loro vita interiore e segreta, quindi il suo punto di vista non coincide in assoluto con quello di nessun personaggio sulla scena, se non nei momenti in cui lo scrittore si sofferma sulle singole vicende e assume, temporaneamente, l'ottica del protagonista: noi vediamo le cose con gli occhi di don Abbondio dopo il suo incontro con i bravi e sappiamo che cosa pensa riguardo alle minacce subìte e al matrimonio imminente, mentre più tardi la stessa cosa avviene per Renzo che vuole sapere la verità e cerca di far parlare il curato, e così via per tutti i personaggi principali che si muovono nella vicenda. La complessità della trama e il gran numero di figure che la animano ha spinto diversi critici a parlare di "polifonia", ovvero di uno stile narrativo in cui l'autore dà voce ai singoli personaggi e presenta volta a volta il punto di vista di ciascuno di essi, anche se è sempre ben chiaro quale sia il punto di vista del narratore principale che, per così dire, li sovrasta e giudica dall'alto: sotto questo aspetto non è possibile parlare di struttura ambigua o dialogica come pure alcuni interpreti hanno proposto, poiché il narratore interviene puntualmente a chiarire la sua posizione circa le vicende raccontate, ci spiega chiaramente dove sta il bene e dove sta il male, spesso addirittura critica e condanna l'operato dei personaggi positivi, come nel caso di Renzo durante il tumulto a Milano (la condotta del giovane è imprudente e incauta, sia quando si caccia deliberatamente nella sommossa, sia quando si comporta ingenuamente all'osteria della Luna Piena). Inoltre Manzoni si riserva pienamente i suoi "diritti" di narratore quando interrompe il racconto delle vicende del romanzo per aprire le sue digressioni storiche, che hanno la funzione di chiarire aspetti della vita sociale ed economica dell'epoca e gli consentono di esprimere giudizi personali sulle cose rappresentate: talvolta queste digressioni sono poste all'interno di un capitolo, come quella celebre sulle gride del cap. I o quella sulla carestia che apre il XII, in altre occasioni si distendono per un capitolo intero, come quella sulla guerra di Mantova del XXVIII o quella, famosissima, sulla peste a Milano dei capp. XXXI-XXXII. In tutti questi momenti, così come nella narrazione delle vicende dei protagonisti, non è infrequente che Manzoni si rivolga direttamente al suo pubblico (i famosi "venticinque lettori", secondo l'affermazione ironica del romanziere) per spiegargli direttamente cosa sta succedendo o precisare dettagli che sono meritevoli di maggiore attenzione, per cui è innegabile che il vero dialogo è quello instaurato tra l'autore e il lettore già all'inizio dell'opera, con le osservazioni relative all'immaginario manoscritto e alla decisione di rimaneggiarlo, fino alla conclusione, con l'affermazione ironica circa il fatto che il romanzo potrebbe, al di là delle intenzioni di chi l'ha scritto, avere annoiato il pubblico. Sotto questo aspetto il libro presenta dunque una struttura narrativa alquanto tradizionale ed è evidente che Manzoni si mantiene estraneo ad innovazioni quali la narrazione secondo diversi punti di vista adottata da Niccolò Tommaseo in Fede e bellezza, opera assai più problematica e moderna rispetto ai Promessi sposi (entrambi i romanzi sono stati pubblicati, curiosamente, nel 1840), o anche il punto di vista "corale" e l'eclissi del narratore elaborata più tardi da Verga nell'ambito del romanzo verista, benché quest'ultima tecnica abbia incontrato critiche e difficoltà di ricezione e ai Malavoglia sia poi stato contrapposto polemicamente proprio il romanzo manzoniano.
Fortuna e ricezione critica
Ritratto di N. Tommaseo
I Promessi sposi sono stati un indubbio successo editoriale per l'epoca e hanno aperto una strada seguita poi da tanti altri scrittori italiani dell'Ottocento, gettando le basi di quel genere letterario (il romanzo storico) che aveva pochi precedenti nella nostra tradizione e fissando in un certo senso i canoni dello stesso romanzo moderno, anch'esso poco praticato nella letteratura nazionale. L'opera aveva poi l'indiscusso merito di aver contribuito a risolvere l'annoso problema della lingua letteraria, per cui il cosiddetto "manzonismo" divenne un modello per molti altri romanzieri italiani (Giovanni Verga vi si attenne con scrupolo in tutti i suoi libri) e, nonostante le critiche di alcuni intellettuali, costituì la base per l'italiano come lingua nazionale secondo gli auspici del suo stesso autore. Anche dal punto di vista squisitamente narrativo il romanzo suscitò grande interesse in Italia, sia per la fusione in esso di vari generi (romanzo storico, ovviamente, ma anche sociale, psicologico, di formazione) sia per la scelta, senza dubbio innovativa, di usare come protagonista un umile contadino semi-analfabeta, il che non mancò di sollevare perplessità (Niccolò Tommaseo scrisse sull'Antologia, già nel 1827, di non sapere se "Un montanaro... meriti d'essere il soggetto d'un romanzo"). Una certa attenzione fu riservata al libro anche all'estero, come dimostra il fatto che pochi mesi dopo la prima edizione uscirono due traduzioni in tedesco, una in francese e una in inglese, ma va detto che nonostante le positive recensioni di scrittori quali Walter Scott, René de Chateaubriand, Alphonse de Lamartine, in Europa il successo dei Promessi sposi fu limitato: Goethe ebbe a osservare che il peso delle digressioni storiche gli pareva eccessivo, mentre più tardi Edgar Allan Poe criticò la matrice cattolica del romanzo e suggerì una certa parzialità dell'autore nella rappresentazione della Chiesa romana, specie nel ritratto del cardinal Borromeo. È possibile che la cultura cattolica di cui il romanzo è certamente ammantato ne abbiano condizionato la ricezione oltralpe, così come il fatto che molti dei problemi affrontati da Manzoni nel libro (l'urbanesimo, i conflitti di classe...) fossero stati ampiamente trattati soprattutto nel romanzo inglese, il che confinava i Promessi sposi a una dimensione provinciale, se non addirittura regionale.
Sicuramente più vivace fu il dibattito critico nel nostro Paese, dove è fin troppo ovvio che gli interpreti di cultura cattolica salutarono il romanzo come una "epopea della Provvidenza" (la definizione è di Attilio Momigliano) e ne sottolinearono l'ideologia evangelica e positiva, dandone tuttavia un'interpretazione rasserenante e consolatoria che, come si è visto, non corrisponde pienamente alle intenzioni dell'autore. Nel secondo dopoguerra tale lettura "edificante" dell'opera è ancora presente in Natalino Sapegno (per il quale i Promessi sposi sono il "romanzo della Provvidenza") e in Cesare Angelini, mentre la critica cattolica più recente ha sollevato dubbi su questa interpretazione e ha sottolineato il carattere aperto, problematico della visione religiosa di Manzoni: ciò è evidente in Italo Calvino ed Ezio Raimondi, secondo i quali il male nel romanzo resta un enigma ed è pronto a colpire innocenti senza colpa, dunque la "morale" finale è tutt'altro che serena e rassicurante (è noto come lo stesso Raimondi abbia definito l'opera "romanzo senza idillio", ovvero priva di un effettivo lieto fine).
A partire dagli anni Sessanta il dibattito si è riacceso e ha visto posizioni originali all'interno della stessa critica cattolica, con Ferruccio Ulivi che ha sottolineato opportunamente l'influenza del giansenismo nella religiosità manzoniana e Giorgio Bàrberi Squarotti che ha messo in luce il pessimismo di fondo della visione della vita e della storia da parte del romanziere, all'origine del successivo abbandono della narrativa a vantaggio della storiografia. Altrettanto variegato l'atteggiamento della critica marxista, che da un lato ha tentato di sostenere elementi progressisti e democratici nell'analisi storica di Manzoni, dall'altro ha invece rimarcato l'orizzonte moderato e vagamente reazionario della sua visione politica. Negli anni Settanta è stata poi la critica semiologica a esercitarsi in una lettura del romanzo in chiave narratologica (cioè con attenzione al sistema dei personaggi e all'enunciazione narrativa dell'autore), con validi contributi da parte di Angelo Marchese, Franco Fido, Stefano Agosti.
Alcuni aspetti del romanzo sono tuttora oggetto di discussione e rappresentano problemi irrisolti nella critica contemporanea, come ad esempio l'ideologia politica di Manzoni: si va da Carlo Salinari che esaltava lo scrittore come intellettuale democratico integrato nella borghesia progressista, a Vittorio Spinazzola che ne offre un'interpretazione più equilibrata, fino a Edoardo Sanguineti e Sebastiano Timpanaro che si sono opposti a questa visione e hanno rimarcato il carattere conservatore e reazionario del romanziere. Quanto alla non modernità del romanzo e alla sua dimensione anti-idillica, tale posizione è stata sostenuta soprattutto da Raimondi e Calvino, già citati, ma val la pena di ricordare anche il contributo di Paolo Valesio il quale vede nella reticenza manzoniana e nel suo rifiuto ad affrontare il conflitto tra passione e moralità cristiana un limite insuperabile alla modernità dell'opera, che forse è una delle ragioni del non grande successo che il libro ha riscontrato nel panorama europeo.
Sicuramente più vivace fu il dibattito critico nel nostro Paese, dove è fin troppo ovvio che gli interpreti di cultura cattolica salutarono il romanzo come una "epopea della Provvidenza" (la definizione è di Attilio Momigliano) e ne sottolinearono l'ideologia evangelica e positiva, dandone tuttavia un'interpretazione rasserenante e consolatoria che, come si è visto, non corrisponde pienamente alle intenzioni dell'autore. Nel secondo dopoguerra tale lettura "edificante" dell'opera è ancora presente in Natalino Sapegno (per il quale i Promessi sposi sono il "romanzo della Provvidenza") e in Cesare Angelini, mentre la critica cattolica più recente ha sollevato dubbi su questa interpretazione e ha sottolineato il carattere aperto, problematico della visione religiosa di Manzoni: ciò è evidente in Italo Calvino ed Ezio Raimondi, secondo i quali il male nel romanzo resta un enigma ed è pronto a colpire innocenti senza colpa, dunque la "morale" finale è tutt'altro che serena e rassicurante (è noto come lo stesso Raimondi abbia definito l'opera "romanzo senza idillio", ovvero priva di un effettivo lieto fine).
A partire dagli anni Sessanta il dibattito si è riacceso e ha visto posizioni originali all'interno della stessa critica cattolica, con Ferruccio Ulivi che ha sottolineato opportunamente l'influenza del giansenismo nella religiosità manzoniana e Giorgio Bàrberi Squarotti che ha messo in luce il pessimismo di fondo della visione della vita e della storia da parte del romanziere, all'origine del successivo abbandono della narrativa a vantaggio della storiografia. Altrettanto variegato l'atteggiamento della critica marxista, che da un lato ha tentato di sostenere elementi progressisti e democratici nell'analisi storica di Manzoni, dall'altro ha invece rimarcato l'orizzonte moderato e vagamente reazionario della sua visione politica. Negli anni Settanta è stata poi la critica semiologica a esercitarsi in una lettura del romanzo in chiave narratologica (cioè con attenzione al sistema dei personaggi e all'enunciazione narrativa dell'autore), con validi contributi da parte di Angelo Marchese, Franco Fido, Stefano Agosti.
Alcuni aspetti del romanzo sono tuttora oggetto di discussione e rappresentano problemi irrisolti nella critica contemporanea, come ad esempio l'ideologia politica di Manzoni: si va da Carlo Salinari che esaltava lo scrittore come intellettuale democratico integrato nella borghesia progressista, a Vittorio Spinazzola che ne offre un'interpretazione più equilibrata, fino a Edoardo Sanguineti e Sebastiano Timpanaro che si sono opposti a questa visione e hanno rimarcato il carattere conservatore e reazionario del romanziere. Quanto alla non modernità del romanzo e alla sua dimensione anti-idillica, tale posizione è stata sostenuta soprattutto da Raimondi e Calvino, già citati, ma val la pena di ricordare anche il contributo di Paolo Valesio il quale vede nella reticenza manzoniana e nel suo rifiuto ad affrontare il conflitto tra passione e moralità cristiana un limite insuperabile alla modernità dell'opera, che forse è una delle ragioni del non grande successo che il libro ha riscontrato nel panorama europeo.
Versioni cinematografiche, televisive e teatrali
N. Castelnuovo e P. Pitagora nella serie del 1967
Con l'avvento del cinema e poi della televisione il romanzo ha subìto una serie di adattamenti per il grande e il piccolo schermo, che hanno avuto sicuramente il merito di avvicinare l'opera a un vasto pubblico (anche se la sua diffusione nelle scuole come lettura obbligatoria ne ha di fatto determinato la popolarità, con tutti i limiti del caso) e hanno suscitato in molti casi dubbi e perplessità, come solitamente accade quando una grande opera letteraria subisce una "riduzione" a beneficio di un'altra forma d'arte. Val la pena di ricordare anzitutto il film del 1941 (il primo sonoro, dopo tre precedenti versioni mute) diretto da Mario Camerini, con Gino Cervi e Dina Sassoli nei panni dei due promessi, produzione dai costi considerevoli e più che dignitosa nella ricostruzione del romanzo anche se i risultati artistici sono modesti (il film fu prodotto dalla Lux e vedeva nel cast molti attori del cosiddetto cinema fascista, benché la pellicola non risentisse del clima politico dell'epoca). Decisamente più interessante lo sceneggiato televisivo prodotto dalla Rai nel 1967 e diretto da Sandro Bolchi, trasmesso in otto puntate e con un cast di tutto rispetto fra cui ricordiamo Nino Castelnuovo (Renzo), Paola Pitagora (Lucia), Luigi Vannucchi (don Rodrigo), Salvo Randone (l'innominato), senza contare la "voce narrante" di Giancarlo Sbragia che fungeva da raccordo fra i vari momenti della vicenda. La sceneggiatura fu scritta dal regista in collaborazione con Riccardo Bacchelli e la serie televisiva riscosse un grande successo di pubblico, incontrando anche il favore della critica per l'estrema aderenza al testo manzoniano (il regista si valse anche della collaborazione del Centro Nazionale di Studi Manzoniani e a tutt'oggi è considerata una delle migliori trasposizioni filmiche del romanzo). Meno convincente e destinata a suscitare molte polemiche è stata invece la versione televisiva prodotta dalla Rai nel 1989 per la regia di Salvatore Nocita, che nonostante un cast internazionale considerevole (basti citare Danny Quinn, Delphine Forest, Dario Fo, Franco Nero, Burt Lancaster, Fernando Rey, Alberto Sordi...) e alti costi di produzione, ha sollevato non poche perplessità per alcune scelte narrative e anche per alcuni errori di ricostruzione: nella serie sono presenti alcune scene che in realtà si rifanno al Fermo e Lucia (l'assassinio commesso dal Conte del Sagrato di fronte alla chiesa, la morte di don Rodrigo al lazzaretto), nella scena tratta dal cap. V l'Azzecca-garbugli è interpretato dall'inglese John Karlsen e non da Dario Fo come in quella tratta dal cap. III (l'inglese compariva nella versione internazionale, ma il risultato è che in quella italiana lo stesso personaggio è interpretato da due attori diversi...), il finale della serie coincide con la conclusione del cap. XXXVI e non vengono narrate le successive vicende dei due promessi. Al di là delle polemiche e delle stroncature critiche (vi fu chi considerò lo sceneggiato un "buon western"), la serie ottenne ascolti di pubblico considerevoli ed è a tutt'oggi l'ultima versione televisiva italiana integrale dell'opera di Manzoni.
Per quanto riguarda il teatro, va ricordata l'opera lirica omonima scritta da Amilcare Ponchielli e rappresentata il 30 agosto 1856 a Cremona (una seconda versione è del 1872 e al libretto collaborò il poeta Emilio Praga), mentre dal 2010 è in scena il musical intitolato I promessi sposi - Opera moderna per la regia di Michele Guardì, con Giò di Tonno e Lola Ponce (entrambi nel cast di importanti produzioni teatrali fra cui, soprattutto, la versione italiana di Notre Dame de Paris).
Per quanto riguarda il teatro, va ricordata l'opera lirica omonima scritta da Amilcare Ponchielli e rappresentata il 30 agosto 1856 a Cremona (una seconda versione è del 1872 e al libretto collaborò il poeta Emilio Praga), mentre dal 2010 è in scena il musical intitolato I promessi sposi - Opera moderna per la regia di Michele Guardì, con Giò di Tonno e Lola Ponce (entrambi nel cast di importanti produzioni teatrali fra cui, soprattutto, la versione italiana di Notre Dame de Paris).