Capitolo XXXIII
R. Guttuso, Don Rodrigo e i monatti
"Tutt'a un tratto, sente uno squillo lontano,
ma che gli par che venga dalle stanze, non dalla strada.
Sta attento; lo sente più forte, più ripetuto,
e insieme uno stropiccìo di piedi:
un orrendo sospetto gli passa per la mente.
Si rizza a sedere, e si mette ancor più attento;
sente un rumor cupo nella stanza vicina,
come d'un peso che venga messo giù con riguardo;
butta le gambe fuor del letto, come per alzarsi,
guarda all'uscio, lo vede aprirsi, vede presentarsi
e venire avanti due logori e sudici vestiti rossi,
due facce scomunicate, due monatti, in una parola;
vede mezza la faccia del Griso che, nascosto dietro
un battente socchiuso, riman lì a spiare..."
Personaggi:
Luoghi: Tempo: Temi: Trama: |
_Renzo, don Abbondio, don Rodrigo, il Griso, Bortolo, Tonio, l'amico di Renzo, i monatti
il Paese di Renzo e Lucia, Milano, Bergamo, Agosto 1630 (nel flashback: dall'autunno 1629 all'estate 1630) La giustizia, La guerra di Mantova e del Monferrato, Nobiltà e potere, La peste, Chiesa e religione Don Rodrigo, a Milano, scopre di essere ammalato di peste. Il Griso lo consegna ai monatti per derubarlo, poi si ammala a sua volta e muore. Renzo, sempre rifugiato nel Bergamasco, guarisce dalla peste e decide di andare a Milano per cercare Lucia. Il giovane torna al suo paese dove incontra Tonio, la cui mente è sconvolta dalla malattia, e don Abbondio, che lo informa della morte di Perpetua. La casa di Renzo è ormai in abbandono, come la sua vigna, così lui chiede ospitalità a un suo vecchio amico d'infanzia. Renzo parte alla volta di Milano. |
Don Rodrigo manifesta i sintomi della peste
Una notte verso la fine di agosto, quando l'epidemia di peste è al culmine, don Rodrigo sta tornando alla sua casa di Milano accompagnato dal Griso, uno dei pochi bravi rimasti al suo servizio. Il nobile si ritira dopo una serata passata in compagnia di alcuni amici, durante la quale è stato molto allegro e ha divertito tutti facendo un bizzarro elogio funebre del conte Attilio, morto due giorni prima di peste: ora però accusa strani malesseri, tra cui la pesantezza delle gambe, una difficoltà a respirare e un'arsura interna che vorrebbe attribuire al vino e alla calura estiva. Arrivati a casa, ordina al Griso di fargli luce per arrivare in camera e il bravo obbedisce tenendosi a distanza dal padrone, poiché il suo volto indica i segni della malattia e in questi tempi anche i criminali hanno affinato le capacità mediche. Don Rodrigo si affanna a dire che sta bene e che tutto è a causa del troppo vino bevuto, tuttavia la luce del lume quasi lo acceca e non vede l'ora di mettersi a letto per la stanchezza. Si caccia quindi sotto le coperte e ordina al Griso di venire subito nel caso lui suonasse un campanello che tiene vicino a sé, anche se il signorotto è certo che non ci sarà bisogno. Il bravo augura la buonanotte al padrone e si ritira.
Il sogno di don Rodrigo
Le coperte sembrano una montagna a don Rodrigo, il quale ben presto si addormenta per poi svegliarsi come per uno scossone, mentre sente aumentare il caldo e l'arsura. Rigirandosi nel letto, in preda all'ansia, pensa che vorrebbe attribuire tutto al caldo e al troppo vino bevuto, anche se l'idea della peste lo assale di continuo e diventa un pensiero impossibile da scacciare. Finalmente si addormenta e inizia a fare sogni confusi, angosciosi; in uno di questi gli sembra di trovarsi in chiesa, circondato dalla folla, senza sapere come è arrivato lì e arrabbiato di esserci andato. Intorno a lui vede gente con i segni del morbo e i bubboni che traspaiono attraverso i vestiti sudici, per cui ordina loro di allontanarsi cercando al contempo di arrivare alla porta della chiesa, che però è troppo lontana. La folla lo stringe sempre più e a don Rodrigo sembra che qualcuno gli prema sotto l'ascella sinistra, dove sente un forte dolore; cerca di afferrare la spada e gli pare che l'elsa sia salita in alto, premendogli contro il fianco e producendo quel dolore così fastidioso. A un tratto gli sembra che tutti guardino verso l'alto e, facendo lo stesso, intravede un pulpito e una strana figura che si sporge da esso, una figura che non tarda a prendere le sembianze di padre Cristoforo. Il frate rivolge un'occhiata fulminea su tutti i presenti, quindi alza la mano e punta il dito come aveva fatto quel giorno in quella sala del palazzotto del nobile: don Rodrigo, terrorizzato, cerca di afferrare quella mano tesa in aria, ma lascia prorompere un grande urlo e si sveglia improvvisamente. È confuso e spaventato, la luce del giorno entra dalla finestra e lo infastidisce come il lume la sera prima; capisce di aver sognato e realizza che tutto è svanito, tranne il dolore che sente sotto l'ascella sinistra, mentre è evidente che sta molto peggio di quando è andato a dormire e avverte una forte palpitazione, un ronzio nelle orecchie, una pesantezza di tutte le membra. Esita a lungo prima di guardarsi sotto l'ascella e quando trova il coraggio di farlo, con ribrezzo e spavento, vi scorge un bubbone di colore livido e rossastro.
Don Rodrigo manda il Griso a cercare il medico
Don Rodrigo è invaso del terrore di morire e, soprattutto, di essere preso dai monatti e trascinato al lazzaretto: suona il campanello per chiamare il Griso, che infatti accorre subito pur tenendosi a distanza dal padrone, avendo capito benissimo che è malato di peste. Il nobile si rivolge al bravo in modo insolitamente cortese e, dopo aver detto che si fida solo di lui, lo prega di andare a chiamare il Chiodo chirurgo, un medico noto per non denunciare gli appestati in cambio di denaro. Don Rodrigo è disposto a pagarlo bene in cambio di cure e chiede al Griso di farlo venire subito, facendo in modo che nessuno se ne accorga. Chiede al suo sgherro un po' d'acqua per placare l'arsura interna, ma il bravo rifiuta di dargliela prima di aver sentito il parere del medico, in realtà per paura di avvicinarsi a lui e subire il contagio. A questo punto il Griso esce di casa e don Rodrigo rimane solo con le sue paure, in attesa del ritorno del suo servo col medico: ogni tanto guarda il bubbone, per poi ritrarsi con ribrezzo, quindi resta in silenzio con l'orecchio teso, per sentire se il Griso sta arrivando col chirurgo.
Il tradimento del Griso: i monatti prendono don Rodrigo
A un tratto don Rodrigo sente il tintinnio di un campanello in lontananza, che tuttavia sembra provenire dall'interno della casa e non dalla strada: resta attento e lo sente ancora e più forte, insieme a un rumore di passi affrettati, seguito da una specie di tonfo nella stanza attigua. È colto da un orrendo sospetto e cerca di buttarsi giù dal letto, quando vede entrare nella stanza due luridi figuri vestiti di rosso con facce da criminali, riconoscendoli subito come monatti. Il Griso rimane nascosto dietro un battente della porta e il nobile capisce che il bravo lo ha tradito: chiama a gran voce altri uomini al suo servizio e cerca di afferrare una pistola che tiene a portata di mano, ma uno dei monatti è rapido a gettarsi addosso a lui e a disarmarlo, tenendolo fermo mentre gli dice parole di scherno. Intanto il suo compagno si adopera insieme al Griso a scassinare lo scrigno in cui don Rodrigo tiene il denaro, mentre il signorotto continua a invocare gli altri bravi che però sono stati mandati via dal Griso con falsi ordini. Don Rodrigo urla minacce all'indirizzo del suo sgherro intento a spartire il bottino con il monatto, mentre l'altro tiene fermo il nobile che si dimena come un invasato. Dopo qualche minuto don Rodrigo perde i sensi e resta come sbalordito, quindi i due monatti lo sollevano di peso e lo depongono in una barella che si trova nella stanza accanto. Uno dei due torna indietro a prendere la sua parte di bottino, poi entrambi si allontanano portando via il povero appestato e lasciando il Griso solo nella casa.
La miserabile fine del Griso
Il Griso si trattiene ancora qualche minuto a scegliere quali oggetti portar via dalla stanza, quindi avvolge tutto in un fagotto e si prepara ad allontanarsi: l'uomo è stato attento a evitare qualsiasi contatto con i monatti, ma all'ultimo istante raccoglie vicino al letto i vestiti di don Rodrigo e li scuote, per vedere se ci sia del denaro. Si allontana e il giorno dopo, mentre si trova a gozzovigliare in una lurida taverna, è colto da brividi improvvisi, la vista gli si annebbia e perde i sensi, evidentemente contagiato dalla peste; viene raccolto da alcuni monatti che, dopo avergli rubato quello ha indosso, lo caricano su un carro e lo portano al lazzaretto, dove si trova già il suo padrone e dove lui non arriverà vivo, stroncato dalla malattia durante il tragitto.
Renzo "latitante" nel Bergamasco
Il narratore lascia per ora don Rodrigo al suo destino e torna ad occuparsi di Renzo, sempre fuggitivo nel Bergamasco: il giovane è rimasto nascosto nel nuovo filatoio per cinque o sei mesi sotto il falso nome di Antonio Rivolta, poi (quando si sono aperte le ostilità tra Venezia e la Spagna, cessato il rischio che la Repubblica possa consegnarlo ai Milanesi) il cugino Bortolo lo fa tornare con sé alla fabbrica, sia perché gli è affezionato sia perché Renzo è bravo nel suo lavoro e non può aspirare a diventare factotum, dal momento che è analfabeta. Nei mesi successivi più volte Renzo ha manifestato il proposito di arruolarsi tra le file dell'esercito veneto, specie quando si è parlato di un'invasione del Milanese, anche se Bortolo è sempre stato abile a distoglierlo da questi azzardati progetti (l'uomo, interessato a non privarsi dell'aiuto di Renzo, gli prospetta mille difficoltà in caso di guerra e gli suggerisce di aspettare tempi migliori). In altre occasioni Renzo ha avuto l'idea di tornare al suo paese travestito e con un nome falso, ma anche in questo caso Bortolo l'ha dissuaso con argomenti fin troppo facili da indovinare.
Renzo si ammala di peste e guarisce
Quando poi scoppia la peste nel Milanese il contagio non tarda a superare il confine e a diffondersi nel Bergamasco, anche se l'autore non intende certo raccontare la storia anche di questa epidemia: è sufficiente il libro scritto all'epoca da Lorenzo Ghirardelli, dove il lettore potrà trovare tutte le informazioni in merito. Anche Renzo si ammala ed è ridotto in fin di vita, poi però guarisce e una volta fuori pericolo sente più forte che mai il desiderio di sapere cosa ne è stato di Lucia, soprattutto di scoprire la verità sulla questione del voto di cui Agnese l'ha informato confusamente per lettera. L'epidemia rappresenta un'occasione propizia per tornare nel Milanese senza rischiare di essere arrestato, poiché - pensa Renzo - la giustizia ha ben altro da pensare che dare la caccia ai ricercati, specie a Milano dove si dice che regni una enorme confusione. Appena è in grado muoversi, Renzo si reca da Bortolo (che non ha contratto il morbo e perciò sta chiuso in casa) e lo informa che ha intenzione di partire per cercare Lucia, questa volta senza ricevere obiezioni da parte del cugino. Bortolo, anzi, lo esorta ad andare e gli raccomanda di essere molto cauto, quindi gli augura di ritornare e spera di poter accogliere anche Lucia, una volta che la terribile pestilenza sarà cessata.
Renzo parte per tornare nel Milanese
Per alcuni giorni Renzo attende di rimettersi in forze, poi, quando gli sembra di essere pronto, si prepara ad affrontare il viaggio: indossa una cintura con i cinquanta scudi ricevuti da Agnese e di cui non ha toccato nulla, prende altri soldi e un "benservito" rilasciatogli dal padrone dell'altro filatoio, un fagotto con alcuni panni e un coltello in tasca, quindi si mette in cammino verso la fine di agosto, tre giorni dopo che don Rodrigo è stato portato al lazzaretto. Si dirige subito verso il territorio di Lecco, con il proposito di passare per il suo paese e parlare con Agnese per avere qualche ragguaglio prima di incamminarsi per Milano. Essendo guarito dalla peste, Renzo corre pochi rischi di riammalarsi ed è quindi immune al contagio, condizione rara a quei tempi e paragonabile, osserva ironicamente l'autore, a quella degli antichi cavalieri erranti che nel Medioevo giravano armati di tutto punto a fare sfoggio di magnificenza. Renzo cammina lungo strade deserte, non incontrando quasi nessuno se non persone che portano cadaveri per una frettolosa sepoltura; a metà strada si ferma in una radura a mangiare qualcosa, raccogliendo anche la molta frutta che giace ai piedi degli alberi (l'annata è decisamente abbondante) e che nessuno si cura di prendere a causa della morìa, proprio come le uve nelle vigne che sono talmente grosse da nascondere le foglie.
Renzo giunge al suo paese: l'incontro con Tonio
Verso sera, Renzo giunge in vista del suo paese: rivedere i luoghi della sua vita passata risveglia in lui tanti ricordi dolorosi, come il suono delle campane a martello la notte in cui ha dovuto lasciare la sua casa, mentre ora il luogo è dominato da un lugubre silenzio. Si dirige alla casa d'Agnese, in fondo al paese, dove spera di trovare la donna viva e in salute; prende una viottola per non dare troppo nell'occhio e si avvicina in tal modo alla propria casa e alla vigna, cui vorrebbe dare un'occhiata prima di proseguire. Dopo pochi passi vede un uomo in camicia che sta seduto per terra, appoggiato a una siepe e con un'aria inebetita: sulle prime pensa che possa trattarsi di Gervaso, ma poi, avvicinandosi, scopre che è suo fratello Tonio, cui la peste ha evidentemente ottenebrato la mente. Renzo cerca di scambiare qualche parola col suo vecchio amico, ma l'uomo non lo riconosce neppure e continua a ripetere la frase "A chi la tocca, la tocca"; il giovane capisce che sarebbe penoso e inutile insistere, per cui si allontana dopo aver provato una stretta al cuore.
Renzo incontra don Abbondio
A un tratto Renzo vede avvicinarsi un uomo vestito di nero, che il giovane riconosce subito come don Abbondio: il curato cammina lentamente, appoggiandosi al suo bastone come se fosse senza forze, e il suo volto emaciato rivela che è stato anche lui vittima della peste. Don Abbondio crede di riconoscere a sua volta Renzo e alza il bastone con un gesto di sorpresa e di impazienza, poiché evidentemente la presenza del giovane non lo tranquillizza. Renzo lo saluta con rispetto e poi gli chiede notizie di varie persone, al che il curato, non nascondendo la sua preoccupazione, risponde dicendogli che Lucia è a Milano e non se ne sa nulla, Agnese è viva ed è andata dai suoi parenti a Pasturo, per sfuggire al contagio, infine padre Cristoforo è stato allontanato da Pescarenico. Il curato esorta Renzo ad andare via subito e a non esporsi al rischio di essere arrestato, poiché su di lui pende ancora un mandato di cattura, ma il giovane ribatte che non si cura della giustizia e chiede se per caso don Rodrigo sia ancora in paese. Dopo qualche schermaglia don Abbondio risponde che il signorotto se n'è andato, quindi Renzo gli chiede se lui sia stato ammalato e il curato risponde che la peste lo ha ridotto a mal partito; informa in seguito il giovane di tutti quelli che sono morti per il contagio in paese, un lungo elenco di vittime che comincia col nome di Perpetua. Don Abbondio rinnova ancora una volta le sue esortazioni a Renzo perché torni subito nel Bergamasco, onde evitare di mettere se stesso e soprattutto lui negli impicci, ma il giovane risponde che sa cosa fare e prega il curato di non volerlo tradire, essendo pur sempre un suo parrocchiano. Don Abbondio risponde borbottando qualcosa tra i denti e si allontana lasciando lì Renzo, che si chiede dove possa ricoverarsi per la notte.
Renzo nella sua vigna
Renzo pensa di chiedere ospitalità a un vecchio amico d'infanzia, la cui famiglia, come lo ha informato don Abbondio, è stata sterminata dalla peste; si mette in cammino per raggiungere la sua casa e strada facendo passa di fronte alla propria vigna, che fin dalla prima occhiata si rivela in condizioni penose. Dal muro non sporge neppure un ramoscello degli alberi che Renzo aveva piantati e il cancello è tutto sgangherato; il giovane si affaccia da esso e dà un'occhiata in giro, vedendo tutto in stato di abbandono. Per due inverni la gente del paese è andata lì a far legna, approfittando della sua assenza, dunque gli alberi che fanno da sostegno alle viti sono strappati o tagliati alla radice; ci sono giovani tralci che tentano di svilupparsi, ma sono soffocati da una selva di ortiche e piante selvatiche, tra cui spiccano l'uva turca, il tasso barbasso, il cardo. Una zucca selvatica ha intrecciato i suoi viticci con una giovane vite e dappertutto vi sono rovi, che danno al luogo un aspetto disordinato, caotico, trasandato. Renzo, sconsolato, non pensa neppure di entrare in quella che è stata la sua vigna e procede verso la sua casa, attraversando l'orto (anch'esso invaso da ogni sorta di erbacce) ed entrando dalla soglia principale. Al suo arrivo, i topi che popolano l'abitazione corrono a nascondersi e Renzo vede tutto anche qui in stato di abbandono, col pavimento ricoperto del sudiciume lasciato dai lanzichenecchi, le pareti affumicate, il soffitto invaso da ragnatele. Se ne va ancor più amareggiato e si dirige alla casetta del suo amico, che dista pochi passi dalla sua.
Renzo incontra il suo vecchio amico
È quasi buio e Renzo si avvicina alla casetta del suo amico, che siede pensieroso con le braccia conserte: il giovane sente qualcuno avvicinarsi e scambia Renzo per il becchino del paese, che viene sempre a tormentarlo perché lo aiuti a seppellire i morti. Renzo si fa riconoscere e, una volta chiarito l'equivoco, i due scambiano affettuosi saluti, mentre l'amico lamenta il fatto di essere rimasto solo a causa dell'epidemia. I due entrano in casa e l'amico di Renzo inizia a preparare della polenta, procurandosi poi carne secca, formaggio, fichi e pesche e dar qualcosa da mangiare al suo ospite. Il giovane informa Renzo di varie cose, incluso il fatto che don Rodrigo ha lasciato il paese in seguito alla liberazione di Lucia, poi gli dice precisamente il nome del casato di don Ferrante nella cui casa di Milano è ospite Lucia, informazione preziosa giacché Renzo non lo aveva capito bene nella lettera ricevuta da Agnese e senza indicazioni più precise non saprebbe trovare la casa del nobile milanese. L'amico rassicura Renzo circa il fatto che non deve temere della giustizia, anche perché il podestà è morto di peste e i pochi birri rimasti hanno altro da occuparsi che dar la caccia ai ricercati come lui. Renzo racconta a sua volta all'amico tutto quello che gli è successo durante la sua assenza, ascoltando cento storie sul passaggio dei lanzichenecchi e sulla peste.
Renzo lascia il paese e si incammina per Milano
L'amico ospita Renzo per la notte e il mattino dopo, alle prime luci dell'alba, il giovane filatore si prepara a partire alla volta di Milano, per appurare il destino di Lucia e accertarsi della questione del voto, prima di andare da Agnese a portarle notizie. Lascia il suo fagotto all'ospite e promette di ritornare nel caso trovi Lucia ancora in vita, in caso contrario non sa cosa farà ma di certo non tornerà in paese. L'amico gli dà qualcosa da mangiare e lo accompagna per un breve tratto di strada, quindi i due si separano e Renzo si mette in viaggio.
Il progetto di Renzo è di arrivare prima di sera nelle vicinanze di Milano, per poi entrare in città il giorno seguente; il viaggio non incontra ostacoli e il giovane si ferma nuovamente in un boschetto a mangiare un boccone. Una volta ripartito, giunge a Monza dove trova una bottega di fornaio aperta e decide di acquistare due pagnotte: il fornaio gli intima di non entrare e gli dice di gettare le monete in una ciotola con acqua e aceto, quindi gli porge i pani con delle molle. Renzo mette le pagnotte in tasca e si allontana.
Il progetto di Renzo è di arrivare prima di sera nelle vicinanze di Milano, per poi entrare in città il giorno seguente; il viaggio non incontra ostacoli e il giovane si ferma nuovamente in un boschetto a mangiare un boccone. Una volta ripartito, giunge a Monza dove trova una bottega di fornaio aperta e decide di acquistare due pagnotte: il fornaio gli intima di non entrare e gli dice di gettare le monete in una ciotola con acqua e aceto, quindi gli porge i pani con delle molle. Renzo mette le pagnotte in tasca e si allontana.
Renzo giunge in vista di Milano
Verso sera Renzo giunge in un paesino poco distante da Milano, Greco, di cui ignora il nome: il giovane tuttavia ricorda i luoghi dal tempo del suo primo viaggio due anni prima e intuisce che la città debba essere non lontana. Decide pertanto di lasciare la strada principale e andare nei campi in cerca di un cascinale abbandonato dove passare la notte, dal momento che non intende rivolgersi a un'osteria. Trova una siepe che circonda una cascina e che ha un'apertura, vi si inoltra e, senza incontrare nessuno, trova un portico con del fieno ammucchiato e una scala a pioli che conduce al piano superiore. Dà un'occhiata in giro e poi sale, accomodandosi alla meglio per dormire e prendendo subito sonno. Si sveglia all'alba e si affaccia fuori per vedere se c'è qualcuno in giro; non vedendo anima viva, scende lungo la scala e poi esce dalla siepe da dove era entrato, riprendendo il viaggio lungo i sentieri e cercando di scorgere il Duomo come indicazione della strada da seguire. Non passa molto tempo prima che veda in effetti le mura di Milano e giunge ben presto vicino ad esse, tra Porta Orientale e Porta Nuova.
Temi principali e collegamenti
- Il capitolo riprende la narrazione della vicenda romanzesca dopo la digressione storica sulla peste dei capp. XXXI-XXXII ed è diviso in due parti: la prima, più breve, è dedicata a don Rodrigo che scopre di aver contratto la malattia, la seconda spiega con un flashback le traversie di Renzo nel Bergamasco dopo i fatti narrati nel cap. XXVII (le ricerche delle autorità venete che lo avevano costretto a cambiare nome e a spostarsi), quindi la sua guarigione dalla peste e la decisione di tornare nel Milanese. Renzo sarà in effetti il protagonista dei capitoli successivi e la sua vicenda sarà curiosamente intrecciata a quella del "rivale" don Rodrigo, mostrato all'inizio di questo episodio.
- Don Rodrigo rientra in scena dopo che nel cap. XXV aveva lasciato il paese ("con la coda tra le gambe", secondo il racconto dell'amico di Renzo), in seguito alla liberazione di Lucia e per non dover incontrare il cardinal Borromeo. Il signorotto mostra inizialmente una certa noncuranza del rischio della peste, manifestata attraverso la volontà di darsi allo "stravizio" e alle serate allegre con gli amici, poi quando si scopre ammalato è colto dal terrore della morte e teme di essere portato al lazzaretto, cosa che non potrà evitare nonostante il tentativo di rivolgersi a un medico compiacente (lo ritroveremo morente in quel luogo nel cap. XXV). Il signorotto conferma di temere la morte e, soprattutto, il giudizio divino nell'altra vita, come si evince dal sogno in cui compare padre Cristoforo sul pulpito di una chiesa, nello stesso atteggiamento accusatorio già visto nel cap. VI quando, nel suo tempestoso colloquio col nobile, gli aveva detto "Verrà un giorno" (sul punto si veda oltre). Il sogno era descritto anche nel Fermo e Lucia (IV, 5) con poche varianti rispetto alla redazione finale, se si eccettua un discorso accusatorio e molto retorico attribuito al frate che nella versione finale scompare (cfr. il brano Il sogno di don Rodrigo).
- All'inizio del capitolo veniamo informati della morte del conte Attilio a causa della peste, col dire che don Rodrigo durante la serata con gli amici ne ha pronunciato un bizzarro "elogio funebre" con cui ha divertito la compagnia. L'uscita di scena del personaggio avviene nel segno di una beffa di cui stavolta è il bersaglio, mentre in vita Attilio ha sempre manifestato un certo gusto per lo scherzo e la celia, a cominciare dalla famosa scommessa con Rodrigo avente per oggetto Lucia (cfr. anche l'approfondimento del cap. XVIII)
- Il Griso si conferma come la figura forse più odiosa del romanzo, poiché non esita a tradire il padrone (cui doveva la vita, dal momento don Rodrigo lo aveva salvato dalla giustizia: cfr. cap. VII) e a consegnarlo ai monatti per spartire con loro il denaro rubato al nobile, avendo anche l'accortezza di allontanare gli altri bravi con falsi ordini. L'uomo è però tradito dalla sua stessa avidità e scuote gli abiti di Rodrigo per cercare altro denaro, contraendo così la peste: la sua morte il giorno dopo è descritta dall'autore in modo sbrigativo e in poche righe, fatto che tutti i commentatori attribuiscono al disprezzo che il romanziere vuole esprimere per il personaggio.
- Il "Chiodo chirurgo" è un personaggio realmente esistito ed era un medico piuttosto noto nella Milano del tempo della peste, di cui parla anche Cesare Cantù accostandolo a Tadino e Settala (La Lombardia nel secolo XVII, Milano 1854).
- Il ritorno sulla scena di Renzo avviene dopo che, nel cap. XXVII, era stato costretto a cambiare rifugio nel Bergamasco e ad assumere il nome di Antonio Rivolta in seguito alle ricerche fatte dalla giustizia veneta: aveva in seguito appreso del voto di Lucia confusamente per lettera e ora, con un rapido flashback, ci viene detto dei suoi propositi di "finirla" e di arruolarsi come soldato, sempre dissuaso dal cugino Bortolo (il personaggio è alquanto interessato a trattenere Renzo per convenienza personale, cosa che ironicamente Manzoni sottolinea col dire che i lettori vorrebbero forse un Bortolo "più ideale"). Il giovane decide di tornare nel Milanese dopo essere guarito dalla peste e di cercare Lucia, che troverà nel lazzaretto anche lei guarita dal morbo.
- Guarire dalla peste era cosa rara ma non insolita durante le epidemie e i guariti erano sostanzialmente immuni al contagio, poiché contrarre il morbo due volte era in effetti molto improbabile. Renzo si trova appunto in questa condizione e l'autore lo paragona non senza ironia ai "cavalieri erranti" del Medioevo, che andavano in giro armati fino ai denti e approfittavano della loro superiorità sulla "povera marmaglia pedestre", i contadini indifesi nei loro confronti. È una sottile critica ai poemi cavallereschi ancora diffusi nella letteratura italiana di inizio XIX sec., nonché al modello di società feudale e piena di ingiustizie che quelle opere ingenuamente celebravano.
- Renzo ritorna al paese per la prima volta dopo la "notte degli imbrogli" (cap. VIII), in cui dopo il fallito tentativo di "matrimonio a sorpresa" e il mancato rapimento di Lucia ad opera di don Rodrigo era stato costretto ad andarsene insieme a Lucia e Agnese (il giovane sente ancora dentro di sé il lugubre suono delle campane a martello, suonate dal sagrestano Ambrogio messo in allarme dal curato). I fatti di quella notte sono rievocati indirettamente anche nell'incontro con Tonio, l'amico di Renzo che aveva fatto da testimone insieme al fratello Gervaso nella sfortunata spedizione in casa del curato. L'uomo, la cui mente è sconvolta dalla peste, sembra tanto simile al fratello che Renzo inizialmente lo scambia per lui.
- Don Abbondio ricompare nel romanzo dopo che si era rifugiato con Agnese e Perpetua nel castello dell'innominato, per sfuggire ai lanzichenecchi (XXXIX-XXX): il curato è da poco guarito dalla peste e ne porta ancora i segni addosso, dal momento che appare molto smagrito e inizialmente Renzo stenta a riconoscerlo. È lui a informare Renzo di quanto accaduto al paese in sua assenza, incluso il fatto che Agnese è a Pasturo e che Lucia è sempre a Milano da don Ferrante. Il curato, che si mostra timoroso per la presenza di Renzo in quanto ricercato dalla legge, cerca inutilmente di convincerlo ad andarsene, quindi lo informa di tutti quelli che sono morti in paese, a cominciare da Perpetua (che avevamo visto l'ultima volta alla fine del cap. XXX).
- La descrizione della vigna di Renzo in stato di abbandono e invasa da ogni sorta di erbacce è una pagina famosa del romanzo, benché alcuni commentatori l'abbiano criticata per un eccesso di tecnicismi nel minuto elenco di piante selvatiche e particolari "agricoli" di cui c'è grande abbondanza. L'episodio ha comunque una sua precisa funzione, in quanto la vigna abbandonata diventa metafora del disordine sociale e civile causato dello sconvolgimento della peste e indica forse che l'atteggiamento dello scrittore verso la calamità non è del tutto risolto, conservando una visione problematica e aperta (cfr. l'approfondimento del cap. XXXVII).
- L'amico senza nome che ospita Renzo per la notte ha l'importante funzione di informarlo precisamente sul casato di don Ferrante, indicazione preziosa per il giovane in quanto, in caso contrario, non potrebbe trovare la sua casa a Milano (Agnese glielo aveva scritto per lettera tramite il suo interprete e Renzo non era stato in grado di comprenderlo bene).
Da don Abbondio a don Rodrigo, le notti inquiete dei personaggi
G.B. Galizzi, Gli incubi di don Abbondio
La notte è spesso presentata nel romanzo come un momento angoscioso, in cui i protagonisti si ritrovano soli con se stessi e con le loro paure amplificate dal buio, talvolta materializzate in incubi che non sempre svaniscono allo spuntare del giorno: vi sono naturalmente vari livelli di narrazione, tuttavia il tratto comune sembra essere l'incertezza del domani che fa emergere la fragilità dell'individuo, indagata dal romanziere con una certa finezza stilistica e, forse, con alcuni aspetti autobiografici. Si ha un primo esempio di ciò all'inizio del cap. II, quando don Abbondio, preoccupato di come evitare il matrimonio in programma il giorno seguente, passa la notte in "consulte angosciose" esaminando le varie opzioni che gli consentano di cavarsi d'impiccio, ragionando sulla migliore strategia per convincere Renzo a rimandare le nozze: il tono della narrazione è ovviamente comico, tuttavia è già chiaro lo schema del personaggio che non riesce a prendere sonno perché non sa come risolvere un problema spinoso e, quando finalmente si addormenta, fa sogni inquieti che hanno il volto delle sue paure concrete, ovvero i bravi di don Rodrigo e il rischio delle schioppettate. Su un piano narrativo superiore è invece la descrizione della notte trascorsa da Renzo nel capanno durante la sua fuga verso il Bergamasco (cap. XVII), in attesa che arrivi l'alba per tentare di superare l'Adda: il momento più terribile è stato l'attraversamento del bosco che ha suscitato in lui antichi terrori, tuttavia la notte è tutt'altro che quieta e il giovane fuggiasco non riesce a dormire neppure un minuto, ripensando alle disavventure degli ultimi giorni e angosciato dall'incertezza dell'avvenire, specie ora che non sa quando potrà rivedere Lucia. Nella sua mente si affollano le immagini degli ultimi avvenimenti ("un andare e venire di gente, così affollato, così incessante, che addio sonno") e la notte trascorre nell'attesa impaziente che spunti il giorno, mentre Renzo sente in lontananza i rintocchi di una campana che gli sembra all'inizio un suono misterioso, che provenga da una dimensione lontana (le campane segnano spesso il percorso personale di Renzo, dalla "notte degli imbrogli" fino alla campana che nel lazzaretto lo chiama alla processione dei guariti, fra cui spera invano di trovare Lucia). L'arrivo del giorno è comunque un momento positivo per lui, dal momento che potrà varcare l'Adda e raggiungere la momentanea salvezza, e anzi alla luce del sole le angosce della notte appena trascorsa sembrano svanire nel nulla ("attraversa il bosco... ridendo e vergognandosi nello stesso tempo, del ribrezzo che vi aveva provato poche ore prima"), segno che una parte del suo percorso di maturazione è compiuta e che è pronto a iniziare una nuova fase della sua vita, lasciandosi i timori della fuga alle spalle.
Qualcosa di simile vale anche per Lucia, prigioniera al castello dell'innominato e in preda a mille paure circa il destino che l'attende (cap. XXI): nel suo caso manca del tutto la capacità di riflettere e di ragionare con lucidità, la ragazza si dibatte "contro i fantasmi nati dall'incertezza e dal terrore" e, quando è vinta dalla stanchezza, si assopisce per poi risentirsi in modo violento, per il timore di perdere coscienza e il bisogno di guardarsi intorno (la luce della lanterna illumina in modo sinistro lo spazio circostante, mentre anche lei come Renzo è assalita da "tutte le memorie dell'orribil giornata trascorsa, tutti i terrori dell'avvenire"). Solo la preghiera e il voto riescono ad acquietarla e a farla addormentare per qualche ora, in modo quindi parallelo e contrario alla notte ugualmente angosciosa dell'innominato, che in un'altra stanza della fortezza lotta contro i rimorsi della sua vita scellerata, in preda alla più cupa disperazione. Con l'innominato la narrazione sale di livello e il personaggio in questione, nobile e dotato di maggior dignità intellettuale, è alle prese con qualcosa di più profondo della semplice incertezza del futuro, è in gioco la partita della sua salvezza spirituale, la convivenza con il ricordo insopportabile dei crimini perpetrati nella sua vita criminosa: a differenza di Renzo e Lucia egli riflette lucidamente, passa in rassegna i modi possibili per uscire da quella situazione, arriva a sfiorare l'idea del suicidio che scarta soprattutto al pensiero intollerabile del suo corpo straziato trovato da altri; alla fine il proposito di liberare Lucia non gli dà molto conforto, poiché non sa cosa fare nei giorni seguenti e soprattutto nelle ore notturne foriere della stessa disperazione ("E la notte? la notte, che tornerà fra dodici ore! Oh la notte! no, no, la notte!"). L'arrivo del giorno non gli è di alcun aiuto e sarà solo grazie al pentimento e all'incontro col Borromeo che potrà ritrovare la sua serenità, addormentarsi la sera successiva (alla fine del cap. XXIV) dopo aver pregato come faceva da bambino, essendosi ormai riappacificato con la sua coscienza (la preghiera era un tratto comune anche alla nottata di Renzo, che aveva detto "le sue divozioni" rammaricandosi di non averlo fatto la sera prima, nonché ovviamente a quella di Lucia che aveva pronunciato il voto di verginità alla Madonna).
Alquanto diverso è infine il caso di don Rodrigo ammalato di peste (cap. XXXIII), che trascorre una notte tormentosa occupata dai "più brutti e arruffati sogni del mondo" e soprattutto dall'incubo che viene ampiamente descritto dallo scrittore, in cui emergono le paure e i timori profondi del signorotto. Si tratta dell'unico vero sogno rappresentato nel romanzo e l'atmosfera è decisamente allucinata, resa tra l'altro con una certa verosimiglianza dall'autore: c'è l'elemento della chiesa e della paura di don Rodrigo per l'aldilà, nonché la figura di padre Cristoforo in atto accusatorio (come nel cap. VI), ma tutto è mescolato a particolari deformi e grotteschi, come la folla degli appestati che preme il protagonista da ogni parte, la sua incapacità di muoversi per raggiungere la porta, il reale dolore all'ascella che viene scambiato per l'elsa della spada che non riesce a sguainare; infine c'è l'apparizione confusa del frate, che viene presentato un po' alla volta con una serie incalzante di particolari, fino al riconoscimento finale che risulta traumatico per don Rodrigo ("...vide un pulpito, e dal parapetto di quello spuntar su un non so che di convesso, liscio e luccicante; poi alzarsi e comparir distinta una testa pelata, poi due occhi, un viso, una barba lunga e bianca, un frate ritto, fuor del parapetto fino alla cintola, fra Cristoforo"). Qui non ci sono i pensieri o i ragionamenti del personaggio sull'avvenire, c'è solo la paura della peste e della morte che assume la forma del frate che lo accusa, c'è l'emergere dei suoi terrori inconsci nella dimensione del sogno; il risveglio è traumatico e per nulla risolutivo per il signorotto, che infatti scopre di essere ammalato ed è colto da una paura folle dello squallore del lazzaretto, dell'incertezza del futuro che sarà per lui di sofferenza e morte. La differenza di fondo con gli esempi precedenti è proprio questa, ovvero il rapporto problematico e insoluto di don Rodrigo con tutto ciò che riguarda il suo destino ultraterreno, più o meno soffocato a livello conscio e riemerso durante l'incubo di cui è preda, che lo ha messo di fronte a se stesso senza che lui possa per il momento superare i suoi terrori: lo spuntare del giorno non fuga le paure della notte, anzi le amplifica col mostrargli il "sozzo bubbone" che ha sotto l'ascella, rivelandogli che lui è vulnerabile come qualunque uomo e non può sfuggire al suo destino nascondendosi dietro il suo essere nobile, dietro l'adesione agli ideali di cavalleria e del "punto d'onore". La notte di don Rodrigo è dunque un esempio di segno opposto rispetto a quelli di Renzo, Lucia o dell'innominato, poiché essi trovavano pace prima o dopo nell'abbandonarsi alla volontà di Dio, nell'accettare la loro fragilità umana e i loro errori, mentre don Rodrigo non è ancora pronto per il pentimento e non sa ancora fare i conti con la dimensione dell'ultraterreno, per lui l'angoscia continuerà nei giorni seguenti e una possibile soluzione si avrà solo nel ravvedimento morale, possibilità non esclusa dall'autore che tuttavia ci lascia incerti riguardo ad essa. Gli incubi e le angosce notturne assumono allora una dimensione "religiosa" che riguarda la disperazione dell'uomo, che può trovare conforto solo nella preghiera e nell'accettazione serena dell'assoluto, di fronte al quale tutto ciò che è umano scompare, si annulla come privo di importanza e di valore; Renzo, Lucia e l'innominato sono stati capaci di tale accettazione, don Rodrigo non lo è ancora e quindi la sua notte continua, sia pure nel delirio della peste e nella miseria del lazzaretto dove, non a caso, sarà proprio il "rivale" Renzo a pregare per lui, a invocare il soccorso divino sul suo persecutore che, ora, è pronto a perdonare (sarà quello del resto il primo e unico incontro diretto nel romanzo tra i due uomini, protagonisti di un percorso umano e spirituale di segno diametralmente opposto, anche se forse quello di don Rodrigo potrà concludersi felicemente nel segreto del pentimento, nella dimensione ultraterrena che in quanto tale è inconoscibile all'uomo).
Qualcosa di simile vale anche per Lucia, prigioniera al castello dell'innominato e in preda a mille paure circa il destino che l'attende (cap. XXI): nel suo caso manca del tutto la capacità di riflettere e di ragionare con lucidità, la ragazza si dibatte "contro i fantasmi nati dall'incertezza e dal terrore" e, quando è vinta dalla stanchezza, si assopisce per poi risentirsi in modo violento, per il timore di perdere coscienza e il bisogno di guardarsi intorno (la luce della lanterna illumina in modo sinistro lo spazio circostante, mentre anche lei come Renzo è assalita da "tutte le memorie dell'orribil giornata trascorsa, tutti i terrori dell'avvenire"). Solo la preghiera e il voto riescono ad acquietarla e a farla addormentare per qualche ora, in modo quindi parallelo e contrario alla notte ugualmente angosciosa dell'innominato, che in un'altra stanza della fortezza lotta contro i rimorsi della sua vita scellerata, in preda alla più cupa disperazione. Con l'innominato la narrazione sale di livello e il personaggio in questione, nobile e dotato di maggior dignità intellettuale, è alle prese con qualcosa di più profondo della semplice incertezza del futuro, è in gioco la partita della sua salvezza spirituale, la convivenza con il ricordo insopportabile dei crimini perpetrati nella sua vita criminosa: a differenza di Renzo e Lucia egli riflette lucidamente, passa in rassegna i modi possibili per uscire da quella situazione, arriva a sfiorare l'idea del suicidio che scarta soprattutto al pensiero intollerabile del suo corpo straziato trovato da altri; alla fine il proposito di liberare Lucia non gli dà molto conforto, poiché non sa cosa fare nei giorni seguenti e soprattutto nelle ore notturne foriere della stessa disperazione ("E la notte? la notte, che tornerà fra dodici ore! Oh la notte! no, no, la notte!"). L'arrivo del giorno non gli è di alcun aiuto e sarà solo grazie al pentimento e all'incontro col Borromeo che potrà ritrovare la sua serenità, addormentarsi la sera successiva (alla fine del cap. XXIV) dopo aver pregato come faceva da bambino, essendosi ormai riappacificato con la sua coscienza (la preghiera era un tratto comune anche alla nottata di Renzo, che aveva detto "le sue divozioni" rammaricandosi di non averlo fatto la sera prima, nonché ovviamente a quella di Lucia che aveva pronunciato il voto di verginità alla Madonna).
Alquanto diverso è infine il caso di don Rodrigo ammalato di peste (cap. XXXIII), che trascorre una notte tormentosa occupata dai "più brutti e arruffati sogni del mondo" e soprattutto dall'incubo che viene ampiamente descritto dallo scrittore, in cui emergono le paure e i timori profondi del signorotto. Si tratta dell'unico vero sogno rappresentato nel romanzo e l'atmosfera è decisamente allucinata, resa tra l'altro con una certa verosimiglianza dall'autore: c'è l'elemento della chiesa e della paura di don Rodrigo per l'aldilà, nonché la figura di padre Cristoforo in atto accusatorio (come nel cap. VI), ma tutto è mescolato a particolari deformi e grotteschi, come la folla degli appestati che preme il protagonista da ogni parte, la sua incapacità di muoversi per raggiungere la porta, il reale dolore all'ascella che viene scambiato per l'elsa della spada che non riesce a sguainare; infine c'è l'apparizione confusa del frate, che viene presentato un po' alla volta con una serie incalzante di particolari, fino al riconoscimento finale che risulta traumatico per don Rodrigo ("...vide un pulpito, e dal parapetto di quello spuntar su un non so che di convesso, liscio e luccicante; poi alzarsi e comparir distinta una testa pelata, poi due occhi, un viso, una barba lunga e bianca, un frate ritto, fuor del parapetto fino alla cintola, fra Cristoforo"). Qui non ci sono i pensieri o i ragionamenti del personaggio sull'avvenire, c'è solo la paura della peste e della morte che assume la forma del frate che lo accusa, c'è l'emergere dei suoi terrori inconsci nella dimensione del sogno; il risveglio è traumatico e per nulla risolutivo per il signorotto, che infatti scopre di essere ammalato ed è colto da una paura folle dello squallore del lazzaretto, dell'incertezza del futuro che sarà per lui di sofferenza e morte. La differenza di fondo con gli esempi precedenti è proprio questa, ovvero il rapporto problematico e insoluto di don Rodrigo con tutto ciò che riguarda il suo destino ultraterreno, più o meno soffocato a livello conscio e riemerso durante l'incubo di cui è preda, che lo ha messo di fronte a se stesso senza che lui possa per il momento superare i suoi terrori: lo spuntare del giorno non fuga le paure della notte, anzi le amplifica col mostrargli il "sozzo bubbone" che ha sotto l'ascella, rivelandogli che lui è vulnerabile come qualunque uomo e non può sfuggire al suo destino nascondendosi dietro il suo essere nobile, dietro l'adesione agli ideali di cavalleria e del "punto d'onore". La notte di don Rodrigo è dunque un esempio di segno opposto rispetto a quelli di Renzo, Lucia o dell'innominato, poiché essi trovavano pace prima o dopo nell'abbandonarsi alla volontà di Dio, nell'accettare la loro fragilità umana e i loro errori, mentre don Rodrigo non è ancora pronto per il pentimento e non sa ancora fare i conti con la dimensione dell'ultraterreno, per lui l'angoscia continuerà nei giorni seguenti e una possibile soluzione si avrà solo nel ravvedimento morale, possibilità non esclusa dall'autore che tuttavia ci lascia incerti riguardo ad essa. Gli incubi e le angosce notturne assumono allora una dimensione "religiosa" che riguarda la disperazione dell'uomo, che può trovare conforto solo nella preghiera e nell'accettazione serena dell'assoluto, di fronte al quale tutto ciò che è umano scompare, si annulla come privo di importanza e di valore; Renzo, Lucia e l'innominato sono stati capaci di tale accettazione, don Rodrigo non lo è ancora e quindi la sua notte continua, sia pure nel delirio della peste e nella miseria del lazzaretto dove, non a caso, sarà proprio il "rivale" Renzo a pregare per lui, a invocare il soccorso divino sul suo persecutore che, ora, è pronto a perdonare (sarà quello del resto il primo e unico incontro diretto nel romanzo tra i due uomini, protagonisti di un percorso umano e spirituale di segno diametralmente opposto, anche se forse quello di don Rodrigo potrà concludersi felicemente nel segreto del pentimento, nella dimensione ultraterrena che in quanto tale è inconoscibile all'uomo).
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(voce narrante di Silvia Cecchini).
Capitolo XXXIII
Una notte, verso la fine d’agosto, proprio nel colmo della peste, tornava don Rodrigo a casa sua, in Milano, accompagnato dal fedel Griso, l’uno de’ tre o quattro che, di tutta la famiglia [1], gli eran rimasti vivi. Tornava da un ridotto d’amici soliti a straviziare insieme, per passar la malinconia di quel tempo: e ogni volta ce n’eran de’ nuovi, e ne mancava de’ vecchi. Quel giorno, don Rodrigo era stato uno de’ più allegri; e tra l’altre cose, aveva fatto rider tanto la compagnia, con una specie d’elogio funebre del conte Attilio, portato via dalla peste, due giorni prima.
Camminando però, sentiva un mal essere, un abbattimento, una fiacchezza di gambe, una gravezza di respiro, un’arsione interna, che avrebbe voluto attribuir solamente al vino, alla veglia, alla stagione. Non aprì bocca, per tutta la strada; e la prima parola, arrivati a casa, fu d’ordinare al Griso che gli facesse lume per andare in camera. Quando ci furono, il Griso osservò il viso del padrone, stravolto, acceso, con gli occhi in fuori, e lustri lustri; e gli stava alla lontana: perché, in quelle circostanze, ogni mascalzone aveva dovuto acquistar, come si dice, l’occhio medico. - Sto bene, ve’, - disse don Rodrigo, che lesse nel fare del Griso il pensiero che gli passava per la mente. - Sto benone; ma ho bevuto, ho bevuto forse un po’ troppo. C’era una vernaccia!... Ma, con una buona dormita, tutto se ne va. Ho un gran sonno... Levami un po’ quel lume dinanzi, che m’accieca... mi dà una noia...! - Scherzi della vernaccia, - disse il Griso, tenendosi sempre alla larga. - Ma vada a letto subito, ché il dormire le farà bene. - Hai ragione: se posso dormire... Del resto, sto bene. Metti qui vicino, a buon conto, quel campanello, se per caso, stanotte avessi bisogno di qualche cosa: e sta’ attento, ve’, se mai senti sonare. Ma non avrò bisogno di nulla... Porta via presto quel maledetto lume, - riprese poi, intanto che il Griso eseguiva l’ordine, avvicinandosi meno che poteva. - Diavolo! che m’abbia a dar tanto fastidio! Il Griso prese il lume, e, augurata la buona notte al padrone, se n’andò in fretta, mentre quello si cacciava sotto. Ma le coperte gli parvero una montagna. Le buttò via, e si rannicchiò, per dormire; ché infatti moriva dal sonno. Ma, appena velato l’occhio, si svegliava con un riscossone, come se uno, per dispetto, fosse venuto a dargli una tentennata; e sentiva cresciuto il caldo, cresciuta la smania. Ricorreva col pensiero all’agosto, alla vernaccia, al disordine [2]; avrebbe voluto poter dar loro tutta la colpa; ma a queste idee si sostituiva sempre da sé quella che allora era associata con tutte, ch’entrava, per dir così, da tutti i sensi, che s’era ficcata in tutti i discorsi dello stravizio, giacché era ancor più facile prenderla in ischerzo, che passarla sotto silenzio: la peste. Dopo un lungo rivoltarsi, finalmente s’addormentò, e cominciò a fare i più brutti e arruffati sogni del mondo. E d’uno in un altro, gli parve di trovarsi in una gran chiesa, in su, in su, in mezzo a una folla; di trovarcisi, ché non sapeva come ci fosse andato, come gliene fosse venuto il pensiero, in quel tempo specialmente [3]; e n’era arrabbiato. Guardava i circostanti; eran tutti visi gialli, distrutti, con cert’occhi incantati, abbacinati, con le labbra spenzolate; tutta gente con certi vestiti che cascavano a pezzi; e da’ rotti [4] si vedevano macchie e bubboni. - Largo canaglia! - gli pareva di gridare, guardando alla porta, ch’era lontana lontana, e accompagnando il grido con un viso minaccioso, senza però moversi, anzi ristringendosi, per non toccar que’ sozzi corpi, che già lo toccavano anche troppo da ogni parte. Ma nessuno di quegl’insensati dava segno di volersi scostare, e nemmeno d’avere inteso; anzi gli stavan più addosso: e sopra tutto gli pareva che qualcheduno di loro, con le gomita o con altro, lo pigiasse a sinistra, tra il cuore e l’ascella, dove sentiva una puntura dolorosa, e come pesante. E se si storceva, per veder di liberarsene, subito un nuovo non so che veniva a puntarglisi al luogo medesimo. Infuriato, volle metter mano alla spada; e appunto gli parve che, per la calca, gli fosse andata in su, e fosse il pomo di quella che lo premesse in quel luogo; ma, mettendoci la mano, non ci trovò la spada, e sentì in vece una trafitta [5] più forte. Strepitava, era tutt’affannato, e voleva gridar più forte; quando gli parve che tutti que’ visi si rivolgessero a una parte. Guardò anche lui; vide un pulpito, e dal parapetto di quello spuntar su un non so che di convesso, liscio e luccicante; poi alzarsi e comparir distinta una testa pelata, poi due occhi, un viso, una barba lunga e bianca, un frate ritto, fuor del parapetto fino alla cintola, fra Cristoforo. Il quale, fulminato uno sguardo in giro su tutto l’uditorio, parve a don Rodrigo che lo fermasse in viso a lui, alzando insieme la mano, nell’attitudine appunto che aveva presa in quella sala a terreno del suo palazzotto. Allora alzò anche lui la mano in furia, fece uno sforzo, come per islanciarsi ad acchiappar quel braccio teso per aria; una voce che gli andava brontolando sordamente nella gola, scoppiò in un grand’urlo; e si destò. Lasciò cadere il braccio che aveva alzato davvero; stentò alquanto a ritrovarsi, ad aprir ben gli occhi; ché la luce del giorno già inoltrato gli dava noia, quanto quella della candela, la sera avanti; riconobbe il suo letto, la sua camera; si raccapezzò che tutto era stato un sogno: la chiesa, il popolo, il frate, tutto era sparito; tutto fuorché una cosa, quel dolore dalla parte sinistra. Insieme si sentiva al cuore una palpitazion violenta, affannosa, negli orecchi un ronzìo, un fischìo continuo, un fuoco di dentro, una gravezza in tutte le membra, peggio di quando era andato a letto. Esitò qualche momento, prima di guardar la parte dove aveva il dolore; finalmente la scoprì, ci diede un’occhiata paurosa; e vide un sozzo bubbone d’un livido paonazzo. L’uomo si vide perduto: il terror della morte l’invase, e, con un senso per avventura [6] più forte, il terrore di diventar preda de’ monatti, d’esser portato, buttato al lazzeretto. E cercando la maniera d’evitare quest’orribile sorte, sentiva i suoi pensieri confondersi e oscurarsi, sentiva avvicinarsi il momento che non avrebbe più testa, se non quanto bastasse per darsi alla disperazione. Afferrò il campanello, e lo scosse con violenza. Comparve subito il Griso, il quale stava all’erta. Si fermò a una certa distanza dal letto; guardò attentamente il padrone, e s’accertò di quello che, la sera, aveva congetturato. - Griso! - disse don Rodrigo, rizzandosi stentatamente a sedere: - tu sei sempre stato il mio fido. - Sì, signore. - T’ho sempre fatto del bene. - Per sua bontà. - Di te mi posso fidare...! - Diavolo! - Sto male, Griso. - Me n’ero accorto. - Se guarisco, ti farò del bene ancor più di quello che te n’ho fatto per il passato. Il Griso non rispose nulla, e stette aspettando dove andassero a parare questi preamboli. - Non voglio fidarmi d’altri che di te, - riprese don Rodrigo: - fammi un piacere, Griso. - Comandi, - disse questo, rispondendo con la formola solita a quell’insolita. - Sai dove sta di casa il Chiodo chirurgo? [7] - Lo so benissimo. - È un galantuomo, che, chi lo paga bene, tien segreti gli ammalati. Va’ a chiamarlo: digli che gli darò quattro, sei scudi per visita, di più, se di più ne chiede; ma che venga qui subito; e fa’ la cosa bene, che nessun se n’avveda. - Ben pensato, - disse il Griso: - vo e torno subito. - Senti, Griso: dammi prima un po’ d’acqua. Mi sento un’arsione, che non ne posso più. - No, signore, - rispose il Griso: - niente senza il parere del medico [8]. Son mali bisbetici: non c’è tempo da perdere. Stia quieto: in tre salti son qui col Chiodo. Così detto, uscì, raccostando l’uscio. Don Rodrigo, tornato sotto, l’accompagnava con l’immaginazione alla casa del Chiodo, contava i passi, calcolava il tempo. Ogni tanto ritornava a guardare il suo bubbone; ma voltava subito la testa dall’altra parte, con ribrezzo. Dopo qualche tempo, cominciò a stare in orecchi, per sentire se il chirurgo arrivava: e quello sforzo d’attenzione sospendeva il sentimento del male, e teneva in sesto i suoi pensieri. Tutt’a un tratto, sente uno squillo lontano, ma che gli par che venga dalle stanze, non dalla strada. Sta attento; lo sente più forte, più ripetuto, e insieme uno stropiccìo di piedi: un orrendo sospetto gli passa per la mente. Si rizza a sedere, e si mette ancor più attento; sente un rumor cupo nella stanza vicina, come d’un peso che venga messo giù con riguardo [9]; butta le gambe fuor del letto, come per alzarsi, guarda all’uscio, lo vede aprirsi, vede presentarsi e venire avanti due logori e sudici vestiti rossi, due facce scomunicate, due monatti, in una parola; vede mezza la faccia del Griso che, nascosto dietro un battente socchiuso, riman lì a spiare. - Ah traditore infame!... Via, canaglia! Biondino! Carlotto! [10] aiuto! son assassinato! - grida don Rodrigo; caccia una mano sotto il capezzale, per cercare una pistola; l’afferra, la tira fuori; ma al primo suo grido, i monatti avevan preso la rincorsa verso il letto; il più pronto gli è addosso, prima che lui possa far nulla; gli strappa la pistola di mano, la getta lontano, lo butta a giacere, e lo tien lì, gridando, con un versaccio di rabbia insieme e di scherno: - ah birbone! contro i monatti! contro i ministri del tribunale! contro quelli che fanno l’opere di misericordia! - Tienlo bene, fin che lo portiam via, - disse il compagno, andando verso uno scrigno. E in quella il Griso entrò, e si mise con colui a scassinar la serratura. - Scellerato! - urlò don Rodrigo, guardandolo per di sotto all’altro che lo teneva, e divincolandosi tra quelle braccia forzute. - Lasciatemi ammazzar quell’infame, - diceva quindi ai monatti, - e poi fate di me quel che volete -. Poi ritornava a chiamar con quanta voce aveva, gli altri suoi servitori; ma era inutile, perché l’abbominevole Griso gli aveva mandati lontano, con finti ordini del padrone stesso, prima d’andare a fare ai monatti la proposta di venire a quella spedizione, e divider le spoglie. - Sta’ buono, sta’ buono, - diceva allo sventurato Rodrigo l’aguzzino che lo teneva appuntellato sul letto. E voltando poi il viso ai due che facevan bottino, gridava: - fate le cose da galantuomini! - Tu! tu! - mugghiava don Rodrigo verso il Griso, che vedeva affaccendarsi a spezzare, a cavar fuori danaro, roba, a far le parti, - Tu! dopo...! Ah diavolo dell’inferno! Posso ancora guarire! posso guarire! - Il Griso non fiatava, e neppure, per quanto poteva, si voltava dalla parte di dove venivan quelle parole. - Tienlo forte, - diceva l’altro monatto: - è fuor di sé. Ed era ormai vero. Dopo un grand’urlo, dopo un ultimo e più violento sforzo per mettersi in libertà, cadde tutt’a un tratto rifinito e stupido [11]: guardava però ancora, come incantato, e ogni tanto si riscoteva, o si lamentava. I monatti lo presero, uno per i piedi, e l’altro per le spalle, e andarono a posarlo sur una barella che avevan lasciata nella stanza accanto; poi uno tornò a prender la preda; quindi, alzato il miserabil peso, lo portaron via. Il Griso rimase a scegliere in fretta quel di più che potesse far per lui; fece di tutto un fagotto, e se n’andò. Aveva bensì avuto cura di non toccar mai i monatti, di non lasciarsi toccar da loro; ma, in quell’ultima furia del frugare, aveva poi presi, vicino al letto, i panni del padrone, e gli aveva scossi, senza pensare ad altro, per veder se ci fosse danaro. C’ebbe però a pensare il giorno dopo, che, mentre stava gozzovigliando in una bettola, gli vennero a un tratto de’ brividi, gli s’abbagliaron gli occhi, gli mancaron le forze, e cascò. Abbandonato da’ compagni, andò in mano de’ monatti, che, spogliatolo di quanto aveva indosso di buono, lo buttarono sur un carro; sul quale spirò, prima d’arrivare al lazzeretto, dov’era stato portato il suo padrone. Lasciando ora questo nel soggiorno de’ guai, dobbiamo andare in cerca d’un altro, la cui storia non sarebbe mai stata intralciata con la sua, se lui non l’avesse voluto per forza; anzi si può dir di certo che non avrebbero avuto storia né l’uno né l’altro: Renzo, voglio dire, che abbiam lasciato al nuovo filatoio, sotto il nome d’Antonio Rivolta. C’era stato cinque o sei mesi, salvo il vero; dopo i quali, dichiarata l’inimicizia tra la repubblica e il re di Spagna, e cessato quindi ogni timore di ricerche e d’impegni dalla parte di qui, Bortolo s’era dato premura d’andarlo a prendere, e di tenerlo ancora con sé, e perché gli voleva bene, e perché Renzo, come giovine di talento, e abile nel mestiere, era, in una fabbrica, di grande aiuto al factotum, senza poter mai aspirare a divenirlo lui, per quella benedetta disgrazia di non saper tener la penna in mano. Siccome anche questa ragione c’era entrata per qualche cosa, così abbiam dovuto accennarla. Forse voi vorreste un Bortolo più ideale: non so che dire: fabbricatevelo. Quello era così. Renzo era poi sempre rimasto a lavorare presso di lui. Più d’una volta, e specialmente dopo aver ricevuta qualcheduna di quelle benedette lettere da parte d’Agnese, gli era saltato il grillo di farsi soldato, e finirla: e l’occasioni non mancavano; ché, appunto in quell’intervallo di tempo, la repubblica aveva avuto bisogno di far gente [12]. La tentazione era qualche volta stata per Renzo tanto più forte, che s’era anche parlato d’invadere il milanese; e naturalmente a lui pareva che sarebbe stata una bella cosa, tornare in figura di vincitore a casa sua, riveder Lucia, e spiegarsi una volta con lei. Ma Bortolo, con buona maniera, aveva sempre saputo smontarlo da quella risoluzione. - Se ci hanno da andare, - gli diceva, - ci anderanno anche senza di te, e tu potrai andarci dopo, con tuo comodo; se tornano col capo rotto, non sarà meglio essere stato a casa tua? Disperati che vadano a far la strada, non ne mancherà. E, prima che ci possan mettere i piedi...! Per me, sono eretico [13]: costoro abbaiano; ma sì; lo stato di Milano non è un boccone da ingoiarsi così facilmente. Si tratta della Spagna, figliuolo mio: sai che affare è la Spagna? San Marco è forte a casa sua; ma ci vuol altro. Abbi pazienza: non istai bene qui?... Vedo cosa vuoi dire; ma, se è destinato lassù che la cosa riesca, sta’ sicuro che, a non far pazzie, riuscirà anche meglio. Qualche santo t’aiuterà. Credi pure che non è mestiere per te. Ti par che convenga lasciare d’incannar seta [14], per andare a ammazzare? Cosa vuoi fare con quella razza di gente? Ci vuol degli uomini fatti apposta. Altre volte Renzo si risolveva d’andar di nascosto, travestito, e con un nome finto. Ma anche da questo, Bortolo seppe svolgerlo ogni volta, con ragioni troppo facili a indovinarsi. Scoppiata poi la peste nel milanese, e appunto, come abbiam detto, sul confine del bergamasco, non tardò molto a passarlo; e... non vi sgomentate, ch’io non vi voglio raccontar la storia anche di questa: chi la volesse, la c’è, scritta per ordine pubblico da un certo Lorenzo Ghirardelli [15]: libro raro però e sconosciuto, quantunque contenga forse più roba che tutte insieme le descrizioni più celebri di pestilenze: da tante cose dipende la celebrità de’ libri! Quel ch’io volevo dire è che Renzo prese anche lui la peste, si curò da sé, cioè non fece nulla; ne fu in fin di morte, ma la sua buona complessione vinse la forza del male: in pochi giorni, si trovò fuor di pericolo. Col tornar della vita, risorsero più che mai rigogliose nell’animo suo le memorie, i desidèri, le speranze, i disegni della vita; val a dire che pensò più che mai a Lucia. Cosa ne sarebbe di lei, in quel tempo, che il vivere era come un’eccezione? E, a così poca distanza, non poterne saper nulla? E rimaner, Dio sa quanto, in una tale incertezza! E quand’anche questa si fosse poi dissipata, quando, cessato ogni pericolo, venisse a risaper che Lucia fosse in vita; c’era sempre quell’altro mistero, quell’imbroglio del voto. “Anderò io, anderò a sincerarmi di tutto in una volta, - disse tra sé, e lo disse prima d’essere ancora in caso [16] di reggersi. - Purché sia viva! Trovarla, la troverò io; sentirò una volta da lei proprio, cosa sia questa promessa, le farò conoscere che non può stare, e la conduco via con me, lei e quella povera Agnese, se è viva! che m’ha sempre voluto bene, e son sicuro che me ne vuole ancora. La cattura? eh! adesso hanno altro da pensare, quelli che son vivi. Giran sicuri, anche qui, certa gente, che n’hann’addosso... Ci ha a esser salvocondotto solamente per i birboni? E a Milano, dicono tutti che l’è una confusione peggio. Se lascio scappare una occasion così bella, - (La peste! Vedete un poco come ci fa qualche volta adoprar le parole quel benedetto istinto di riferire e di subordinar tutto a noi medesimi!) - non ne ritorna più una simile!” Giova sperare, caro il mio Renzo. Appena poté strascicarsi, andò in cerca di Bortolo, il quale, fino allora, aveva potuto scansar la peste, e stava riguardato. Non gli entrò in casa, ma, datogli una voce dalla strada, lo fece affacciare alla finestra. - Ah ah! - disse Bortolo: - l’hai scampata, tu. Buon per te! - Sto ancora un po’ male in gambe, come vedi, ma, in quanto al pericolo, ne son fuori. - Eh! vorrei esser io ne’ tuoi piedi. A dire: sto bene, le altre volte, pareva di dir tutto; ma ora conta poco. Chi può arrivare a dire: sto meglio; quella sì è una bella parola! Renzo, fatto al cugino qualche buon augurio, gli comunicò la sua risoluzione. - Va’, questa volta, che il cielo ti benedica, - rispose quello: - cerca di schivar la giustizia, com’io cercherò di schivare il contagio; e, se Dio vuole che la ci vada bene a tutt’e due, ci rivedremo. - Oh! torno sicuro: e se potessi non tornar solo! Basta; spero. - Torna pure accompagnato; chè, se Dio vuole, ci sarà da lavorar per tutti, e ci faremo buona compagnia. Purché tu mi ritrovi, e che sia finito questo diavolo d’influsso! [17] - Ci rivedremo, ci rivedremo; ci dobbiam rivedere! - Torno a dire: Dio voglia! Per alquanti giorni, Renzo si tenne in esercizio, per esperimentar le sue forze, e accrescerle; e appena gli parve di poter far la strada, si dispose a partire. Si mise sotto panni una cintura, con dentro que’ cinquanta scudi, che non aveva mai intaccati, e de’ quali non aveva mai fatto parola, neppur con Bortolo; prese alcuni altri pochi quattrini, che aveva messi da parte giorno per giorno, risparmiando su tutto; prese sotto il braccio un fagottino di panni; si mise in tasca un benservito, che s’era fatto fare a buon conto, dal secondo padrone, sotto il nome d’Antonio Rivolta; in un taschino de’ calzoni si mise un coltellaccio, ch’era il meno che un galantuomo potesse portare a que’ tempi; e s’avviò, agli ultimi d’agosto, tre giorni dopo che don Rodrigo era stato portato al lazzeretto. Prese verso Lecco, volendo, per non andar così alla cieca a Milano, passar dal suo paese, dove sperava di trovare Agnese viva, e di cominciare a saper da lei qualcheduna delle tante cose che si struggeva di sapere. I pochi guariti dalla peste erano, in mezzo al resto della popolazione, veramente come una classe privilegiata. Una gran parte dell’altra gente languiva o moriva; e quelli ch’erano stati fin allora illesi dal morbo, ne vivevano in continuo timore; andavan riservati, guardinghi, con passi misurati, con visi sospettosi, con fretta ed esitazione insieme: ché tutto poteva esser contro di loro arme di ferita mortale. Quegli altri all’opposto, sicuri a un di presso [18] del fatto loro (giacché aver due volte la peste era caso piuttosto prodigioso che raro), giravano per mezzo al contagio franchi e risoluti; come i cavalieri d’un’epoca del medio evo, ferrati fin dove ferro ci poteva stare, e sopra palafreni [19] accomodati anch’essi, per quanto era fattibile, in quella maniera, andavano a zonzo (donde quella loro gloriosa denominazione d’erranti), a zonzo e alla ventura, in mezzo a una povera marmaglia pedestre di cittadini e di villani, che, per ribattere e ammortire i colpi, non avevano indosso altro che cenci. Bello, savio ed utile mestiere! mestiere, proprio, da far la prima figura in un trattato d’economia politica. Con una tale sicurezza, temperata però dall’inquietudini che il lettore sa, e contristata dallo spettacolo frequente, dal pensiero incessante della calamità comune, andava Renzo verso casa sua, sotto un bel cielo e per un bel paese, ma non incontrando, dopo lunghi tratti di tristissima solitudine, se non qualche ombra vagante piuttosto che persona viva, o cadaveri portati alla fossa, senza onor d’esequie, senza canto, senza accompagnamento. A mezzo circa della giornata, si fermò in un boschetto, a mangiare un po’ di pane e di companatico che aveva portato con sé. Frutte, n’aveva a sua disposizione, lungo la strada, anche più del bisogno: fichi, pesche, susine, mele, quante n’avesse volute; bastava ch’entrasse ne’ campi a coglierne, o a raccattarle sotto gli alberi, dove ce n’era come se fosse grandinato; giacché l’anno era straordinariamente abbondante, di frutte specialmente; e non c’era quasi chi se ne prendesse pensiero: anche l’uve nascondevano, per dir così, i pampani, [20] ed eran lasciate in balìa del primo occupante. Verso sera, scoprì il suo paese. A quella vista, quantunque ci dovesse esser preparato, si sentì dare come una stretta al cuore: fu assalito in un punto da una folla di rimembranze dolorose, e di dolorosi presentimenti: gli pareva d’aver negli orecchi que’ sinistri tocchi a martello che l’avevan come accompagnato, inseguito, quand’era fuggito da que’ luoghi; e insieme sentiva, per dir così, un silenzio di morte che ci regnava attualmente. Un turbamento ancor più forte provò allo sboccare sulla piazzetta davanti alla chiesa; e ancora peggio s’aspettava al termine del cammino: ché dove aveva disegnato d’andare a fermarsi, era a quella casa ch’era stato solito altre volte di chiamar la casa di Lucia. Ora non poteva essere, tutt’al più, che quella d’Agnese; e la sola grazia, che sperava dal cielo era di trovarcela in vita e in salute. E in quella casa si proponeva di chiedere alloggio, congetturando bene che la sua non dovesse esser più abitazione che da topi e da faine. Non volendo farsi vedere, prese per una viottola di fuori, quella stessa per cui era venuto in buona compagnia, quella notte così fatta, per sorprendere il curato. A mezzo circa, c’era da una parte la vigna, e dall’altra la casetta di Renzo; sicché, passando, potrebbe entrare un momento nell’una e nell’altra, a vedere un poco come stesse il fatto suo. Andando, guardava innanzi, ansioso insieme e timoroso di veder qualcheduno; e, dopo pochi passi, vide infatti un uomo in camicia, seduto in terra, con le spalle appoggiate a una siepe di gelsomini, in un’attitudine d’insensato: e, a questa, e poi anche alla fisonomia, gli parve di raffigurar quel povero mezzo scemo di Gervaso ch’era venuto per secondo testimonio alla sciagurata spedizione. Ma essendosegli avvicinato, dovette accertarsi ch’era in vece quel Tonio così sveglio che ce l’aveva condotto. La peste, togliendogli il vigore del corpo insieme e della mente, gli aveva svolto in faccia e in ogni suo atto un piccolo e velato germe di somiglianza che aveva con l’incantato fratello. - Oh Tonio! - gli disse Renzo, fermandosegli davanti: - sei tu? Tonio alzò gli occhi, senza mover la testa. - Tonio! non mi riconosci? - A chi la tocca, la tocca, - rispose Tonio, rimanendo poi con la bocca aperta. - L’hai addosso eh? povero Tonio; ma non mi riconosci più? - A chi la tocca, la tocca, - replicò quello, con un certo sorriso sciocco. Renzo, vedendo che non ne caverebbe altro, seguitò la sua strada, più contristato. Ed ecco spuntar da una cantonata, e venire avanti una cosa nera, che riconobbe subito per don Abbondio. Camminava adagio adagio, portando il bastone come chi n’è portato a vicenda; e di mano in mano che s’avvicinava, sempre più si poteva conoscere nel suo volto pallido e smunto, e in ogni atto, che anche lui doveva aver passata la sua burrasca. Guardava anche lui; gli pareva e non gli pareva: vedeva qualcosa di forestiero nel vestiario; ma era appunto forestiero di quel di Bergamo. “È lui senz’altro!” disse tra sé, e alzò le mani al cielo, con un movimento di maraviglia scontenta, restandogli sospeso in aria il bastone che teneva nella destra; e si vedevano quelle povere braccia ballar nelle maniche, dove altre volte stavano appena per l’appunto. Renzo gli andò incontro, allungando il passo, e gli fece una riverenza; ché, sebbene si fossero lasciati come sapete, era però sempre il suo curato. - Siete qui, voi? - esclamò don Abbondio. - Son qui, come lei vede. Si sa niente di Lucia? - Che volete che se ne sappia? Non se ne sa niente. È a Milano, se pure è ancora in questo mondo. Ma voi... - E Agnese, è viva? - Può essere; ma chi volete che lo sappia? non è qui. Ma... - Dov’è? - È andata a starsene nella Valsassina, da que’ suoi parenti, a Pasturo, sapete bene; ché là dicono che la peste non faccia il diavolo come qui. Ma voi, dico... - Questa la mi dispiace. E il padre Cristoforo...? - È andato via che è un pezzo. Ma... - Lo sapevo; me l’hanno fatto scrivere: domandavo se per caso fosse tornato da queste parti. - Oh giusto! non se n’è più sentito parlare. Ma voi... - La mi dispiace anche questa. - Ma voi, dico, cosa venite a far da queste parti, per l’amor del cielo? Non sapete che bagattella di cattura...? - Cosa m’importa? Hanno altro da pensare. Ho voluto venire anch’io una volta a vedere i fatti miei. E non si sa proprio...? - Cosa volete vedere? che or ora non c’è più nessuno, non c’è più niente. E dico, con quella bagattella di cattura, venir qui, proprio in paese, in bocca al lupo, c’è giudizio? Fate a modo [21] d’un vecchio che è obbligato ad averne più di voi, e che vi parla per l’amore che vi porta; legatevi le scarpe bene, e, prima che nessuno vi veda, tornate di dove siete venuto; e se siete stato visto, tanto più tornatevene di corsa. Vi pare che sia aria per voi, questa? Non sapete che sono venuti a cercarvi, che hanno frugato, frugato, buttato sottosopra... - Lo so pur troppo, birboni! - Ma dunque...! - Ma se le dico che non ci penso. E colui, [22] è vivo ancora? è qui? - Vi dico che non c’è nessuno; vi dico che non pensiate alle cose di qui; vi dico che... - Domando se è qui, colui. - Oh santo cielo! Parlate meglio. Possibile che abbiate ancora addosso tutto quel fuoco, dopo tante cose! - C’è, o non c’è? - Non c’è, via. Ma, e la peste, figliuolo, la peste! Chi è che vada in giro, in questi tempi? - Se non ci fosse altro che la peste in questo mondo... dico per me: l’ho avuta, e son franco. - Ma dunque! ma dunque! non sono avvisi questi? Quando se n’è scampata una di questa sorte, mi pare che si dovrebbe ringraziare il cielo, e... - Lo ringrazio bene. - E non andarne a cercar dell’altre, dico. Fate a modo mio... - L’ha avuta anche lei, signor curato, se non m’inganno. - Se l’ho avuta! Perfida e infame è stata: son qui per miracolo: basta dire che m’ha conciato in questa maniera che vedete. Ora avevo proprio bisogno d’un po’ di quiete, per rimettermi in tono: via, cominciavo a stare un po’ meglio... In nome del cielo, cosa venite a far qui? Tornate... - Sempre l’ha con questo tornare, lei. Per tornare, tanto n’avevo a non movermi. Dice: cosa venite? cosa venite? Oh bella! vengo, anch’io, a casa mia. - Casa vostra... - Mi dica; ne son morti molti qui?... - Eh eh! - esclamò don Abbondio; e, cominciando da Perpetua, nominò una filastrocca di persone e di famiglie intere. Renzo s’aspettava pur troppo qualcosa di simile; ma al sentir tanti nomi di persone che conosceva, d’amici, di parenti, stava addolorato, col capo basso, esclamando ogni momento: - poverino! poverina! poverini! - Vedete! - continuò don Abbondio: - e non è finita. Se quelli che restano non metton giudizio questa volta, e scacciar tutti i grilli dalla testa, non c’è più altro che la fine del mondo. - Non dubiti; che già non fo conto di fermarmi qui. - Ah! sia ringraziato il cielo, che la v’è entrata! E, già s’intende, fate ben conto di ritornar sul bergamasco. - Di questo non si prenda pensiero. - Che! non vorreste già farmi qualche sproposito peggio di questo? - Lei non ci pensi, dico; tocca a me: non son più bambino: ho l’uso della ragione. Spero che, a buon conto, non dirà a nessuno d’avermi visto. È sacerdote; sono una sua pecora: non mi vorrà tradire. - Ho inteso, - disse don Abbondio, sospirando stizzosamente: - ho inteso. Volete rovinarvi voi, e rovinarmi me. Non vi basta di quelle che avete passate voi; non vi basta di quelle che ho passate io. Ho inteso, ho inteso -. E, continuando a borbottar tra i denti quest’ultime parole, riprese per la sua strada. Renzo rimase lì tristo e scontento, a pensar dove anderebbe a fermarsi. In quella enumerazion di morti fattagli da don Abbondio, c’era una famiglia di contadini portata via tutta dal contagio, salvo un giovinotto, dell’età di Renzo a un di presso, e suo compagno fin da piccino; la casa era pochi passi fuori del paese. Pensò d’andar lì. E andando, passò davanti alla sua vigna; e già dal di fuori poté subito argomentare in che stato la fosse. Una vetticciola, [23] una fronda d’albero di quelli che ci aveva lasciati, non si vedeva passare il muro; se qualcosa si vedeva, era tutta roba venuta in sua assenza. S’affacciò all’apertura (del cancello non c’eran più neppure i gangheri); diede un’occhiata in giro: povera vigna! Per due inverni di seguito, la gente del paese era andata a far legna - nel luogo di quel poverino -, come dicevano. Viti, gelsi, frutti d’ogni sorte, tutto era stato strappato alla peggio, o tagliato al piede [24]. Si vedevano però ancora i vestigi dell’antica coltura: giovani tralci, in righe spezzate, ma che pure segnavano la traccia de’ filari desolati; qua e là, rimessiticci o getti [25] di gelsi, di fichi, di peschi, di ciliegi, di susini; ma anche questo si vedeva sparso, soffogato, in mezzo a una nuova, varia e fitta generazione, nata e cresciuta senza l’aiuto della man dell’uomo. Era una marmaglia d’ortiche, di felci, di logli, di gramigne, di farinelli, d’avene salvatiche, d’amaranti verdi, di radicchielle, d’acetoselle, di panicastrelle e d’altrettali piante [26]; di quelle, voglio dire, di cui il contadino d’ogni paese ha fatto una gran classe a modo suo, denominandole erbacce, o qualcosa di simile. Era un guazzabuglio di steli, che facevano a soverchiarsi l’uno con l’altro nell’aria, o a passarsi avanti, strisciando sul terreno, a rubarsi in somma il posto per ogni verso; una confusione di foglie, di fiori, di frutti, di cento colori, di cento forme, di cento grandezze: spighette, pannocchiette, ciocche, mazzetti, capolini bianchi, rossi, gialli, azzurri. Tra questa marmaglia di piante ce n’era alcune di più rilevate e vistose, non però migliori, almeno la più parte: l’uva turca, più alta di tutte, co’ suoi rami allargati, rosseggianti, co’ suoi pomposi foglioni verdecupi, alcuni già orlati di porpora, co’ suoi grappoli ripiegati, guarniti di bacche paonazze al basso, più su di porporine, poi di verdi, e in cima di fiorellini biancastri; il tasso barbasso, con le sue gran foglie lanose a terra, e lo stelo diritto all’aria, e le lunghe spighe sparse e come stellate di vivi fiori gialli: cardi, ispidi ne’ rami, nelle foglie, ne’ calici, donde uscivano ciuffetti di fiori bianchi o porporini, ovvero si staccavano, portati via dal vento, pennacchioli argentei e leggieri. Qui una quantità di vilucchioni [27] arrampicati e avvoltati a’ nuovi rampolli d’un gelso, gli avevan tutti ricoperti delle lor foglie ciondoloni, e spenzolavano dalla cima di quelli le lor campanelle candide e molli: là una zucca salvatica, co’ suoi chicchi vermigli, s’era avviticchiata ai nuovi tralci d’una vite; la quale, cercato invano un più saldo sostegno, aveva attaccati a vicenda i suoi viticci a quella; e, mescolando i loro deboli steli e le loro foglie poco diverse, si tiravan giù, pure a vicenda, come accade spesso ai deboli che si prendon l’uno con l’altro per appoggio. Il rovo era per tutto; andava da una pianta all’altra, saliva, scendeva, ripiegava i rami o gli stendeva, secondo gli riuscisse; e, attraversato davanti al limitare stesso, pareva che fosse lì per contrastare il passo, anche al padrone. Ma questo non si curava d’entrare in una tal vigna; e forse non istette tanto a guardarla, quanto noi a farne questo po’ di schizzo. Tirò di lungo: poco lontano c’era la sua casa; attraversò l’orto, camminando fino a mezza gamba tra l’erbacce di cui era popolato, coperto, come la vigna. Mise piede sulla soglia d’una delle due stanze che c’era a terreno: al rumore de’ suoi passi, al suo affacciarsi, uno scompiglìo, uno scappare incrocicchiato di topacci, un cacciarsi dentro il sudiciume che copriva tutto il pavimento: era ancora il letto de’ lanzichenecchi. Diede un’occhiata alle pareti: scrostate, imbrattate, affumicate. Alzò gli occhi al palco [28]: un parato di ragnateli. Non c’era altro. Se n’andò anche di là, mettendosi le mani ne’ capelli; tornò indietro, rifacendo il sentiero che aveva aperto lui, un momento prima; dopo pochi passi, prese un’altra straducola a mancina, che metteva ne’ campi; e senza veder né sentire anima vivente, arrivò vicino alla casetta dove aveva pensato di fermarsi. Già principiava a farsi buio. L’amico era sull’uscio, a sedere sur un panchetto di legno, con le braccia incrociate, con gli occhi fissi al cielo, come un uomo sbalordito dalle disgrazie, e insalvatichito dalla solitudine. Sentendo un calpestìo, si voltò a guardar chi fosse, e, a quel che gli parve di vedere così al barlume, tra i rami e le fronde, disse, ad alta voce, rizzandosi e alzando le mani: - non ci son che io? non ne ho fatto abbastanza ieri? Lasciatemi un po’ stare, che sarà anche questa un’opera di misericordia. Renzo, non sapendo cosa volesse dir questo, gli rispose chiamandolo per nome. - Renzo...! - disse quello, esclamando insieme e interrogando. - Proprio, - disse Renzo; e si corsero incontro. - Sei proprio tu! - disse l’amico, quando furon vicini: - oh che gusto ho di vederti! Chi l’avrebbe pensato? T’avevo preso per Paolin de’ morti [29], che vien sempre a tormentarmi, perché vada a sotterrare. Sai che son rimasto solo? solo! solo, come un romito! [30] - Lo so pur troppo, - disse Renzo. E così, barattando e mescolando in fretta saluti, domande e risposte, entrarono insieme nella casuccia. E lì, senza sospendere i discorsi, l’amico si mise in faccende per fare un po’ d’onore a Renzo, come si poteva così all’improvviso e in quel tempo. Mise l’acqua al fuoco, e cominciò a far la polenta; ma cedé poi il matterello a Renzo, perché la dimenasse; e se n’andò dicendo: - son rimasto solo; ma! son rimasto solo! Tornò con un piccol secchio di latte, con un po’ di carne secca, con un paio di raveggioli [31], con fichi e pesche; e posato il tutto, scodellata la polenta sulla tafferìa [32], si misero insieme a tavola, ringraziandosi scambievolmente, l’uno della visita, l’altro del ricevimento. E, dopo un’assenza di forse due anni, si trovarono a un tratto molto più amici di quello che avesser mai saputo d’essere nel tempo che si vedevano quasi ogni giorno; perché all’uno e all’altro, dice qui il manoscritto, eran toccate di quelle cose che fanno conoscere che balsamo sia all’animo la benevolenza; tanto quella che si sente, quanto quella che si trova negli altri. Certo, nessuno poteva tenere presso di Renzo il luogo d’Agnese, né consolarlo della di lei assenza, non solo per quell’antica e speciale affezione, ma anche perché, tra le cose che a lui premeva di decifrare, ce n’era una [33] di cui essa sola aveva la chiave. Stette un momento tra due, se dovesse continuare il suo viaggio, o andar prima in cerca d’Agnese, giacché n’era così poco lontano; ma, considerato che della salute di Lucia, Agnese non ne saprebbe nulla, restò nel primo proposito d’andare addirittura a levarsi questo dubbio, a aver la sua sentenza, e di portar poi lui le nuove alla madre. Però, anche dall’amico seppe molte cose che ignorava, e di molte venne in chiaro che non sapeva bene, sui casi di Lucia, e sulle persecuzioni che gli avevan fatte a lui, e come don Rodrigo se n’era andato con la coda tra le gambe, e non s’era più veduto da quelle parti; insomma su tutto quell’intreccio di cose. Seppe anche (e non era per Renzo cognizione di poca importanza) come fosse proprio il casato di don Ferrante: ché Agnese gliel aveva bensì fatto scrivere dal suo segretario; ma sa il cielo com’era stato scritto; e l’interprete bergamasco, nel leggergli la lettera, n’aveva fatta una parola tale, che, se Renzo fosse andato con essa a cercar ricapito di quella casa in Milano, probabilmente non avrebbe trovato persona che indovinasse di chi voleva parlare. Eppure quello era l’unico filo che avesse, per andar in cerca di Lucia. In quanto alla giustizia, poté confermarsi sempre più ch’era un pericolo abbastanza lontano, per non darsene gran pensiero: il signor podestà era morto di peste: chi sa quando se ne manderebbe un altro; anche la sbirraglia se n’era andata la più parte; quelli che rimanevano, avevan tutt’altro da pensare che alle cose vecchie. Raccontò anche lui all’amico le sue vicende, e n’ebbe in contraccambio cento storie, del passaggio dell’esercito, della peste, d’untori, di prodigi. - Son cose brutte, - disse l’amico, accompagnando Renzo in una camera che il contagio aveva resa disabitata; - cose che non si sarebbe mai creduto di vedere; cose da levarvi l’allegria per tutta la vita; ma però, a parlarne tra amici, è un sollievo. Allo spuntar del giorno, eran tutt’e due in cucina; Renzo in arnese da viaggio, con la sua cintura nascosta sotto il farsetto, e il coltellaccio nel taschino de’ calzoni: il fagottino, per andar più lesto, lo lasciò in deposito presso all’ospite. - Se la mi va bene, - gli disse, - se la trovo in vita, se... basta... ripasso di qui; corro a Pasturo, a dar la buona nuova a quella povera Agnese, e poi, e poi... Ma se, per disgrazia, per disgrazia che Dio non voglia... allora, non so quel che farò, non so dov’anderò: certo, da queste parti non mi vedete più -. E così parlando, ritto sulla soglia dell’uscio, con la testa per aria, guardava con un misto di tenerezza e d’accoramento, l’aurora del suo paese che non aveva più veduta da tanto tempo. L’amico gli disse, come s’usa, di sperar bene; volle che prendesse con sé qualcosa da mangiare; l’accompagnò per un pezzetto di strada, e lo lasciò con nuovi augùri. Renzo, s’incamminò con la sua pace, bastandogli d’arrivar vicino a Milano in quel giorno, per entrarci il seguente, di buon’ora, e cominciar subito la sua ricerca. Il viaggio fu senza accidenti e senza nulla che potesse distrar Renzo da’ suoi pensieri, fuorché le solite miserie e malinconie. Come aveva fatto il giorno avanti, si fermò a suo tempo, in un boschetto a mangiare un boccone, e a riposarsi. Passando per Monza, davanti a una bottega aperta, dove c’era de’ pani in mostra, ne chiese due, per non rimanere sprovvisto, in ogni caso. Il fornaio, gl’intimò di non entrare, e gli porse sur una piccola pala una scodelletta, con dentro acqua e aceto [34], dicendogli che buttasse lì i danari; e fatto questo, con certe molle, gli porse, l’uno dopo l’altro, i due pani, che Renzo si mise uno per tasca. Verso sera, arriva a Greco [35], senza però saperne il nome; ma, tra un po’ di memoria de’ luoghi, che gli era rimasta dell’altro viaggio, e il calcolo del cammino fatto da Monza in poi, congetturando che doveva esser poco lontano dalla città, uscì dalla strada maestra, per andar ne’ campi in cerca di qualche cascinotto, e lì passar la notte; ché con osterie non si voleva impicciare. Trovò meglio di quel che cercava: vide un’apertura in una siepe che cingeva il cortile d’una cascina; entrò a buon conto [36]. Non c’era nessuno: vide da un canto un gran portico, con sotto del fieno ammontato, e a quello appoggiata una scala a mano; diede un’occhiata in giro, e poi salì alla ventura; s’accomodò per dormire, e infatti s’addormentò subito, per non destarsi che all’alba. Allora, andò carpon carponi verso l’orlo di quel gran letto; mise la testa fuori, e non vedendo nessuno, scese di dov’era salito, uscì di dov’era entrato, s’incamminò per viottole, prendendo per sua stella polare il duomo; e dopo un brevissimo cammino, venne a sbucar sotto le mura di Milano, tra porta Orientale e porta Nuova, e molto vicino a questa. |
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Note
- Della servitù.
- Agli stravizi, al troppo mangiare e bere.
- Durante l'epidemia si evitavano i luoghi affollati come le chiese, dove era più probabile il contagio.
- Dalle parti strappate.
- Una fitta, un dolore.
- Per avventura significa "forse".
- Medico milanese, realmente vissuto al tempo della peste.
- Il Griso rifiuta l'acqua al padrone perché non vuole avvicinarglisi, per paura del contagio.
- È la barella che i monatti hanno posato a terra, nell'altra stanza.
- Sono i bravi che il Griso ha allontanato con uno stratagemma.
- Sfinito, in preda al delirio.
- Arruolare soldati.
- Scettico.
- È l'operazione con cui il filo di seta veniva avvolto intorno ai rocchetti.
- L. Ghirardelli (1600-1641) scrisse Il memorando contagio seguito in Bergamo l'anno 1630, stampato nel 1681.
- In condizione.
- La peste veniva attribuita dai contadini agli influssi astrali, opinione condivisa anche da molti dotti come don Ferrante.
- Non del tutto, in parte.
- Cavalli da sella.
- Le foglie delle viti, nascoste dai grappoli enormi.
- Come vi consiglia.
- Don Rodrigo.
- Una piccola cima d'albero. Si rammenti che un tempo nelle vigne le piante di vite venivano sorrette non da pali di legno, ma da tronchi di alberi appositamente piantati come sostegno, tra cui soprattutto gelsi e olmi.
- Tagliato alla radice, alla base del tronco.
- Rami nuovi (rimessiticci) e germogli (getti).
- L'autore passa in rassegna le principali specie di erbacce che hanno invaso la vigna: il loglio è una graminacea che cresce tra le messi di grano, il farinello è il nome popolare del farinaccio, l'amaranto è un'erba dai fiori di color rosso vivo, la radicchiella è simile alla cicoria, la panicastrella è una graminacea che abbonda nei prati.
- Il vilucchione è una pianta rampicante dallo stelo erbaceo.
- Al soffitto formato da travi.
- Il becchino del paese.
- Come un eremita (da notare la triplice ripetizione di solo, che dà un tono drammatico all'affermazione).
- Formaggi di latte percorino o caprino.
- Sul tagliere in legno (cfr. la "tafferìa di faggio" a casa di Tonio, nel cap. VI).
- Il voto pronunciato da Lucia.
- Al tempo si credeva che l'aceto avesse proprietà disinfettanti.
- Greco è un paesino a circa quattro chilometri da Milano.
- Senza esitare.