L'assassinio dell'uomo sul sagrato
Fermo e Lucia, tomo II, cap. 7
Nella prima stesura romanzo l'innominato viene chiamato Conte del Sagrato e l'autore spiega la spaventosa origine di tale soprannome, raccontando nei particolari l'uccisione di un uomo che il feroce bandito compì addirittura sul sagrato di una chiesa, mostrando un totale sprezzo di ogni regola morale e cristiana. La descrizione è inserita nella digressione sul passato del Conte, cui don Rodrigo ha deciso di rivolgersi per rapire Lucia da Monza, e rispetto al cap. XIX dei "Promessi sposi" Manzoni calca assai più la mano sui dettagli macabri, strizzando forse l'occhio alla tradizione del romanzo nero in voga all'inizio dell'Ottocento (qualcosa di simile avviene anche nel racconto dell'uccisione della suora, nel cap. precedente).
Le ricerche che abbiamo fatte per trovare il vero nome di costui [1] giacché quello che abbiamo trascritto era un soprannome, sono state infruttuose. Al prudentissimo nostro autore è sembrato di avere ecceduto in libertà e in coraggio col solo indicare con un soprannome quest’uomo. Due scrittori contemporanei, degnissimi di fede, il Rivola e il Ripamonti, biografi entrambi del Cardinale Federigo Borromeo, fanno menzione di quel personaggio misterioso, ma lo dipingono succintamente come uno dei più sicuri e imperturbabili scellerati che la terra abbia portato, ma non ne danno il nome, e né meno il soprannome che noi abbiamo ricavato dal nostro manoscritto insieme con la narrazione del fatto che glielo fece acquistare, e che basterà a dare una idea del carattere di quest’uomo. Abitava egli in un castello posto al confine degli stati veneti, sur un monte; e quivi menava una vita sciolta da ogni riguardo di legge, comandando a tutti gli abitatori del contorno, non riconoscendo superiore a sé, arbitro violento dei negozj altrui come di quelli nei quali era parte, raccettatore [2] di tutti i banditi, di tutti i fuggitivi per delitti quando fossero abili a commetterne di nuovi, appaltatore di delitti per professione. «La sua casa» per servirci della descrizione che ne fa il Ripamonti «era come una officina di commessioni d’ammazzamento: servì condannati nella testa [3], e troncatori di teste: né cuoco né guattero [4] dispensati dall’omicidio; le mani dei valletti insanguinate». E la confidenza di costui, nutrita dal sentimento della forza e da una lunga esperienza d’impunità era venuta a tanto, che dovendo egli un giorno passar vicino a Milano, vi entrò senza rispetto, benché capitalmente bandito [4], cavalcò per la città coi suoi cani, e a suon di tromba, passò sulla porta del palazzo ove abitava il governatore, e lasciò alle guardie una imbasciata di villanie da essergli riferita in suo nome. Avvenne un giorno che a costui come a protettore noto di tutte le cause spallate [5] si presentò un debitore svogliato di pagare, e si richiamò a lui della molestia che gli era recata dal suo creditore, raccontando il negozio a modo suo, e protestando ch’egli non doveva nulla, e che non aveva al mondo altra speranza che nella protezione onnipotente del signor Conte. Il creditore, un benestante d’un paese vicino, non era sul calendario del Conte [6], perché senza provocarlo giammai, né usargli il menomo atto di disprezzo, pure mostrava di non volere stare come gli altri alla suggezione di lui, come chi vive pei fatti suoi e non ha bisogno né timore di prepotenti. Al Conte fu molto gradita l’opportunità di dare una scuola [7] a questo signore: trovò irrepugnabili le ragioni del debitore, lo prese nella sua protezione, chiamò un servo, e gli disse: «Accompagnerai questo pover uomo dal signor tale, a cui dirai in mio nome che non gli rechi più molestia alcuna per quel debito preteso, perché io ho riconosciuto che costui non gli deve nulla: ascolterai la sua risposta: non replicherai nulla quale ch’ella sia, e quale ch’ella sia, tornerai tosto a riferirmela». Il lupo e la volpe [8] s’avviarono tosto dal creditore, al quale il lupo espose l’imbasciata, mentre la volpe stava tutta modesta a sentire. Il creditore avrebbe volentieri fatto senza un tale intromettitore; ma punto dalla insolenza di quel procedere, animato dal sentimento della sua buona ragione, e atterrito dalla idea di comparire allora allora un vigliacco, e di perdere per sempre ogni credito; rispose ch’egli non riconosceva il signor Conte per suo giudice. Il lupo e la volpe partirono senza nulla replicare, e la risposta fu tosto riferita al Conte, il quale udendola disse: «benissimo». Il primo giorno di festa la chiesa del paese dove abitava il creditore era ancora tutta piena di popolo che assisteva agli uficj divini, che il Conte si trovava sul sagrato alla testa di una troppa [9] di bravi. Terminati gli uficj, i più vicini alla porta uscendo i primi e guardando macchinalmente sul sagrato videro quell’esercito e quel generale, e ognun d’essi spaventato, senza ben sapere che cagione di timore potesse avere si rivolsero tutti dalla parte opposta, studiando il passo quanto si poteva senza darla a gambe. Il Conte, al primo apparire di persone sulla porta si era tolto dalla spalla l’archibugio, e lo teneva con le due mani in apparecchio di spianarlo [10]. Al muro esteriore della chiesa stavano appoggiati in fila molti archibugj secondo l’uso di quei tempi nei quali gli uomini camminavano per lo più armati, ma non osavano entrar con armi nella chiesa, e le deponevano al di fuori senza custodia per ripigliarle all’uscita. Tanta era la fede publica in quella antica semplicità! Ma i primi che uscirono non si curarono di pigliare le armi loro in presenza di quel drappello: anche i più risoluti svignavano dritto dritto dinanzi a un pericolo oscuro, impreveduto, e che non avrebbe dato tempo a ripararsi e a porsi in difesa. I sopravvegnenti giungevano sbadatamente sulla soglia, e si rivolgevano ciascuno al lato che gli era più comodo per uscire, ma alla vista di quell’apparato tutti si volgevano dalla parte opposta e la folla usciva come acqua da un vaso che altri tenga inclinato a sbieco, che manda un filo solo da un canto dell’apertura. Si affacciò finalmente alla porta con gli altri il creditore aspettato, e il Conte al vederlo gli spianò lo schioppo addosso, accennando nello stesso punto col movimento del capo agli altri di far largo. Lo sventurato colpito dallo spavento, si pose a fuggire dall’altro lato, e la folla non meno, ma l’archibugio del Conte lo seguiva, cercando di coglierlo separato. Quegli che gli erano più lontani s’avvidero che quell’infelice era il segno, e il suo nome fu proferito in un punto da cento bocche. Allora nacque al momento una gara fra quel misero, e la turba tutta compresa da quell’amore della vita, da quell’orrore di un pericolo impensato che occupando alla sprovveduta [11] gli animi non lascia luogo ad alcun altro più degno pensiero. Cercava egli di ficcarsi e di perdersi nella folla, e la folla lo sfuggiva pur troppo s’allontanava da lui per ogni parte, tanto ch’egli scorrazzava solo di qua di là, in un picciolo spazio vuoto, cercando il nascondiglio il più vicino. Il Conte lo prese di mira in questo spazio, lo colse [12], e lo stese a terra. Tutto questo fu l’affare di un momento. La folla continuò a sbandarsi, nessuno si fermò, e il Conte senza scomporsi, ritornò per la sua via, col suo accompagnamento. |
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Note
- Si tratta del Conte del Sagrato, l'innominato dei Promessi sposi che in realtà è da identificare con Francesco Bernardino Visconti.
- Che raccoglieva, raccattava.
- A morte.
- Benché fosse stato messo al bando dalla città, sotto minaccia di pena capitale.
- Di nessun valore, perse.
- Noi diremmo "sul libro nero", nella lista dei suoi nemici.
- Una lezione.
- Un modo ironico per indicare lo sgherro del Conte (il lupo) e il creditore (la volpe), ovvero il violento e l'astuto.
- Una truppa, uno stuolo.
- Preparandosi a spianarlo, a puntarlo.
- Alla sprovvista.
- Lo colpì.