Capitolo XXVII
F. M. Compagnoni, Don Ferrante e la moglie
"Uomo di studio, non gli piaceva né di comandare
né d'ubbidire. Che, in tutte le cose di casa,
la signora moglie fosse la padrona, alla buon'ora;
ma lui servo, no. E se, pregato, le prestava
a un'occorrenza l'ufizio della penna, era perché
ci aveva il suo genio; del rimanente, anche in questo sapeva dir di no, quando non fosse persuaso
di ciò che lei voleva fargli scrivere. Donna Prassede, dopo aver tentato per qualche tempo
di tirarlo dal lasciar fare al fare, s'era ristretta
a nominarlo uno schivafatiche, un uomo fisso
nelle sue idee, un letterato; titolo nel quale,
insieme con la stizza, c'entrava anche
un po' di compiacenza..."
Personaggi:
Luoghi: Tempo: Temi: Trama: |
_Renzo, Lucia, Agnese, don Gonzalo Fernandez de Cordoba, Bortolo, Alessio di Maggianico, don Ferrante, donna Prassede
Il paese di Renzo e Lucia, Milano, Bergamo, Pescarenico, Maggianico Dicembre 1628 e mesi successivi La giustizia, Il tumulto di S. Martino, La guerra di Mantova e del Monferrato, La cultura del Seicento, Nobiltà e potere Spiegazione del motivo per cui il governatore don Gonzalo si è interessato a Renzo. Le vicende della guerra del Monferrato. Renzo dà notizie di sé ad Agnese, che gli manda i cinquanta scudi e lo informa per lettera del voto di Lucia. Renzo risponde che non si metterà mai l'animo in pace. Donna Prassede cerca di far dimenticare Renzo a Lucia, che tuttavia continua a pensare a lui. La biblioteca di don Ferrante. |
Don Gonzalo e la guerra per il Monferrato
J. Sustermans, Ritr. di Vincenzo Gonzaga
L'autore dichiara che per spiegare l'interessamento del governatore don Gonzalo alla vicenda di Renzo occorre illustrare le circostanze della guerra in atto per la successione agli stati di Vincenzo II Gonzaga, duca di Mantova e del Monferrato morto senza eredi: sono cose, osserva ironicamente, ben note a chi si intende di storia, ma non agli indotti che probabilmente leggeranno il romanzo e perciò occorre spendere poche parole in merito. Alla morte di Vincenzo Gonzaga, dunque, Mantova e il Monferrato vengono ereditati da Carlo Gonzaga, duca di Nevers appoggiato dalla corona francese, mentre ovviamente la Spagna si oppone a tale successione e sostiene le pretese su Mantova di Ferrante Gonzaga, principe di Guastalla, e sul Monferrato del duca Carlo Emanuele I di Savoia e della duchessa Margherita Gonzaga di Lorena. Don Gonzalo, nobile spagnolo che si è già distinto nella guerra in Fiandra, smania per iniziare le ostilità e conclude un trattato col duca Carlo Emanuele per invadere e spartire il Monferrato, salvo poi ottenerne la ratifica dal primo ministro spagnolo facendogli credere molto facile la conquista di Casale, la piazzaforte più difesa di quel territorio. Don Gonzalo non intende tuttavia occupare il Monferrato, almeno fino a quando l'imperatore Ferdinando II non si sarà pronunciato sulla questione della successione di Mantova, feudo imperiale, dal momento che il sovrano ha intimato a Carlo di Nevers di non occupare il feudo, mentre quest'ultimo non ha voluto piegarsi a questa volontà.
L'assedio di Casale va per le lunghe
F. Gonin, Carlo Emanuele I
Carlo di Nevers gode dell'appoggio del cardinal Richelieu, dei Veneziani e di papa Urbano VIII, ma il primo è impegnato nell'assedio di La Rochelle e in un conflitto con l'Inghilterra, senza contare l'opposizione della regina Maria de' Medici, per cui non può impegnarsi attivamente nel sostegno all'alleato; i Veneziani non intendono schierarsi se non dopo la discesa in Italia di un esercito francese, limitandosi perciò ad aiutare il Nevers in modo surrettizio e senza dare nell'occhio; il papa, da parte sua, sostiene Carlo a parole e cerca di stipulare una pace, senza tuttavia impegnare truppe. Don Gonzalo e Carlo Emanuele di Savoia possono così attuare il loro piano, ovvero l'invasione del Monferrato da parte del duca sabaudo e l'assedio di Casale da parte del governatore di Milano, anche se le operazioni belliche non vanno come quest'ultimo aveva sperato: la corte non gli dà l'aiuto richiesto, il duca di Savoia sottrae territori spettanti al re di Spagna, costringendo Gonzalo a tacere per non irritare l'alleato e perdere il suo aiuto prezioso. L'assedio procede poi lentamente, sia per la strenua resistenza dei Casalesi, sia (a detta di molti storici) per l'incapacità di don Gonzalo, cosa che all'autore sembra bellissima visto che in tal modo è stato limitato il numero di morti, feriti, uomini storpiati nel corso di quell'assurda guerra. È proprio in questo frangente che scoppia il tumulto di S. Martino a Milano, alla notizia del quale don Gonzalo rientra precipitosamente in città.
Don Gonzalo si lamenta per l'asilo dato a Renzo
Mappa di Casale (XVIII sec.)
A don Gonzalo viene riferito sommariamente anche della clamorosa fuga di Renzo, nonché dei fatti veri o presunti di cui si sarebbe macchiato durante la sommossa e della sua fuga nel Bergamasco: teme che la Repubblica di Venezia possa approfittare della rivolta per schierarsi con la Francia, tanto più che pochi giorni prima (il 25 ottobre) è giunta la notizia, paventata dal governatore, che La Rochelle è caduta, perciò coglie ogni occasione per far capire ai Veneziani che egli non è affatto preoccupato per l'accaduto e che non ha perso nulla dell'antica gagliardia. È questo il motivo che lo spinge a lamentarsi col residente di Venezia allorché questi viene a rendergli visita a Milano, protestando per l'asilo offerto nel Bergamasco a Renzo e causando così le ricerche della giustizia veneta in quel territorio, che poi non portano a nulla. Intanto don Gonzalo torna a Casale e qui, molto tempo dopo, gli viene riferito con un dispaccio l'esito negativo delle ricerche del fuggitivo Renzo, al che sulle prime non ricorda neppure di che si tratti, poi si rammenta confusamente della faccenda e passa subito ad altro, senza pensarci oltre.
Inizia la "corrispondenza" tra Agnese e Renzo
F. Gonin, Agnese e Alessio
Nel frattempo Renzo, che ovviamente non può immaginare che le autorità di Milano siano così poco interessate a trovarlo, resta nascosto nel suo nuovo rifugio e per un certo tempo non può dare notizie ad Agnese, specie perché non sa scrivere e dovrebbe quindi rivolgersi a qualcuno che rediga una lettera per suo conto, trovando poi qualcun altro che faccia da corriere e la recapiti a destinazione (trovare l'uno e l'altro è una grave difficoltà, specie nella sua condizione di fuggiasco). L'autore precisa inoltre che Renzo sa leggere in modo stentato lo "stampato", come aveva dimostrato nello studio del dottor Azzecca-garbugli, ma non sa leggere le parole scritte a penna, senza contare che non è assolutamente in grado di scrivere di suo pugno. Finalmente trova un uomo fidato che possa fargli da scrivano e gli fa redigere una lettera per Agnese, che però fa recapitare al convento di Pescarenico non sapendo dove si trovino la donna e Lucia: la lettera arriva a destinazione, ma data l'assenza di padre Cristoforo la missiva si perde e non se ne sa più nulla. Renzo fa scrivere una seconda lettera e la fa pervenire a un suo amico di Lecco, che la fa avere ad Agnese: la donna si reca a Maggianico e la fa leggere dal cugino Alessio, incaricandolo poi di scrivere una risposta che viene indirizzata ad Antonio Rivolta (la nuova identità di Renzo) al domicilio da lui indicato. Inizia tra i due una sorta di bizzarra corrispondenza epistolare, che avviene però in modo stentato a causa dell'analfabetismo dei due personaggi.
Digressione dell'autore sulla "corrispondenza" dei contadini
L'autore spiega che il contadino analfabeta che ha bisogno di scrivere una lettera (ciò vale per l'epoca del romanzo come per il XIX secolo) si rivolge a uno che possa fargli da scrivano, possibilmente della sua stessa condizione sociale poiché diffida degli altri, spiegandogli pressappoco come stanno i fatti e cosa deve scrivere. Lo scrivano capisce le cose in parte e in parte le fraintende, propone dei cambiamenti, stende infine la lettera un po' a suo genio e non accettando di essere un mero strumento della volontà altrui, cosa che avviene quasi sempre quando chi ne sa più degli altri è richiesto di un favore. In tal modo, tuttavia, la lettera non sempre dice in modo chiaro e preciso quel che dovrebbe e quando la missiva giunge al destinatario, questi deve portarla a sua volta da un lettore che la interpreti e che non sempre riesce a intendere perfettamente il contenuto dello scritto, per cui nascono delle controversie con chi l'ha ricevuta e che si aspetta che la lettera dica altre cose da quelle riferite. In seguito il destinatario fa scrivere una risposta al suo scrivano, il quale si comporta più o meno come l'autore della prima lettera, e quando la seconda missiva giunge al destinatario essa è soggetta a una simile interpretazione e a più o meno numerosi fraintendimenti. Se poi i due corrispondenti non dicono tutto chiaramente perché si tratta di affari scabrosi o segreti, come nel caso appunto di Agnese e Renzo, la logica conseguenza è che essi si intendano con grande fatica, proprio come due filosofi scolastici che discutono di qualche spinosa questione dottrinale.
Agnese informa Renzo del voto di Lucia
Renzo e il suo interprete (ed. 1840)
La corrispondenza tra Agnese e Renzo è appunto di questo tipo e nella prima lettera il giovane spiega le circostanze della sua fuga e della sua latitanza, senza tuttavia che la donna e Alessio riescano a capire granché, complice il fatto che Renzo per prudenza evita di fornire troppi dettagli. Renzo chiede poi con ansia di Lucia, delle cui vicende ha avuto qualche notizia confusa, e raccomanda di confidare nell'avvenire, poiché ci saranno condizioni favorevoli per un possibile ricongiungimento dei due promessi. Dopo qualche tempo Agnese trova il modo di fare arrivare una risposta a Renzo, insieme alla metà dei cento scudi d'oro ricevuti dall'innominato: il giovane è stupito di vedere tanto denaro e non sa che pensare, quindi chiede con ansia allo scrivano di leggergli la lettera, apprendendo così, in modo non troppo chiaro, del rapimento di Lucia e dell'origine del denaro, nonché del voto pronunciato dalla giovane e della necessità per lui di mettersi l'animo in pace.
Renzo è inorridito e attonito da quanto ha sentito e per poco non se la prende con il suo interprete, che costringe a rileggere la lettera più volte senza tuttavia riuscire a capire di più della faccenda. In seguito detta subito con animo alterato una risposta, in cui dichiara che non si metterà mai l'animo in pace e che non intende toccare i cinquanta scudi, che serberà come dote di Lucia, giacché tra i due c'è una promessa di matrimonio che lui non vuole assolutamente dimenticare. Renzo fa scrivere inoltre che, a suo dire, la Madonna aiuta i poveri e non induce a mancar di parola, quindi lui è ben deciso a sposare Lucia e a usare il denaro per mettere su casa nel Bergamasco quando le cose saranno accomodate, aggiungendo molte altre cose simili. Agnese riceve la lettera e risponde a sua volta, per cui il carteggio prosegue in questo modo per un po' di tempo.
Renzo è inorridito e attonito da quanto ha sentito e per poco non se la prende con il suo interprete, che costringe a rileggere la lettera più volte senza tuttavia riuscire a capire di più della faccenda. In seguito detta subito con animo alterato una risposta, in cui dichiara che non si metterà mai l'animo in pace e che non intende toccare i cinquanta scudi, che serberà come dote di Lucia, giacché tra i due c'è una promessa di matrimonio che lui non vuole assolutamente dimenticare. Renzo fa scrivere inoltre che, a suo dire, la Madonna aiuta i poveri e non induce a mancar di parola, quindi lui è ben deciso a sposare Lucia e a usare il denaro per mettere su casa nel Bergamasco quando le cose saranno accomodate, aggiungendo molte altre cose simili. Agnese riceve la lettera e risponde a sua volta, per cui il carteggio prosegue in questo modo per un po' di tempo.
Lucia e donna Prassede
F. Gonin, Lucia e donna Prassede
Agnese riesce in qualche modo a informare Lucia, ospite presso la casa di donna Prassede a Milano, che Renzo è in salvo e che è stato avvertito della questione del voto, per cui la giovane prova sollievo e desidera soltanto che il promesso sposo cerchi di dimenticarsi di lei. La ragazza per parte sua si sforza con tutta se stessa di non pensare a Renzo, ma per quanto si dedichi assiduamente al lavoro non può evitare che l'immagine del giovane si insinui quasi di soppiatto fra i suoi pensieri, specie perché tutti i suoi ricordi (la madre, il paese, la vecchia casa...) sono strettamente legati alla memoria del suo innamorato. Lucia riuscirebbe certo a pensare di meno a Renzo, se donna Prassede non le parlasse spesso di lui nel tentativo alquanto goffo di indurla a dimenticarlo: sovente le chiede se pensi ancora a quel giovane, al che la povera Lucia si schermisce dicendo che non pensa a nessuno e la nobildonna si diffonde a parlare di quelle giovani che rinunciano facilmente a un buon partito, ma quando si innamorano di un delinquente (quale secondo lei è certamente Renzo) non vogliono dimenticarlo, per cui essa vorrebbe che Lucia confessasse le malefatte che il filatore avrebbe compiuto anche al suo paese. La ragazza tenta di difendere Renzo in ogni modo e afferma che il giovane si è sempre comportato assai bene, sicura anche del fatto che a Milano non deve aver fatto nulla di male; Lucia dice a se stessa che prende le difese di Renzo per puro amore di carità, anche se donna Prassede ne deduce che è ancora innamorata di lui, cosa certamente vera come l'autore osserva ironicamente. Lucia spesso scoppia a piangere, ma neppure le lacrime fermano la nobildonna, proprio come i gemiti e le suppliche possono trattenere le armi di un nemico ma non il ferro di un chirurgo (Prassede pensa di fare "del bene" a Lucia e perciò è indotta a perseverare con insistenza). La ragazza non serba comunque astio verso la predicatrice, tanto più che la nobildonna la tratta per il resto con molta dolcezza, anche se quelle discussioni lasciano la poverina in uno stato di grande agitazione, poiché risvegliano nel suo animo pensieri e sentimenti che lei vorrebbe sopire per via del voto.
Rapporti tra donna Prassede e don Ferrante
F. Gonin, Don Ferrante
Fortunatamente per Lucia, donna Prassede deve esercitare la sua "carità" anche verso altri bersagli, come gli elementi della servitù che sono per lei tutti meritevoli di essere raddrizzati, e tutti coloro che diventano loro malgrado oggetto delle sue attenzioni non richieste. Ha inoltre cinque figlie, tre delle quali sono monache e due sposate, per cui donna Prassede si sente in obbligo di interferire anche negli affari di tre conventi e due famiglie, per quanto le rispettive badesse e i generi oppongano una strenua resistenza di fronte alle sue ingerenze. La casa è il luogo dove l'autorità di donna Prassede è pressoché assoluta, anche se essa non si estende sul marito don Ferrante, con cui ha un rapporto alquanto particolare. Il nobile è un uomo di studio e non gli piace comandare né ubbidire, per cui concede alla moglie la signoria completa sulla casa ma se ne sottrae volentieri e l'unica concessione che fa a donna Prassede è di scrivere per lei qualche lettera, quando non si rifiuta anche di far questo per via delle richieste assurde della moglie. Questa brontola spesso contro di lui e tenta vanamente di indurlo a un'opera più attiva nel suo esercizio del bene, limitandosi infine a definire il marito come uno scansafatiche e un letterato, titolo che gli affibbia come un'offesa ma anche come un onore di cui lei stessa si compiace.
La biblioteca di don Ferrante: libri di astrologia e filosofia
F. Gonin, Ritratto di G. Cardano
Don Ferrante possiede una biblioteca che conta circa trecento volumi, libri preziosi su vari campi del sapere e nei quali il nobile passa per essere un dotto e una specie di esperto. In astrologia è ritenuto più che un dilettante, dal momento che non possiede solo la terminologia generica ma è in grado di descrivere puntualmente i vari movimenti degli astri nella volta celeste: da tempo egli sostiene le teorie del Cardano contro quelle di un altro dotto che si rifà a quelle dell'Alcabizio, appoggiando quindi le idee di un moderno contro quelle degli antichi. Conosce anche la storia di questa scienza e riconosce ad essa la capacità di predire eventi futuri, benché alcune previsioni siano risultate sbagliate per l'ignoranza di chi si è esercitato negli studi astrologici.
È anche discretamente esperto di filosofia antica, da cui molto ha appreso grazie alla lettura di Diogene Laerzio, mentre l'autore che considera il supremo maestro è ovviamente Aristotele, per cui conserva le opere anche dei suoi seguaci moderni: non vuol leggere gli scritti dei suoi detrattori, per non buttar via tempo e denaro, eccezion fatta per alcuni libri del già citato Cardano, da lui considerato un grande ingegno a dispetto del suo anti-aristotelismo. Don Ferrante è considerato da molti un fedele seguace delle teorie aristoteliche, benché egli ritenga con modestia di non conoscere fino in fondo le sottili dottrine di quel filosofo eccelso.
È anche discretamente esperto di filosofia antica, da cui molto ha appreso grazie alla lettura di Diogene Laerzio, mentre l'autore che considera il supremo maestro è ovviamente Aristotele, per cui conserva le opere anche dei suoi seguaci moderni: non vuol leggere gli scritti dei suoi detrattori, per non buttar via tempo e denaro, eccezion fatta per alcuni libri del già citato Cardano, da lui considerato un grande ingegno a dispetto del suo anti-aristotelismo. Don Ferrante è considerato da molti un fedele seguace delle teorie aristoteliche, benché egli ritenga con modestia di non conoscere fino in fondo le sottili dottrine di quel filosofo eccelso.
La biblioteca di don Ferrante: libri di naturalistica, di magia, di storia
Frontespizio dell'opera di Plinio
Don Ferrante è anche appassionato di filosofia naturale, pur essendosi limitato a leggere le opere di Aristotele su questa materia e anche quella di Plinio il Vecchio, dando un'occhiata anche al trattato di G. B. Della Porta e ai libri del Cardano, nonché all'opera di Alberto Magno su erbe, piante e animali. Pur non essendo un esperto, il nobile conosce alcune delle più interessanti bizzarrie della natura, come la natura delle sirene e dell'araba fenice, il fatto che la salamandra non bruci nel fuoco, che la remora sia in grado di arrestare il corso di una nave, che le gocce di rugiada diventino perle nelle conchiglie, che il camaleonte si nutra d'aria e che dal ghiaccio abbia origine il cristallo.
Egli è senz'altro più esperto di magia e stregoneria e ne ha letto molti trattati, con l'unico scopo di conoscere le arti malefiche degli incantatori per potersi difendere da essi: grazie alle opere eccelse dello scrittore Martino Delrio è in grado di discutere come un dotto delle arti magiche più diffuse ai suoi tempi, quali ad esempio i filtri d'amore, gli incantesimi per far dormire e le "fatture" che provocano un danno, le quali causano effetti dolorosi dai quali è bene stare in guardia. Conosce molto bene anche la storia universale, di cui possiede molte opere prodotte dagli autori più noti e rinomati al suo tempo, anche se essi sono del tutto sconosciuti al giorno d'oggi.
Egli è senz'altro più esperto di magia e stregoneria e ne ha letto molti trattati, con l'unico scopo di conoscere le arti malefiche degli incantatori per potersi difendere da essi: grazie alle opere eccelse dello scrittore Martino Delrio è in grado di discutere come un dotto delle arti magiche più diffuse ai suoi tempi, quali ad esempio i filtri d'amore, gli incantesimi per far dormire e le "fatture" che provocano un danno, le quali causano effetti dolorosi dai quali è bene stare in guardia. Conosce molto bene anche la storia universale, di cui possiede molte opere prodotte dagli autori più noti e rinomati al suo tempo, anche se essi sono del tutto sconosciuti al giorno d'oggi.
La biblioteca di don Ferrante: libri di politica
F. Gonin, Botero e Machiavelli
Lo studio della storia, tuttavia, ha scarso peso senza l'arte della politica, per cui don Ferrante ha nella sua biblioteca una sezione destinata agli statisti, nella quale gli autori più celebri sono J. Bodin, B. Cavalcanti, F. Sansovino, P. Paruta e Traiano Boccalini, anche se i libri da lui ritenuti più importanti sono il Principe e i Discorsi di N. Machiavelli e la Ragion di stato di G. Botero. Tutti questi scritti sono stati però superati da un libro uscito di recente, ovvero Lo statista regnante di Valeriano Castiglione, scrittore eccelso che ha ottenuto le lodi di papa Urbano VIII, è stato invitato a descrivere le gesta di illustri personaggi contemporanei, è diventato lo storico ufficiale di re Luigi XIII di Francia e di Carlo Emanuele duca di Savoia, ha ottenuto dalla duchessa Cristina figlia di Enrico IV un diploma che lo eleva alla dignità di "primo scrittore" dei suoi tempi.
La biblioteca di don Ferrante: libri di cavalleria
A. Allori, Ritratto di T. Tasso
In tutte queste materie don Ferrante è certo molto colto, ma quella in cui merita il titolo di professore è senza dubbio la scienza cavalleresca: non solo è assai dotto in questa disciplina, ma spesso gli viene chiesto di dare il suo parere e di intervenire come arbitro in qualche disputa su questioni di onore, il che spiega perché nella sua biblioteca trovino posto gli autori più quotati quali Paride dal Pozzo, Fausto da Longiano, l'Urrea, il Muzio, il Romei, l'Albergato, senza scordare i due trattati Forno primo e Forno secondo di Torquato Tasso, di cui Ferrante conosce anche perfettamente i passi della Gerusalemme liberata e Conquistata significativi in materia. L'autore più importante è tuttavia il milanese Francesco Birago, che don Ferrante conosce personalmente e che considera suo amico: la sua opera cavalleresca, secondo il nobile, finirà per oscurare quella di G. B. Olevano e le altre reputate come le più autorevoli in fatto di scienza cavalleresca, profezia che - come dice l'anonimo - ognuno può verificare come si sia avverata al giorno d'oggi.
L'autore torna alle vicende di Renzo, Agnese e Lucia
L'autore osserva con ironia che, forse, questo elenco di opere contenute nella biblioteca di don Ferrante è durato anche troppo e ha finito per annoiare il lettore, senza contare che l'anonimo ha speso tante parole solo per vantare una certa dottrina e conoscenza degli scritti del suo secolo, per cui è tempo di tornare alle vicende dei personaggi principali. Sino all'autunno del 1629 tutti rimangono dove si trovano senza che accada loro nulla di veramente rilevante, finché un grandioso avvenimento storico manda all'aria i progetti di Agnese e Lucia di ritrovarsi così come contavano di fare: quel fatto (la calata dei lanzichenecchi in Lombardia) fu solo il presagio di un evento ben più tragico (la peste del 1630), che avrebbe coinvolto personaggi grandi e umili come un turbine che sradica alberi e abbatte mura ed edifici, ma solleva anche i fuscelli d'erba e le foglie appassite e nascoste negli angoli, per cui l'autore dovrà descrivere almeno in parte gli eventi pubblici per spiegar meglio quelli privati (tale digressione occuperà il capitolo seguente).
Temi principali e collegamenti
- L'inizio del capitolo si ricollega alla fine del XXVI, spiegando le circostanze della guerra per la successione di Mantova e l'assedio di Casale del Monferrato in cui è impegnato don Gonzalo: l'autore condanna questo assurdo conflitto nato da futili questioni dinastiche e portatore di tante sofferenze per la popolazione umile, di cui la carestia e la peste sono conseguenze indirette. Il governatore di Milano agisce dunque per ragioni di calcolo politico e non è certo interessato alla sorte di Renzo, benché il giovane fuggitivo non possa immaginarlo e sia perciò indotto a restare nascosto (su questo si veda l'approfondimento del cap. precedente).
- Tanto Renzo quanto Agnese sono analfabeti e necessitano dunque di "interpreti" per scriversi delle lettere, il che spiega il carattere farraginoso e non sempre chiaro della loro corrispondenza (l'autore pensa che l'ignoranza degli umili sia una piaga da combattere con l'istruzione, per cui si veda oltre). Nel cap. III Renzo aveva detto all'Azzecca-garbugli di sapere leggere "un pochino", il che vale per i caratteri a stampa e non per i testi scritti a mano, che nel Seicento (e nell'Ottocento) erano prodotti in una grafia talmente elaborata e complessa che richiedevano, per essere decifrati, un ottimo grado di istruzione.
- Agnese manda a Renzo i cinquanta scudi d'oro che costituiscono la metà della somma ricevuta dall'innominato per il tramite del cardinal Borromeo (XXVI), informandolo per lettera del voto pronunciato da Lucia: la reazione del giovane è ovviamente di sdegno e incredulità, per cui risponde che non intende rassegnarsi a perdere la sua promessa sposa e che non toccherà il denaro, serbandolo come dote per il matrimonio. Renzo intuisce, per essendo un povero contadino, che il voto è nullo in quanto Lucia non poteva sacrificare anche la sua volontà, come padre Cristoforo spiegherà nel cap. XXXVI.
- Lucia è alle prese con lo zelo "puritano" di donna Prassede, la quale si impegna con ogni sua energia a far dimenticare a Lucia il suo promesso sposo col risultato di ricordarglielo di continuo (l'autore osserva con ironia che la ragazza, forse inconsapevolmente, è ancora legata al suo innamorato). La nobildonna dimostra nei fatti quanto era stato detto su di lei nel cap. XXV, ovvero che è una bigotta col vezzo di far "del bene" anche a chi farebbe volentieri a meno delle sue attenzioni e che, tra l'altro, giudica Renzo in modo pregiudizievole come un "rompicollo", senza neppure conoscerlo. È questa l'ultima apparizione nel romanzo di Lucia, prima di ritrovarla convalescente al lazzaretto di Milano durante la peste, nel cap. XXXVI.
- L'ultima parte del capitolo è dedicata a don Ferrante, il marito di donna Prassede con la quale ha un rapporto di relativa indipendenza (il nobile non vuole essere "servo" in casa propria) e che viene descritto come il tipico "dotto" e intellettuale del Seicento, secolo dalla cultura vuota e frivola contro la quale Manzoni polemizza spesso nel romanzo. Interessante e giustamente famosa è la descrizione della biblioteca dell'aristocratico, che ospita circa 300 libri (una quantità più che rispettabile per una raccolta privata di quel tempo) e le cui "sezioni" sono un campionario delle opere più in voga nel XVII sec., fra le quali sono mescolati autori antichi e moderni, capolavori e scritti di poco valore (sul punto si veda oltre).
- Il finale del capitolo compie un notevole "salto" cronologico, poiché l'autore ci informa che da lì sino all'autunno del 1629 i personaggi principali non si muoveranno da dove si trovano (Agnese al paese, Lucia a Milano e Renzo nel Bergamasco) e verranno poi coinvolti in due eventi drammatici sul piano storico, la calata dei lanzichenecchi in Lombardia e l'epidemia di peste. Nel cap. XXVIII Manzoni interromperà la narrazione degli avvenimenti del romanzo per aprire un'ampia digressione storica, dedicata all'incrudelire della carestia e alle vicende della guerra.
L'analfabetismo come limite alla felicità dei poveri
B. Pinelli, Lo scrivano dei contadini (1810)
Il mondo dei contadini dei Promessi sposi è ovviamente caratterizzato da diffusa ignoranza e analfabetismo, condizione del resto comune anche ai popolani del XIX secolo contemporanei di Manzoni e contro cui l'autore, sia pure con bonaria ironia, prende spesso posizione individuando nell'incapacità di leggere e scrivere un grave limite alla libertà dei poveri, fonte per loro di vessazioni e ingiustizie ad opera dei potenti (sul punto si veda anche l'approfondimento al cap. II). È soprattutto il personaggio di Renzo a esemplificare nel romanzo questa condizione di inferiorità degli umili, specie alla luce del fatto che il giovane operaio della seta ha una modesta istruzione che gli consente di leggere con difficoltà i caratteri a stampa, mentre non è in grado di afferrare il senso di un testo scritto a mano né ovviamente di produrlo: nello studio dell'Azzecca-garbugli riesce a capire qualche parola della grida del 15 ott. 1627 (ad es. il nome di Ferrer che legge in fondo al documento), quanto basta per intendere che le leggi sono per lo più inapplicate e che non garantiscono la giustizia ai poveri, tuttavia è chiaro che la sua scarsa cultura non gli permette di penetrare a fondo il senso dei provvedimenti legislativi e degli atti emanati da chi governa. Renzo, in quanto semi-analfabeta, si rende conto in maniera confusa che la parola scritta è spesso uno strumento di dominio usato dai potenti per tenere in scacco le masse popolari e conserva verso di essa una qualche forma di diffidenza istintiva, per cui rifiuta di far scrivere il proprio nome nel registro dell'osteria della Luna Piena e in seguito pronuncia parole di scherno e condanna per quelli che tengono la "penna in mano", e se ne servono per esercitare soprusi e ingiustizie come nel suo caso. Lui stesso, del resto, non potrà diventare factotum del filatoio dove lavora con Bortolo "per quella benedetta disgrazia di non saper tener la penna in mano", dunque la scarsa istruzione diventa un limite anche per un miglioramento professionale ed economico, oltre ad essere un ostacolo spesso insuperabile per compiere operazioni in teoria assai semplici come, ad esempio, lo scrivere una lettera.
Si ha un esempio lampante di questo aspetto nel cap. XXVII, quando Manzoni descrive la bizzarra corrispondenza epistolare tra Renzo ed Agnese i quali, per comunicare tramite lettera, devono affidarsi ad altri contadini maggiormente istruiti e in grado di fare loro da "segretari", come effettivamente avveniva assai spesso nelle campagne: l'autore sottolinea che poco o nulla è cambiato nel XIX secolo e illustra come la composizione e l'interpretazione di una lettera sia per il contadino analfabeta un'operazione molto complessa, foriera assai spesso di incomprensioni, equivoci e di una cattiva comunicazione come nel caso dei due personaggi (per di più su un argomento delicato come il voto di Lucia, che richiederebbe al contrario la maggiore chiarezza possibile). La comunicazione a distanza, che al giorno d'oggi è resa assai più semplice e veloce dalle moderne tecnologie, era nell'Ottocento un'attività farraginosa e complicata, mentre l'analfabetismo costituiva un indubbio limite allo sviluppo sociale delle classi più svantaggiate e a quello che potremmo definire il raggiungimento della felicità: lo stesso Renzo se ne rende ben conto, al punto che alla fine del romanzo farà in modo che i figli nati dal suo matrimonio con Lucia imparino a leggere e a scrivere, col dire che "giacché la c’era questa birberia, dovevano almeno profittarne anche loro" (dunque il giovane operaio, nel frattempo divenuto imprenditore in società col cugino Bortolo, sembra avere almeno in parte superato la sua diffidenza verso la parola scritta, senza rinunciare tuttavia a definirla come qualcosa da cui guardarsi e di cui approfittare all'occorrenza). La posizione di Renzo è in fondo simile a quella di Manzoni, il quale è favorevole a una serie di riforme sociali in senso "illuministico" le quali, pur senza sovvertire la struttura stratificata della società al cui vertice deve restare l'aristocrazia, contribuiscano a migliorare la condizione dei più poveri, anzitutto allargando progressivamente l'istruzione elementare: la questione è strettamente legata a quella della lingua cui lo scrittore si dedicò anche dopo la pubblicazione del romanzo, presiedendo la Commissione parlamentare che si doveva occupare dell'unità della lingua italiana e dei mezzi per ottenerla e sostenendo, nella Relazione pubblicata nel 1868, che l'insegnamento dell'italiano nelle scuole dovesse prendere a modello le opere degli scrittori che hanno usato il fiorentino come lingua letteraria, soluzione difficile da attuarsi (e avversata, tra gli altri, dal linguista G. I. Ascoli) ma che sarebbe poi stata la base dell'unificazione linguistica del Paese, anche a seguito di eventi storici che in anni più recenti avrebbero contribuito a cementare la coesione sociale. È chiaro che un ruolo fondamentale in questo processo doveva giocare anche la scuola, per cui solo attraverso un progressivo allargamento dell'istruzione la piaga dell'analfabetismo sarebbe stata estirpata e sarebbe stato apportato un notevole miglioramento alla condizione di vita di milioni di italiani poveri, costretti dalla loro ignoranza in uno stato di subalternità: Manzoni si rende conto in maniera lucida di tutto questo, anche se sarebbe improprio attribuirgli la volontà di un autentico riscatto delle masse contadine e di voler attuare politiche che portassero a una reale autocoscienza dei loro diritti e delle loro prerogative attraverso la cultura, poiché il romanziere non aveva una visione democratica ed egualitaria della società e voleva, sì, migliorare le condizioni di poveri e contadini, ma non certo sollevarli del tutto da quello stato di inferiorità in cui era opportuno che rimanessero, per non sconvolgere l'assetto della società quale lui approvava e voleva mantenere. Un conto è insomma insegnare ai poveri a leggere e scrivere affinché la loro vita migliori e non siano più soggetti ai soprusi dei potenti e degli apparati dello Stato, ma altro discorso è consentire loro l'accesso a un sistema avanzato di istruzione che potrebbe far nascere in loro troppe smanie politiche, inducendoli ad esempio a scatenare una nuova rivoluzione: anche in questo aspetto si ravvisa il paternalismo di Manzoni e la sua convinzione che le classi sociali debbano restare ben distinte, obiettivo che è possibile raggiungere mantenendo una sorta di diseguaglianza culturale in cui ciascuno si accontenta della propria condizione, desiderando migliorarla solo in senso economico e senza scalzare i privilegi della nobiltà. È chiaro che tale visione manzoniana è decisamente anacronistica e profondamente legata a schemi culturali ottocenteschi, essendo peraltro condivisa e fatta propria dalla classe dirigente dell'Italia post-unitaria in cui l'istruzione elementare obbligatoria venne introdotta dalla legge Coppino del 1877 solo per un triennio, e successivamente ampliata dalla legge Orlando del 1904 che la portò fino ai dodici anni di età (si trattava di un sistema scolastico in cui le fasce più povere della popolazione erano di fatto escluse dall'istruzione superiore, riservata all'alta borghesia che stava sostituendo l'aristocrazia nel ruolo di direzione politica del Paese). Bisognerà attendere la Costituzione repubblicana del 1948 perché il diritto all'istruzione venga sancito in modo ufficiale per tutti i cittadini, mentre solo in anni relativamente recenti si vedrà finalmente sconfitto l'analfabetismo, per cui si può affermare che il processo di unificazione culturale iniziato dopo il 1861 si è protratto sino ai giorni nostri e si è pienamente consolidato in seguito all'estensione della democrazia, alla base della quale vi è un modello di società fondato sull'eguaglianza e sul libero accesso dei cittadini ai più alti gradi dell'istruzione. Questo modello sociale non è certo quello teorizzato da Manzoni e dalla borghesia liberale di metà Ottocento, per cui occorre grande prudenza nell'esaltare il romanziere come campione dei diritti del popolo in quanto, come si è visto, egli non pensava certo che l'alfabetizzazione dei contadini preludesse a un progressivo allargamento dei diritti e delle libertà, per quanto tale visione della società abbia trovato larghi consensi nella classe politica fino a metà del XX secolo e ciò spiega, forse, il successo del romanzo come lettura obbligatoria nelle scuole (bisogna dunque evitare un'interpretazione troppo edulcorata del mondo degli umili nell'opera manzoniana, che in nome di blandi principi religiosi potrebbe far credere che i poveri non debbano acquisire la coscienza dei propri diritti grazie all'istruzione e alla partecipazione al dialogo culturale, cosa incompatibile la moderna concezione di democrazia).
Si ha un esempio lampante di questo aspetto nel cap. XXVII, quando Manzoni descrive la bizzarra corrispondenza epistolare tra Renzo ed Agnese i quali, per comunicare tramite lettera, devono affidarsi ad altri contadini maggiormente istruiti e in grado di fare loro da "segretari", come effettivamente avveniva assai spesso nelle campagne: l'autore sottolinea che poco o nulla è cambiato nel XIX secolo e illustra come la composizione e l'interpretazione di una lettera sia per il contadino analfabeta un'operazione molto complessa, foriera assai spesso di incomprensioni, equivoci e di una cattiva comunicazione come nel caso dei due personaggi (per di più su un argomento delicato come il voto di Lucia, che richiederebbe al contrario la maggiore chiarezza possibile). La comunicazione a distanza, che al giorno d'oggi è resa assai più semplice e veloce dalle moderne tecnologie, era nell'Ottocento un'attività farraginosa e complicata, mentre l'analfabetismo costituiva un indubbio limite allo sviluppo sociale delle classi più svantaggiate e a quello che potremmo definire il raggiungimento della felicità: lo stesso Renzo se ne rende ben conto, al punto che alla fine del romanzo farà in modo che i figli nati dal suo matrimonio con Lucia imparino a leggere e a scrivere, col dire che "giacché la c’era questa birberia, dovevano almeno profittarne anche loro" (dunque il giovane operaio, nel frattempo divenuto imprenditore in società col cugino Bortolo, sembra avere almeno in parte superato la sua diffidenza verso la parola scritta, senza rinunciare tuttavia a definirla come qualcosa da cui guardarsi e di cui approfittare all'occorrenza). La posizione di Renzo è in fondo simile a quella di Manzoni, il quale è favorevole a una serie di riforme sociali in senso "illuministico" le quali, pur senza sovvertire la struttura stratificata della società al cui vertice deve restare l'aristocrazia, contribuiscano a migliorare la condizione dei più poveri, anzitutto allargando progressivamente l'istruzione elementare: la questione è strettamente legata a quella della lingua cui lo scrittore si dedicò anche dopo la pubblicazione del romanzo, presiedendo la Commissione parlamentare che si doveva occupare dell'unità della lingua italiana e dei mezzi per ottenerla e sostenendo, nella Relazione pubblicata nel 1868, che l'insegnamento dell'italiano nelle scuole dovesse prendere a modello le opere degli scrittori che hanno usato il fiorentino come lingua letteraria, soluzione difficile da attuarsi (e avversata, tra gli altri, dal linguista G. I. Ascoli) ma che sarebbe poi stata la base dell'unificazione linguistica del Paese, anche a seguito di eventi storici che in anni più recenti avrebbero contribuito a cementare la coesione sociale. È chiaro che un ruolo fondamentale in questo processo doveva giocare anche la scuola, per cui solo attraverso un progressivo allargamento dell'istruzione la piaga dell'analfabetismo sarebbe stata estirpata e sarebbe stato apportato un notevole miglioramento alla condizione di vita di milioni di italiani poveri, costretti dalla loro ignoranza in uno stato di subalternità: Manzoni si rende conto in maniera lucida di tutto questo, anche se sarebbe improprio attribuirgli la volontà di un autentico riscatto delle masse contadine e di voler attuare politiche che portassero a una reale autocoscienza dei loro diritti e delle loro prerogative attraverso la cultura, poiché il romanziere non aveva una visione democratica ed egualitaria della società e voleva, sì, migliorare le condizioni di poveri e contadini, ma non certo sollevarli del tutto da quello stato di inferiorità in cui era opportuno che rimanessero, per non sconvolgere l'assetto della società quale lui approvava e voleva mantenere. Un conto è insomma insegnare ai poveri a leggere e scrivere affinché la loro vita migliori e non siano più soggetti ai soprusi dei potenti e degli apparati dello Stato, ma altro discorso è consentire loro l'accesso a un sistema avanzato di istruzione che potrebbe far nascere in loro troppe smanie politiche, inducendoli ad esempio a scatenare una nuova rivoluzione: anche in questo aspetto si ravvisa il paternalismo di Manzoni e la sua convinzione che le classi sociali debbano restare ben distinte, obiettivo che è possibile raggiungere mantenendo una sorta di diseguaglianza culturale in cui ciascuno si accontenta della propria condizione, desiderando migliorarla solo in senso economico e senza scalzare i privilegi della nobiltà. È chiaro che tale visione manzoniana è decisamente anacronistica e profondamente legata a schemi culturali ottocenteschi, essendo peraltro condivisa e fatta propria dalla classe dirigente dell'Italia post-unitaria in cui l'istruzione elementare obbligatoria venne introdotta dalla legge Coppino del 1877 solo per un triennio, e successivamente ampliata dalla legge Orlando del 1904 che la portò fino ai dodici anni di età (si trattava di un sistema scolastico in cui le fasce più povere della popolazione erano di fatto escluse dall'istruzione superiore, riservata all'alta borghesia che stava sostituendo l'aristocrazia nel ruolo di direzione politica del Paese). Bisognerà attendere la Costituzione repubblicana del 1948 perché il diritto all'istruzione venga sancito in modo ufficiale per tutti i cittadini, mentre solo in anni relativamente recenti si vedrà finalmente sconfitto l'analfabetismo, per cui si può affermare che il processo di unificazione culturale iniziato dopo il 1861 si è protratto sino ai giorni nostri e si è pienamente consolidato in seguito all'estensione della democrazia, alla base della quale vi è un modello di società fondato sull'eguaglianza e sul libero accesso dei cittadini ai più alti gradi dell'istruzione. Questo modello sociale non è certo quello teorizzato da Manzoni e dalla borghesia liberale di metà Ottocento, per cui occorre grande prudenza nell'esaltare il romanziere come campione dei diritti del popolo in quanto, come si è visto, egli non pensava certo che l'alfabetizzazione dei contadini preludesse a un progressivo allargamento dei diritti e delle libertà, per quanto tale visione della società abbia trovato larghi consensi nella classe politica fino a metà del XX secolo e ciò spiega, forse, il successo del romanzo come lettura obbligatoria nelle scuole (bisogna dunque evitare un'interpretazione troppo edulcorata del mondo degli umili nell'opera manzoniana, che in nome di blandi principi religiosi potrebbe far credere che i poveri non debbano acquisire la coscienza dei propri diritti grazie all'istruzione e alla partecipazione al dialogo culturale, cosa incompatibile la moderna concezione di democrazia).
La biblioteca di don Ferrante, trionfo dell'inutilità
C. Spitzweg, Il topo di biblioteca
La cultura vuota e frivola del Seicento è uno dei bersagli polemici del romanzo e Manzoni non perde occasione per mettere in rilievo l'arretratezza letteraria e scientifica dell'Italia di quel tempo, fonte non secondaria di decadenza politica, storture del potere e soprusi ai danni degli individui più deboli: ignoranza e superstizione regnano largamente nel mondo dei Promessi sposi, fra gli umili come fra i nobili, e questo aspetto emerge con chiarezza nella descrizione della ricca biblioteca di don Ferrante, che occupa l'ultima parte del cap. XXVII e costituisce un campionario di tutta la futilità e la pompa delle lettere e degli studi di quel secolo pieno di contraddizioni (essa è contrapposta implicitamente alla Biblioteca Ambrosiana fondata dal cardinal Borromeo, vera istituzione culturale nata per diffondere la cultura e la circolazione delle idee, benché neppure il prelato fosse esente dai difetti propri degli intellettuali coevi). Don Ferrante è un dotto e rappresenta l'intellettuale tipico del Seicento, i cui interessi eterogenei si riflettono nelle "sezioni" in cui la sua biblioteca è suddivisa e nelle gerarchie degli autori presenti sui suoi scaffali, determinate spesso da criteri che appaiono a dir poco discutibili e del tutto incompatibili con la moderna concezione degli studi, basata ovviamente su una severa acribia scientifica che era del tutto assente a quell'epoca. Ciò che salta subito all'occhio è infatti il carattere futile di molte discipline coltivate dal nobile e nelle quali egli passa per un esperto, come l'astrologia che era in effetti assai diffusa nel XVII secolo: essa è la "scienza" che consente di prevedere gli eventi umani grazie alla teoria degli influssi astrali, di origine aristotelica, ed è evidente che don Ferrante abbraccia quella concezione geocentrica dell'universo che di lì a pochi anni sarebbe stata sconfessata da Galileo Galilei nel Dialogo sopra i due massimi sistemi (pubblicato nel 1632, appena quattro anni dopo le supposte vicende del romanzo). Altrettanto improbabili gli studi nel campo della magia la cui pratica, analogamente all'astrologia, era diffusissima nel Seicento e fonte non solo di superstizioni e credenze assurde in campo naturalistico, ma anche di atroci persecuzioni ai danni di povere donne accusate di essere streghe, contro le quali vennero del resto intentati processi dallo stesso Borromeo altrove elogiato dall'autore come campione di carità e di ingegno. Le stesse errate convinzioni sull'origine della peste spiegate nei capp. XXXI-XXXII sono un misto di teorie astrologiche, superstizioni popolari e pregiudizi contro l'azione dei "maliardi", per cui non stupisce che don Ferrante voglia premunirsi contro il maleficio prodotto dalla magia leggendone i testi e apprendendone le tecniche per difendersi, come del resto faceva più di un dotto aristocratico a quell'epoca.
Un altro aspetto interessante è la tendenza, anch'essa propria del secolo, a individuare degli scrittori particolarmente autorevoli da seguire come maestri nei rispettivi campi del sapere, nutrendo cieca fiducia in tutto ciò che dicono anche a dispetto della più evidente inattendibilità: Aristotele domina nel campo della filosofia ed è giudicato da don Ferrante "il filosofo", tanto che il nobile è ritenuto un "peripatetico" (seguace dell'aristotelismo) e ciò determinerà le sue errate convinzioni circa l'assenza del contagio della peste, essendo indirettamente anche causa della sua morte; Girolamo Cardano è un'autorità indiscussa nel campo dell'astrologia, Martino Delrio in quello della stregoneria (lo scrittore fiammingo sarà definito "funesto" nella digressione sulla peste del cap. XXXII e la sua opera fonte "di legali, orribili, non interrotte carnificine"); Valeriano Castiglione primeggia nell'arte della politica (preferito a due ingegni come Botero e Machiavelli), mentre Francesco Birago è il più quotato autore nella scienza cavalleresca (anch'egli anteposto al più celebre Torquato Tasso). Stupisce come autori mediocri e la cui opera è stata poi avvolta dal più completo oblio trovino posto, nella biblioteca del nobile, accanto a scrittori tra i più rinomati e importanti della letteratura italiana ed europea, ma questa curiosa mescolanza è in fondo tipica della cultura secentesca e deriva assai spesso dalle discussioni sulla superiorità degli antichi e dei moderni cui prende parte lo stesso don Ferrante, il quale sostiene solitamente le parti dei moderni anche se, talvolta, dà ragione agli antichi quando gli sembra evidente che dicano il vero in qualche importante questione. Spesso, poi, l'antichità di uno scrittore è di per sé argomento sufficiente per determinare la sua autorevolezza (come nel caso di Aristotele, o di Plinio il Vecchio) e sulla scorta delle affermazioni di un autore gli intellettuali credono ciecamente anche a cose manifestamente errate o addirittura leggendarie, come il significativo campionario di sciocchezze in campo naturalistico di cui don Ferrante è convinto assertore per averne letto notizia nelle opere pseudo-scientifiche di Plinio o Alberto Magno (ed è proprio contro questo atteggiamento acritico che Galileo si batterà sostenendo la validità del metodo sperimentale, pagandone poi le conseguenze con il processo da parte dell'Inquisizione e l'abiura). Non a caso l'assenza di un vero razionalismo critico viene rilevato anche dal cardinal Borromeo, il quale, dopo la fondazione della Biblioteca Ambrosiana, faticherà non poco a reperire i "dottori" con cui formare il Collegio che avrebbe dovuto diffondere gli studi e le attività culturali dell'istituzione, scegliendoli infine all'interno del clero (e lo stesso prelato scriverà opere di scarso rilievo, destinate ad essere dimenticate come quelle degli autori di don Ferrante: bisognerà attendere il primo Settecento perché si diffonda nella cultura italiana un atteggiamento scientifico e razionalista, attraverso l'impegno di intellettuali quali, tra gli altri, L. A. Muratori).
Non a caso, dunque, l'ultima e più ricca sezione della biblioteca di don Ferrante è dedicata alla "scienza" cavalleresca, ovvero quel complesso di norme e regole dell'onore che è forse la caratteristica saliente dell'aristocrazia del XVII sec. e contro la quale Manzoni si scaglia in più di un episodio del romanzo: tra Cinque e Seicento in Italia è tutto un proliferare di testi e trattati in materia cavalleresca e il nobile non fa certo eccezione raccogliendo tra i suoi libri le opere più rinomate in questo campo, benché si tratti anche qui di testi meno che mediocri e destinati a non lasciare traccia, ad eccezione ovviamente delle opere del Tasso ricordate per ben altri motivi. Manzoni chiude la descrizione della biblioteca con il settore che rappresenta il culmine della futilità, poiché la cavalleria è un campo del sapere che non aggiunge nulla alla scienza propriamente intesa o alla diffusione della cultura ed è solo l'espressione di quei privilegi assurdi cui i nobili sono gelosamente legati, fonte non di rado di soprusi e vessazioni a danno dei più deboli o addirittura di duelli dalle conseguenze sanguinose (l'esempio di padre Cristoforo e della sua gioventù è indicativo in questo senso, come anche la persecuzione di don Rodrigo ai danni di Lucia). La biblioteca di don Ferrante è dunque l'espressione più evidente della futilità della cultura del Seicento e ciò spiega l'impietosa ironia con cui l'autore bolla molti dei libri che essa ospita, oltre naturalmente al suo proprietario che finirà per essere egli stesso vittima delle sue assurde convinzioni e la cui "famosa libreria" finirà "dispersa su per i muriccioli", ovvero venduta sulle bancarelle: è forse questo l'aspetto del XVII secolo rispetto al quale c'è stato il maggior progresso al tempo del Manzoni, dal momento che la cultura italiana di inizio Ottocento si è ormai lasciata alle spalle i difetti propri della letteratura dei secoli passati, benché la tendenza alle discussioni sterili in campo letterario fosse ancora alquanto diffusa nell'epoca romantica in cui, se non altro, gli scrittori si occupavano di questioni di interesse politico e sociale di ben diverso spessore rispetto a quelle frivole dell'epoca barocca, anche se molto per Manzoni restava ancora da fare (specie in campo storiografico, dove egli avverte la necessità di spostare l'attenzione dai grandi eventi pubblici alle vicende dei popoli e degli umili). Da sottolineare, infine, che la descrizione della biblioteca chiude un capitolo in cui, nella parte centrale, è stato descritto il bizzarro carteggio tra Agnese e Renzo ed è stato messo l'accento sulla piaga dell'analfabetismo tra i popolani, che rappresenta la faccia opposta dell'arretratezza della cultura nel Seicento, anche se questo problema era ancora ben vivo e presente nel sec. XIX.
Un altro aspetto interessante è la tendenza, anch'essa propria del secolo, a individuare degli scrittori particolarmente autorevoli da seguire come maestri nei rispettivi campi del sapere, nutrendo cieca fiducia in tutto ciò che dicono anche a dispetto della più evidente inattendibilità: Aristotele domina nel campo della filosofia ed è giudicato da don Ferrante "il filosofo", tanto che il nobile è ritenuto un "peripatetico" (seguace dell'aristotelismo) e ciò determinerà le sue errate convinzioni circa l'assenza del contagio della peste, essendo indirettamente anche causa della sua morte; Girolamo Cardano è un'autorità indiscussa nel campo dell'astrologia, Martino Delrio in quello della stregoneria (lo scrittore fiammingo sarà definito "funesto" nella digressione sulla peste del cap. XXXII e la sua opera fonte "di legali, orribili, non interrotte carnificine"); Valeriano Castiglione primeggia nell'arte della politica (preferito a due ingegni come Botero e Machiavelli), mentre Francesco Birago è il più quotato autore nella scienza cavalleresca (anch'egli anteposto al più celebre Torquato Tasso). Stupisce come autori mediocri e la cui opera è stata poi avvolta dal più completo oblio trovino posto, nella biblioteca del nobile, accanto a scrittori tra i più rinomati e importanti della letteratura italiana ed europea, ma questa curiosa mescolanza è in fondo tipica della cultura secentesca e deriva assai spesso dalle discussioni sulla superiorità degli antichi e dei moderni cui prende parte lo stesso don Ferrante, il quale sostiene solitamente le parti dei moderni anche se, talvolta, dà ragione agli antichi quando gli sembra evidente che dicano il vero in qualche importante questione. Spesso, poi, l'antichità di uno scrittore è di per sé argomento sufficiente per determinare la sua autorevolezza (come nel caso di Aristotele, o di Plinio il Vecchio) e sulla scorta delle affermazioni di un autore gli intellettuali credono ciecamente anche a cose manifestamente errate o addirittura leggendarie, come il significativo campionario di sciocchezze in campo naturalistico di cui don Ferrante è convinto assertore per averne letto notizia nelle opere pseudo-scientifiche di Plinio o Alberto Magno (ed è proprio contro questo atteggiamento acritico che Galileo si batterà sostenendo la validità del metodo sperimentale, pagandone poi le conseguenze con il processo da parte dell'Inquisizione e l'abiura). Non a caso l'assenza di un vero razionalismo critico viene rilevato anche dal cardinal Borromeo, il quale, dopo la fondazione della Biblioteca Ambrosiana, faticherà non poco a reperire i "dottori" con cui formare il Collegio che avrebbe dovuto diffondere gli studi e le attività culturali dell'istituzione, scegliendoli infine all'interno del clero (e lo stesso prelato scriverà opere di scarso rilievo, destinate ad essere dimenticate come quelle degli autori di don Ferrante: bisognerà attendere il primo Settecento perché si diffonda nella cultura italiana un atteggiamento scientifico e razionalista, attraverso l'impegno di intellettuali quali, tra gli altri, L. A. Muratori).
Non a caso, dunque, l'ultima e più ricca sezione della biblioteca di don Ferrante è dedicata alla "scienza" cavalleresca, ovvero quel complesso di norme e regole dell'onore che è forse la caratteristica saliente dell'aristocrazia del XVII sec. e contro la quale Manzoni si scaglia in più di un episodio del romanzo: tra Cinque e Seicento in Italia è tutto un proliferare di testi e trattati in materia cavalleresca e il nobile non fa certo eccezione raccogliendo tra i suoi libri le opere più rinomate in questo campo, benché si tratti anche qui di testi meno che mediocri e destinati a non lasciare traccia, ad eccezione ovviamente delle opere del Tasso ricordate per ben altri motivi. Manzoni chiude la descrizione della biblioteca con il settore che rappresenta il culmine della futilità, poiché la cavalleria è un campo del sapere che non aggiunge nulla alla scienza propriamente intesa o alla diffusione della cultura ed è solo l'espressione di quei privilegi assurdi cui i nobili sono gelosamente legati, fonte non di rado di soprusi e vessazioni a danno dei più deboli o addirittura di duelli dalle conseguenze sanguinose (l'esempio di padre Cristoforo e della sua gioventù è indicativo in questo senso, come anche la persecuzione di don Rodrigo ai danni di Lucia). La biblioteca di don Ferrante è dunque l'espressione più evidente della futilità della cultura del Seicento e ciò spiega l'impietosa ironia con cui l'autore bolla molti dei libri che essa ospita, oltre naturalmente al suo proprietario che finirà per essere egli stesso vittima delle sue assurde convinzioni e la cui "famosa libreria" finirà "dispersa su per i muriccioli", ovvero venduta sulle bancarelle: è forse questo l'aspetto del XVII secolo rispetto al quale c'è stato il maggior progresso al tempo del Manzoni, dal momento che la cultura italiana di inizio Ottocento si è ormai lasciata alle spalle i difetti propri della letteratura dei secoli passati, benché la tendenza alle discussioni sterili in campo letterario fosse ancora alquanto diffusa nell'epoca romantica in cui, se non altro, gli scrittori si occupavano di questioni di interesse politico e sociale di ben diverso spessore rispetto a quelle frivole dell'epoca barocca, anche se molto per Manzoni restava ancora da fare (specie in campo storiografico, dove egli avverte la necessità di spostare l'attenzione dai grandi eventi pubblici alle vicende dei popoli e degli umili). Da sottolineare, infine, che la descrizione della biblioteca chiude un capitolo in cui, nella parte centrale, è stato descritto il bizzarro carteggio tra Agnese e Renzo ed è stato messo l'accento sulla piaga dell'analfabetismo tra i popolani, che rappresenta la faccia opposta dell'arretratezza della cultura nel Seicento, anche se questo problema era ancora ben vivo e presente nel sec. XIX.
Clicca qui per ascoltare l'audio del capitolo dal sito www.liberliber.it
(voce narrante di Silvia Cecchini).
Capitolo XXVII
Già più d’una volta c’è occorso di far menzione della guerra che allora bolliva, per la successione agli stati del duca Vincenzo Gonzaga [1], secondo di quel nome; ma c’è occorso sempre in momenti di gran fretta: sicché non abbiam mai potuto darne più che un cenno alla sfuggita. Ora però, all’intelligenza del nostro racconto si richiede proprio d’averne qualche notizia più particolare. Son cose che chi conosce la storia le deve sapere; ma siccome, per un giusto sentimento di noi medesimi, dobbiam supporre che quest’opera non possa esser letta se non da ignoranti, così non sarà male che ne diciamo qui quanto basti per infarinarne chi n’avesse bisogno.
Abbiam detto che, alla morte di quel duca, il primo chiamato in linea di successione, Carlo Gonzaga, capo d’un ramo cadetto trapiantato in Francia, dove possedeva i ducati di Nevers e di Rhetel, era entrato al possesso di Mantova; e ora aggiungiamo, del Monferrato: che la fretta appunto ce l’aveva fatto lasciar nella penna. La corte di Madrid, che voleva a ogni patto (abbiam detto anche questo) escludere da que’ due feudi il nuovo principe, e per escluderlo aveva bisogno d’una ragione (perché le guerre fatte senza una ragione sarebbero ingiuste), s’era dichiarata sostenitrice di quella che pretendevano avere, su Mantova un altro Gonzaga, Ferrante, principe di Guastalla; sul Monferrato Carlo Emanuele I, duca di Savoia, e Margherita Gonzaga, duchessa vedova di Lorena. Don Gonzalo, ch’era della casa del gran capitano [3], e ne portava il nome, e che aveva già fatto la guerra in Fiandra [4], voglioso oltremodo di condurne una in Italia, era forse quello che faceva più fuoco, perché questa si dichiarasse; e intanto, interpretando l’intenzioni e precorrendo gli ordini della corte suddetta, aveva concluso col duca di Savoia un trattato d’invasione e di divisione del Monferrato; e n’aveva poi ottenuta facilmente la ratificazione dal conte duca, facendogli creder molto agevole l’acquisto di Casale, ch’era il punto più difeso della parte pattuita al re di Spagna. Protestava però, in nome di questo, di non volere occupar paese, se non a titolo di deposito, fino alla sentenza dell’imperatore [5]; il quale, in parte per gli ufizi altrui, in parte per suoi propri motivi, aveva intanto negata l’investitura al nuovo duca, e intimatogli che rilasciasse a lui in sequestro gli stati controversi: lui poi, sentite le parti, li rimetterebbe a chi fosse di dovere. Cosa alla quale il Nevers non s’era voluto piegare. Aveva anche lui amici d’importanza: il cardinale di Richelieu [6], i signori veneziani, e il papa, ch’era, come abbiam detto, Urbano VIII. Ma il primo, impegnato allora nell’assedio della Roccella e in una guerra con l’Inghilterra, attraversato dal partito della regina madre, Maria de’ Medici, contraria, per certi suoi motivi, alla casa di Nevers, non poteva dare che delle speranze. I veneziani non volevan moversi, e nemmeno dichiararsi, se prima un esercito francese non fosse calato in Italia; e, aiutando il duca sotto mano, come potevano, con la corte di Madrid e col governatore di Milano stavano sulle proteste, sulle proposte, sull’esortazioni, placide o minacciose, secondo i momenti. Il papa raccomandava il Nevers agli amici, intercedeva in suo favore presso gli avversari, faceva progetti d’accomodamento; di metter gente in campo non ne voleva saper nulla. Così i due alleati alle offese poterono, tanto più sicuramente, cominciar l’impresa concertata. Il duca di Savoia era entrato, dalla sua parte, nel Monferrato; don Gonzalo aveva messo, con gran voglia, l’assedio a Casale; ma non ci trovava tutta quella soddisfazione che s’era immaginato: che non credeste che nella guerra sia tutto rose. La corte non l’aiutava a seconda de’ suoi desidèri, anzi gli lasciava mancare i mezzi più necessari; l’alleato l’aiutava troppo: voglio dire che, dopo aver presa la sua porzione, andava spilluzzicando quella assegnata al re di Spagna. Don Gonzalo se ne rodeva quanto mai si possa dire; ma temendo, se faceva appena un po’ di rumore, che quel Carlo Emanuele, così attivo ne’ maneggi e mobile ne’ trattati, come prode nell’armi, si voltasse alla Francia, doveva chiudere un occhio, mandarla giù, e stare zitto. L’assedio poi andava male, in lungo, ogni tanto all’indietro, e per il contegno saldo, vigilante, risoluto degli assediati, e per aver lui poca gente, e, al dire di qualche storico, per i molti spropositi che faceva. Su questo noi lasciamo la verità a suo luogo, disposti anche, quando la cosa fosse realmente così, a trovarla bellissima, se fu cagione che in quell’impresa sia restato morto, smozzicato, storpiato qualche uomo di meno, e, ceteris paribus [7], anche soltanto un po’ meno danneggiati i tegoli di Casale. In questi frangenti ricevette la nuova della sedizione di Milano, e ci accorse in persona. Qui, nel ragguaglio che gli si diede, fu fatta anche menzione della fuga ribelle e clamorosa di Renzo, de’ fatti veri e supposti ch’erano stati cagione del suo arresto; e gli si seppe anche dire che questo tale s’era rifugiato sul territorio di Bergamo. Questa circostanza fermò l’attenzione di don Gonzalo. Era informato da tutt’altra parte, che a Venezia avevano alzata la cresta, per la sommossa di Milano; che da principio avevan creduto che sarebbe costretto a levar l’assedio da Casale, e pensavan tuttavia che ne fosse ancora sbalordito, e in gran pensiero: tanto più che, subito dopo quell’avvenimento, era arrivata la notizia, sospirata da que’ signori e temuta da lui, della resa della Roccella. E scottandogli molto, e come uomo e come politico, che que’ signori avessero un tal concetto de’ fatti suoi, spiava ogni occasione di persuaderli, per via d’induzione, che non aveva perso nulla dell’antica sicurezza; giacché il dire espressamente: non ho paura, è come non dir nulla. Un buon mezzo è di fare il disgustato, di querelarsi, di reclamare: e perciò, essendo venuto il residente di Venezia [8] a fargli un complimento, e ad esplorare insieme, nella sua faccia e nel suo contegno, come stesse dentro di sé (notate tutto; ché questa è politica di quella vecchia fine), don Gonzalo, dopo aver parlato del tumulto, leggermente e da uomo che ha già messo riparo a tutto; fece quel fracasso che sapete a proposito di Renzo; come sapete anche quel che ne venne in conseguenza. Dopo, non s’occupò più d’un affare così minuto e, in quanto a lui, terminato; e quando poi, che fu un pezzo dopo, gli arrivò la risposta, al campo sopra Casale, dov’era tornato, e dove aveva tutt’altri pensieri, alzò e dimenò la testa, come un baco da seta che cerchi la foglia; stette lì un momento, per farsi tornar vivo nella memoria quel fatto, di cui non ci rimaneva più che un’ombra; si rammentò della cosa, ebbe un’idea fugace e confusa del personaggio; passò ad altro, e non ci pensò più. Ma Renzo, il quale, da quel poco che gli s’era fatto veder per aria, doveva supporre tutt’altro che una così benigna noncuranza, stette un pezzo senz’altro pensiero o, per dir meglio, senz’altro studio [9], che di viver nascosto. Pensate se si struggeva di mandar le sue nuove alle donne, e d’aver le loro; ma c’eran due gran difficoltà. Una, che avrebbe dovuto anche lui confidarsi a un segretario, perché il poverino non sapeva scrivere, e neppur leggere, nel senso esteso della parola; e se, interrogato di ciò, come forse vi ricorderete, dal dottor Azzecca-garbugli, aveva risposto di sì, non fu un vanto, una sparata, come si dice; ma era la verità che lo stampato lo sapeva leggere, mettendoci il suo tempo: lo scritto è un altro par di maniche. Era dunque costretto a mettere un terzo a parte de’ suoi interessi, d’un segreto così geloso: e un uomo che sapesse tener la penna in mano, e di cui uno si potesse fidare, a que’ tempi non si trovava così facilmente; tanto più in un paese dove non s’avesse nessuna antica conoscenza. L’altra difficoltà era d’avere anche un corriere; un uomo che andasse appunto da quelle parti, che volesse incaricarsi della lettera, e darsi davvero il pensiero di recapitarla; tutte cose, anche queste, difficili a trovarsi in un uomo solo. Finalmente, cerca e ricerca, trovò chi scrivesse per lui. Ma, non sapendo se le donne fossero ancora a Monza, o dove, credé bene di fare accluder la lettera per Agnese in un’altra diretta al padre Cristoforo. Lo scrivano prese anche l’incarico di far recapitare il plico; lo consegnò a uno che doveva passare non lontano da Pescarenico; costui lo lasciò, con molte raccomandazioni, in un’osteria sulla strada, al punto più vicino; trattandosi che il plico era indirizzato a un convento, ci arrivò; ma cosa n’avvenisse dopo, non s’è mai saputo. Renzo, non vedendo comparir risposta, fece stendere un’altra lettera, a un di presso come la prima, e accluderla in un’altra a un suo amico di Lecco, o parente che fosse. Si cercò un altro latore, si trovò; questa volta la lettera arrivò a chi era diretta. Agnese trottò a Maggianico, se la fece leggere e spiegare da quell’Alessio suo cugino: concertò con lui una risposta, che questo mise in carta; si trovò il mezzo di mandarla ad Antonio Rivolta nel luogo del suo domicilio: tutto questo però non così presto come noi lo raccontiamo. Renzo ebbe la risposta, e fece riscrivere. In somma, s’avviò tra le due parti un carteggio, né rapido né regolare, ma pure, a balzi e ad intervalli, continuato. Ma per avere un’idea di quel carteggio, bisogna sapere un poco come andassero allora tali cose, anzi come vadano; perché, in questo particolare, credo che ci sia poco o nulla di cambiato. Il contadino che non sa scrivere, e che avrebbe bisogno di scrivere, si rivolge a uno che conosca quell’arte, scegliendolo, per quanto può, tra quelli della sua condizione, perché degli altri si perita [11], o si fida poco; l’informa, con più o meno ordine e chiarezza, degli antecedenti: e gli espone, nella stessa maniera, la cosa da mettere in carta. Il letterato, parte intende, parte frantende, dà qualche consiglio, propone qualche cambiamento, dice: lasciate fare a me; piglia la penna, mette come può in forma letteraria i pensieri dell’altro, li corregge, li migliora, carica la mano, oppure smorza, lascia anche fuori, secondo gli pare che torni meglio alla cosa: perché, non c’è rimedio, chi ne sa più degli altri non vuol essere strumento materiale nelle loro mani; e quando entra negli affari altrui, vuol anche fargli andare un po’ a modo suo. Con tutto ciò, al letterato suddetto non gli riesce sempre di dire tutto quel che vorrebbe; qualche volta gli accade di dire tutt’altro: accade anche a noi altri, che scriviamo per la stampa. Quando la lettera così composta arriva alle mani del corrispondente, che anche lui non abbia pratica dell’abbiccì, la porta a un altro dotto di quel calibro, il quale gliela legge e gliela spiega. Nascono delle questioni sul modo d’intendere; perché l’interessato, fondandosi sulla cognizione de’ fatti antecedenti, pretende che certe parole voglian dire una cosa; il lettore, stando alla pratica che ha della composizione, pretende che ne vogliano dire un’altra. Finalmente bisogna che chi non sa si metta nelle mani di chi sa, e dia a lui l’incarico della risposta: la quale, fatta sul gusto della proposta [12], va poi soggetta a un’interpretazione simile. Che se, per di più, il soggetto della corrispondenza è un po’ geloso; se c’entrano affari segreti, che non si vorrebbero lasciar capire a un terzo, caso mai che la lettera andasse persa; se, per questo riguardo, c’è stata anche l’intenzione positiva di non dir le cose affatto chiare; allora, per poco che la corrispondenza duri, le parti finiscono a intendersi tra di loro come altre volte due scolastici che da quattr’ore disputassero sull’entelechia [13]: per non prendere una similitudine da cose vive; che ci avesse poi a toccare qualche scappellotto. Ora, il caso de’ nostri due corrispondenti era appunto quello che abbiam detto. La prima lettera scritta in nome di Renzo conteneva molte materie. Da principio, oltre un racconto della fuga, molto più conciso, ma anche più arruffato di quello che avete letto, un ragguaglio delle sue circostanze attuali; dal quale, tanto Agnese quanto il suo turcimanno [14] furono ben lontani di ricavare un costrutto chiaro e intero: avviso segreto, cambiamento di nome, esser sicuro, ma dovere star nascosto; cose per sé non troppo famigliari a’ loro intelletti, e nella lettera dette anche un po’ in cifra. C’era poi delle domande affannose, appassionate, su’ casi di Lucia, con de’ cenni oscuri e dolenti, intorno alle voci che n’erano arrivate fino a Renzo. C’erano finalmente speranze incerte, e lontane, disegni lanciati nell’avvenire, e intanto promesse e preghiere di mantener la fede data, di non perder la pazienza né il coraggio, d’aspettar migliori circostanze. Dopo un po’ di tempo, Agnese trovò un mezzo fidato di far pervenire nelle mani di Renzo una risposta, co’ cinquanta scudi assegnatigli da Lucia. Al veder tant’oro, Renzo non sapeva cosa si pensare; e con l’animo agitato da una maraviglia e da una sospensione che non davan luogo a contentezza, corse in cerca del segretario, per farsi interpretar la lettera, e aver la chiave d’un così strano mistero. Nella lettera, il segretario d’Agnese, dopo qualche lamento sulla poca chiarezza della proposta, passava a descrivere, con chiarezza a un di presso uguale, la tremenda storia di quella persona (così diceva) [15]; e qui rendeva ragione de’ cinquanta scudi; poi veniva a parlar del voto, ma per via di perifrasi, aggiungendo, con parole più dirette e aperte, il consiglio di mettere il cuore in pace, e di non pensarci più. Renzo, poco mancò che non se la prendesse col lettore interprete: tremava, inorridiva, s’infuriava, di quel che aveva capito, e di quel che non aveva potuto capire. Tre o quattro volte si fece rileggere il terribile scritto, ora parendogli d’intender meglio, ora divenendogli buio ciò che prima gli era parso chiaro. E in quella febbre di passioni, volle che il segretario mettesse subito mano alla penna, e rispondesse. Dopo l’espressioni più forti che si possano immaginare di pietà e di terrore per i casi di Lucia, - scrivete, - proseguiva dettando, - che io il cuore in pace non lo voglio mettere, e non lo metterò mai; e che non son pareri da darsi a un figliuolo par mio; e che i danari non li toccherò; che li ripongo, e li tengo in deposito, per la dote della giovine; che già la giovine dev’esser mia; che io non so di promessa; e che ho ben sempre sentito dire che la Madonna c’entra per aiutare i tribolati, e per ottener delle grazie, ma per far dispetto e per mancar di parola, non l’ho sentito mai; e che codesto non può stare; e che, con questi danari, abbiamo a metter su casa qui; e che, se ora sono un po’ imbrogliato, l’è una burrasca che passerà presto -; e cose simili. Agnese ricevé poi quella lettera, e fece riscrivere; e il carteggio continuò, nella maniera che abbiam detto. Lucia, quando la madre ebbe potuto, non so per qual mezzo, farle sapere che quel tale era vivo e in salvo e avvertito, sentì un gran sollievo, e non desiderava più altro, se non che si dimenticasse di lei; o, per dir la cosa proprio a un puntino, che pensasse a dimenticarla. Dal canto suo, faceva cento volte al giorno una risoluzione simile riguardo a lui; e adoprava anche ogni mezzo, per mandarla ad effetto. Stava assidua al lavoro, cercava d’occuparsi tutta in quello: quando l’immagine di Renzo le si presentava, e lei a dire o a cantare orazioni a mente. Ma quell’immagine, proprio come se avesse avuto malizia, non veniva per lo più, così alla scoperta; s’introduceva di soppiatto dietro all’altre, in modo che la mente non s’accorgesse d’averla ricevuta, se non dopo qualche tempo che la c’era. Il pensiero di Lucia stava spesso con la madre: come non ci sarebbe stato? e il Renzo ideale veniva pian piano a mettersi in terzo, come il reale aveva fatto tante volte. Così con tutte le persone, in tutti i luoghi, in tutte le memorie del passato, colui si veniva a ficcare. E se la poverina si lasciava andar qualche volta a fantasticar sul suo avvenire, anche lì compariva colui, per dire, se non altro: io a buon conto non ci sarò. Però, se il non pensare a lui era impresa disperata, a pensarci meno, e meno intensamente che il cuore avrebbe voluto, Lucia ci riusciva fino a un certo segno: ci sarebbe anche riuscita meglio, se fosse stata sola a volerlo. Ma c’era donna Prassede, la quale, tutta impegnata dal canto suo a levarle dall’animo colui, non aveva trovato miglior espediente che di parlargliene spesso. - Ebbene? - le diceva: - non ci pensiam più a colui? - Io non penso a nessuno, - rispondeva Lucia. Donna Prassede non s’appagava d’una risposta simile; replicava che ci volevan fatti e non parole; si diffondeva a parlare sul costume delle giovani, le quali, diceva, - quando hanno nel cuore uno scapestrato (ed è lì che inclinano sempre), non se lo staccan più. Un partito onesto, ragionevole, d’un galantuomo, d’un uomo assestato, che, per qualche accidente, vada a monte, son subito rassegnate; ma un rompicollo, è piaga incurabile -. E allora principiava il panegirico [16] del povero assente, del birbante venuto a Milano, per rubare e scannare; e voleva far confessare a Lucia le bricconate che colui doveva aver fatte, sicuramente anche al suo paese. Lucia, con la voce tremante di vergogna, di dolore, e di quello sdegno che poteva aver luogo nel suo animo dolce e nella sua umile fortuna, assicurava e attestava, che, al suo paese, quel poveretto non aveva mai fatto parlar di sé, altro che in bene; avrebbe voluto, diceva, che fosse presente qualcheduno di là, per fargli far testimonianza. Anche sull’avventure di Milano, delle quali non era ben informata, lo difendeva, appunto con la cognizione che aveva di lui e de’ suoi portamenti fino dalla fanciullezza. Lo difendeva o si proponeva di difenderlo, per puro dovere di carità, per amore del vero, e, a dir proprio la parola con la quale spiegava a se stessa il suo sentimento, come prossimo. Ma da queste apologie donna Prassede ricavava nuovi argomenti per convincer Lucia, che il suo cuore era ancora perso dietro a colui. E per verità, in que’ momenti, non saprei ben dire come la cosa stesse. L’indegno ritratto che la vecchia faceva del poverino, risvegliava, per opposizione, più viva e più distinta che mai, nella mente della giovine l’idea che vi s’era formata in una così lunga consuetudine; le rimembranze compresse a forza, si svolgevano in folla; l’avversione e il disprezzo richiamavano tanti antichi motivi di stima; l’odio cieco e violento faceva sorger più forte la pietà: e con questi affetti, chi sa quanto ci potesse essere o non essere di quell’altro che dietro ad essi s’introduce così facilmente negli animi; figuriamoci cosa farà in quelli, donde si tratti di scacciarlo per forza. Sia come si sia, il discorso, per la parte di Lucia, non sarebbe mai andato molto in lungo; ché le parole finivan presto in pianto. Se donna Prassede fosse stata spinta a trattarla in quella maniera da qualche odio inveterato contro di lei, forse quelle lacrime l’avrebbero, tocca e fatta smettere; ma parlando a fin di bene, tirava avanti, senza lasciarsi smovere: come i gemiti, i gridi supplichevoli, potranno ben trattenere l’arme d’un nemico, ma non il ferro d’un chirurgo. Fatto però bene il suo dovere per quella volta, dalle stoccate e da’ rabbuffi veniva all’esortazioni, ai consigli, conditi anche di qualche lode, per temperar così l’agro col dolce, e ottener meglio l’effetto, operando sull’animo in tutti i versi. Certo, di quelle baruffe (che avevan sempre a un di presso lo stesso principio, mezzo e fine), non rimaneva alla buona Lucia propriamente astio contro l’acerba predicatrice, la quale poi nel resto la trattava con gran dolcezza; e anche in questo, si vedeva una buona intenzione. Le rimaneva bensì un ribollimento, una sollevazione di pensieri e d’affetti tale, che ci voleva molto tempo e molta fatica per tornare a quella qualunque calma di prima. Buon per lei, che non era la sola a cui donna Prassede avesse a far del bene; sicché le baruffe non potevano esser così frequenti. Oltre il resto della servitù, tutti cervelli che avevan bisogno, più o meno, d’esser raddirizzati e guidati; oltre tutte l’altre occasioni di prestar lo stesso ufizio, per buon cuore, a molti con cui non era obbligata a niente: occasioni che cercava, se non s’offrivan da sé; aveva anche cinque figlie; nessuna in casa, ma che le davan più da pensare, che se ci fossero state. Tre eran monache, due maritate; e donna Prassede si trovava naturalmente aver tre monasteri e due case a cui soprintendere: impresa vasta e complicata, e tanto più faticosa, che due mariti, spalleggiati da padri, da madri, da fratelli, e tre badesse, fiancheggiate da altre dignità e da molte monache, non volevano accettare la sua soprintendenza. Era una guerra, anzi cinque guerre, coperte, gentili, fino a un certo segno, ma vive e senza tregua: era in tutti que’ luoghi un’attenzione continua a scansare la sua premura, a chiuder l’adito a’ suoi pareri, a eludere le sue richieste, a far che fosse al buio, più che si poteva, d’ogni affare. Non parlo de’ contrasti, delle difficoltà che incontrava nel maneggio d’altri affari anche più estranei: si sa che agli uomini il bene bisogna, le più volte, farlo per forza. Dove il suo zelo poteva esercitarsi liberamente, era in casa: lì ogni persona era soggetta, in tutto e per tutto, alla sua autorità, fuorché don Ferrante, col quale le cose andavano in un modo affatto particolare. Uomo di studio, non gli piaceva né di comandare né d’ubbidire. Che, in tutte le cose di casa, la signora moglie fosse la padrona, alla buon’ora [17]; ma lui servo, no. E se, pregato, le prestava a un’occorrenza l’ufizio della penna, era perché ci aveva il suo genio; del rimanente, anche in questo sapeva dir di no, quando non fosse persuaso di ciò che lei voleva fargli scrivere. - La s’ingegni, - diceva in que’ casi; - faccia da sé, giacché la cosa le par tanto chiara -. Donna Prassede, dopo aver tentato per qualche tempo, e inutilmente, di tirarlo dal lasciar fare al fare, s’era ristretta a brontolare spesso contro di lui, a nominarlo uno schivafatiche, un uomo fisso nelle sue idee, un letterato; titolo nel quale, insieme con la stizza, c’entrava anche un po’ di compiacenza. Don Ferrante passava di grand’ore nel suo studio, dove aveva una raccolta di libri considerabile, poco meno di trecento volumi: tutta roba scelta, tutte opere delle più riputate, in varie materie; in ognuna delle quali era più o meno versato. Nell’astrologia, era tenuto, e con ragione, per più che un dilettante; perché non ne possedeva soltanto quelle nozioni generiche, e quel vocabolario comune, d’influssi, d’aspetti, di congiunzioni; ma sapeva parlare a proposito, e come dalla cattedra, delle dodici case del cielo, de’ circoli massimi, de’ gradi lucidi e tenebrosi, d’esaltazione e di deiezione, di transiti e di rivoluzioni, de’ princìpi in somma più certi e più reconditi della scienza [18]. Ed eran forse vent’anni che, in dispute frequenti e lunghe, sosteneva la domificazione del Cardano contro un altro dotto attaccato ferocemente a quella dell’Alcabizio, per mera ostinazione, diceva don Ferrante; il quale, riconoscendo volentieri la superiorità degli antichi, non poteva però soffrire quel non voler dar ragione a’ moderni, anche dove l’hanno chiara che la vedrebbe ognuno [19]. Conosceva anche, più che mediocremente, la storia della scienza; sapeva a un bisogno citare le più celebri predizioni avverate, e ragionar sottilmente ed eruditamente sopra altre celebri predizioni andate a vòto, per dimostrar che la colpa non era della scienza, ma di chi non l’aveva saputa adoprar bene. Della filosofia antica aveva imparato quanto poteva bastare, e n’andava di continuo imparando di più, dalla lettura di Diogene Laerzio [20]. Siccome però que’ sistemi, per quanto sian belli, non si può adottarli tutti; e, a voler esser filosofo, bisogna scegliere un autore, così don Ferrante aveva scelto Aristotile, il quale, come diceva lui, non è né antico né moderno; è il filosofo. Aveva anche varie opere de’ più savi e sottili seguaci di lui, tra i moderni: quelle de’ suoi impugnatori [21] non aveva mai voluto leggerle, per non buttar via il tempo, diceva; né comprarle, per non buttar via i danari. Per eccezione però, dava luogo nella sua libreria a que’ celebri ventidue libri De subtilitate, e a qualche altr’opera antiperipatetica del Cardano, in grazia del suo valore in astrologia; dicendo che chi aveva potuto scrivere il trattato De restitutione temporum et motuum coelestium, e il libro Duodecim geniturarum, meritava d’essere ascoltato, anche quando spropositava [21]; e che il gran difetto di quell’uomo era stato d’aver troppo ingegno; e che nessuno si può immaginare dove sarebbe arrivato, anche in filosofia, se fosse stato sempre nella strada retta. Del rimanente, quantunque, nel giudizio de’ dotti, don Ferrante passasse per un peripatetico consumato, non ostante a lui non pareva di saperne abbastanza; e più d’una volta disse, con gran modestia, che l’essenza, gli universali, l’anima del mondo, e la natura delle cose non eran cose tanto chiare, quanto si potrebbe credere. Della filosofia naturale s’era fatto più un passatempo che uno studio; l’opere stesse d’Aristotile su questa materia, e quelle di Plinio le aveva piuttosto lette che studiate: non di meno, con questa lettura, con le notizie raccolte incidentemente da’ trattati di filosofia generale, con qualche scorsa data alla Magia naturale del Porta, alle tre storie lapidum, animalium, plantarum, del Cardano, al Trattato dell’erbe, delle piante, degli animali, d’Alberto Magno, a qualche altr’opera di minor conto, sapeva a tempo trattenere una conversazione ragionando delle virtù più mirabili e delle curiosità più singolari di molti semplici; descrivendo esattamente le forme e l’abitudini delle sirene e dell’unica fenice; spiegando come la salamandra stia nel fuoco senza bruciare: come la remora, quel pesciolino, abbia la forza e l’abilità di fermare di punto in bianco, in alto mare, qualunque gran nave; come le gocciole della rugiada diventin perle in seno delle conchiglie; come il cameleonte si cibi d’aria; come dal ghiaccio lentamente indurato, con l’andar de’ secoli, si formi il cristallo; e altri de’ più maravigliosi segreti della natura [22]. In quelli della magia e della stregoneria s’era internato di più, trattandosi, dice il nostro anonimo, di scienza molto più in voga e più necessaria, e nella quale i fatti sono di molto maggiore importanza, e più a mano, da poterli verificare. Non c’è bisogno di dire che, in un tale studio, non aveva mai avuta altra mira che d’istruirsi e di conoscere a fondo le pessime arti de’ maliardi [23], per potersene guardare, e difendere. E, con la scorta principalmente del gran Martino Delrio (l’uomo della scienza), era in grado di discorrere ex professo del maleficio amatorio, del maleficio sonnifero, del maleficio ostile, e dell’infinite specie che, pur troppo, dice ancora l’anonimo, si vedono in pratica alla giornata, di questi tre generi capitali di malìe, con effetti così dolorosi [24]. Ugualmente vaste e fondate eran le cognizioni di don Ferrante in fatto di storia, specialmente universale: nella quale i suoi autori erano il Tarcagnota, il Dolce, il Bugatti, il Campana, il Guazzo, i più riputati in somma [25]. Ma cos’è mai la storia, diceva spesso don Ferrante, senza la politica? Una guida che cammina, cammina, con nessuno dietro che impari la strada, e per conseguenza butta via i suoi passi; come la politica senza la storia è uno che cammina senza guida. C’era dunque ne’ suoi scaffali un palchetto assegnato agli statisti; dove, tra molti di piccola mole, e di fama secondaria, spiccavano il Bodino, il Cavalcanti, il Sansovino, il Paruta, il Boccalini [26]. Due però erano i libri che don Ferrante anteponeva a tutti, e di gran lunga, in questa materia; due che, fino a un certo tempo, fu solito di chiamare i primi, senza mai potersi risolvere a qual de’ due convenisse unicamente quel grado: l’uno, il Principe e i Discorsi del celebre segretario fiorentino; mariolo sì, diceva don Ferrante, ma profondo: l’altro, la Ragion di Stato del non men celebre Giovanni Botero; galantuomo sì, diceva pure, ma acuto [27]. Ma, poco prima del tempo nel quale è circoscritta la nostra storia, era venuto fuori il libro che terminò la questione del primato, passando avanti anche all’opere di que’ due matadori, diceva don Ferrante; il libro in cui si trovan racchiuse e come stillate tutte le malizie, per poterle conoscere, e tutte le virtù, per poterle praticare; quel libro piccino, ma tutto d’oro; in una parola, lo Statista Regnante di don Valeriano Castiglione [28], di quell’uomo celeberrimo, di cui si può dire, che i più gran letterati lo esaltavano a gara, e i più gran personaggi facevano a rubarselo; di quell’uomo, che il papa Urbano VIII onorò, come è noto, di magnifiche lodi; che il cardinal Borghese e il vicerè di Napoli, don Pietro di Toledo, sollecitarono a descrivere, il primo i fatti di papa Paolo V, l’altro le guerre del re cattolico in Italia, l’uno e l’altro invano; di quell’uomo, che Luigi XIII, re di Francia, per suggerimento del cardinal di Richelieu, nominò suo istoriografo; a cui il duca Carlo Emanuele di Savoia conferì la stessa carica; in lode di cui, per tralasciare altre gloriose testimonianze, la duchessa Cristina, figlia del cristianissimo re Enrico IV, poté in un diploma, con molti altri titoli, annoverare “la certezza della fama ch’egli ottiene in Italia, di primo scrittore de’ nostri tempi”. Ma se, in tutte le scienze suddette, don Ferrante poteva dirsi addottrinato, una ce n’era in cui meritava e godeva il titolo di professore: la scienza cavalleresca. Non solo ne ragionava con vero possesso, ma pregato frequentemente d’intervenire in affari d’onore, dava sempre qualche decisione. Aveva nella sua libreria, e si può dire in testa, le opere degli scrittori più riputati in tal materia: Paride dal Pozzo, Fausto da Longiano, l’Urrea, il Muzio, il Romei, l’Albergato, il Forno primo e il Forno secondo di Torquato Tasso, di cui aveva anche in pronto, e a un bisogno sapeva citare a memoria tutti i passi così della Gerusalemme Liberata, come della Conquistata, che possono far testo in materia di cavalleria. L’autore però degli autori, nel suo concetto, era il nostro celebre Francesco Birago, con cui si trovò anche, più d’una volta, a dar giudizio sopra casi d’onore; e il quale, dal canto suo, parlava di don Ferrante in termini di stima particolare. E fin da quando venner fuori i Discorsi Cavallereschi di quell’insigne scrittore, don Ferrante pronosticò, senza esitazione, che quest’opera avrebbe rovinata l’autorità dell’Olevano, e sarebbe rimasta, insieme con l’altre sue nobili sorelle, come codice di primaria autorità presso ai posteri: profezia, dice l’anonimo, che ognun può vedere come si sia avverata [29]. Da questo passa poi alle lettere amene; ma noi cominciamo a dubitare se veramente il lettore abbia una gran voglia d’andar avanti con lui in questa rassegna, anzi a temere di non aver già buscato il titolo di copiator servile per noi, e quello di seccatore da dividersi con l’anonimo sullodato, per averlo bonariamente seguito fin qui, in cosa estranea al racconto principale, e nella quale probabilmente non s’è tanto disteso, che per isfoggiar dottrina, e far vedere che non era indietro del suo secolo. Però, lasciando scritto quel che è scritto, per non perder la nostra fatica, ometteremo il rimanente, per rimetterci in istrada: tanto più che ne abbiamo un bel pezzo da percorrere, senza incontrare alcun de’ nostri personaggi, e uno più lungo ancora, prima di trovar quelli ai fatti de’ quali certamente il lettore s’interessa di più, se a qualche cosa s’interessa in tutto questo. Fino all’autunno del seguente anno 1629, rimasero tutti, chi per volontà, chi per forza, nello stato a un di presso in cui gli abbiam lasciati, senza che ad alcuno accadesse, né che alcun altro potesse far cosa degna d’esser riferita. Venne l’autunno, in cui Agnese e Lucia avevan fatto conto di ritrovarsi insieme: ma un grande avvenimento pubblico mandò quel conto all’aria: e fu questo certamente uno de’ suoi più piccoli effetti. Seguiron poi altri grandi avvenimenti, che pero non portarono nessun cambiamento notabile nella sorte de’ nostri personaggi. Finalmente nuovi casi, più generali, più forti, più estremi, arrivarono anche fino a loro, fino agli infimi di loro, secondo la scala del mondo: come un turbine vasto, incalzante, vagabondo, scoscendendo e sbarbando alberi, arruffando tetti, scoprendo campanili, abbattendo muraglie, e sbattendone qua e là i rottami, solleva anche i fuscelli nascosti tra l’erba, va a cercare negli angoli le foglie passe e leggieri, che un minor vento vi aveva confinate, e le porta in giro involte nella sua rapina. Ora, perché i fatti privati che ci rimangon da raccontare, riescan chiari, dobbiamo assolutamente premettere un racconto alla meglio di quei pubblici, prendendola anche un po’ da lontano. |
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Note
- Vincenzo II Gonzaga, duca di Mantova e del Monferrato, morì nel 1627 senza lasciare figli.
- Carlo Gonzaga, figlio di Luigi, aveva sposato Enrichetta di Clèves che gli aveva portato in dote il ducato di Nevers.
- Don Gonzalo discendeva in effetti dall'onomimo Gonzalo de Cordoba (1453-1515) che sconfisse i Mori a Granada nel 1492 e conquistò per la Spagna il Regno di Napoli; era detto "gran capitan" per i meriti acquisiti nell'esercito spagnolo.
- Si tratta della guerra combattuta dagli Spagnoli contro i protestanti dei Paesi Bassi.
- L'imperatore Ferdinando II d'Asburgo (1578-1637), di cui Mantova era feudo.
- Primo ministro del re di Francia Luigi XIII, allora sotto la reggenza della madre Maria de' Medici (vedova di re Enrico IV, assassinato nel 1610), nel 1628 era impegnato nell'assedio del porto di La Rochelle, piazzaforte degli Ugonotti che cadde il 25 ott. di quello stesso anno dopo tredici mesi di resistenza; la regina madre lo avversava per ragioni politiche (attraversato significa "ostacolato").
- Espressione latina che vuol dire "a parità di condizioni".
- Si tratta del rappresentante diplomatico della Repubblica a Milano, già citato nel cap. XXVI.
- Senza altra preoccupazione.
- Si tratta di Alessio di Maggianico, già indicato da Agnese nel cap. precedente quale uomo fidato e in grado di leggere e scrivere.
- Si vergogna.
- Scritta allo stesso modo della prima lettera ricevuta.
- Come due filosofi esponenti della Scolastica (la filosofia cristiana nata nel XIII sec. dalla speculazione di S. Tommaso d'Aquino e basata in gran parte sull'aristotelismo) che discutano dell'entelechìa, ovvero lo stato di perfetta attuazione raggiunto dalla sostanza in contrapposizione a "potenza" (si tratta di una questione alquanto astrusa e complessa, qui citata dall'autore in modo ironico come la probabile allusione successiva alle discussioni interne al Romanticismo).
- Interprete (è parola di origine araba).
- Lucia.
- Il discorso di elogio, detto con evidente ironia.
- Va bene, sia pure (francesismo).
- Le dodici case del cielo sono le dodici parti in cui gli astrologi avevano suddiviso la volta celeste, per individuare la posizione degli astri; i gradi lucidi sono le divisioni delle orbite percorse dal sole; i gradi tenebrosi sono le divisioni delle orbite dei pianeti visibili di notte; il grado di esaltazione corrisponde alla massima altezza di un astro sull'orizzonte, quello di deiezione alla posizione più bassa; i transiti sono i passaggi degli astri nella volta celeste e le rivoluzioni sono i movimenti compiuti da un astro intorno a un altro. Inutile dire che la visione cosmologica di don Ferrante è di tipo aristotelico-tolemaico, quindi geocentrica.
- La domificazione è il sistema di suddivisione del cielo in case, materia nella quale erano famose le teorie di Girolamo Cardano (1501-1576), scrittore pavese le cui opere sono piene di fantasie bizzarre. Alcabizio è invece un astrologo arabo del X sec., la cui opera astrologica era stata tradotta in latino da Giovanni da Siviglia. L'autore accenna ironicamente alle dispute, frequenti nel Seicento, circa la superiorità degli antichi o dei moderni (don Ferrante, tipico letterato della sua epoca, è portato piuttosto a sostentere quella degli autori moderni).
- Diogene Laerzio fu uno storico greco del III sec. d.C., autore di una raccolta di vite e dottrine dei principali filosofi antichi.
- Il Cardano è considerato uno degli impugnatori (detrattori, oppositori) di Aristotele in quanto scrisse alcune opere considerate anti-peripatetiche ("peripatetici" erano detti i seguaci dell'aristotelismo, dal gr. peripatè, "passeggio", in quanto gli antichi discepoli del filosofo passeggiavano sotto i portici del Liceo di Atene). Tra queste vengono citate il De subtilitate, una specie di opera enciclopedica, il De restitutione temporum et motuum coelestium ("Sul ricalcolo delle stagioni e dei moti degli astri") e il Duodecim geniturarum liber ("Libro delle dodici nascite"), commento astrologico alla nascita di dodici illustri personaggi. La strada retta allude all'aristotelismo avversato dal Cardano.
- Plinio il Vecchio (23-76 d.C.) è autore della Naturalis historia, opera enciclopedica in 37 libri che descrive ogni aspetto dello scibile e fornisce ampie notizie sul mondo naturale, molte delle quali del tutto fantasiose. G.B. Della Porta (1535-1615), napoletano, è autore di un trattato in 20 libri sulla magia naturale e le meraviglie della natura, mentre il Cardano ha scritto tre libri "Delle pietre, degli animali e delle piante", che è più o meno lo stesso titolo del trattato di Alberto Magno (1193-1280), il filosofo medievale che fu maestro di S. Tommaso d'Aquino. Le credenze sostenute da don Ferrante si rifanno a leggende ben note nell'antichità, nessuna delle quali ovviamente di carattere scientifico (la convinzione che il cristallo nascesse dal ghiaccio nei paesi nordici durò per tutto il Medio Evo e fu sfatata solo alle soglie dell'epoca moderna).
- Gli incantatori malefici, cultori di magia nera.
- Martino Delrio (1551-1608), nativo di Anversa, compose i Disquisitionum magicarum libri VI ("Sei libri di disquisizioni magiche"), ritenuta fondamentale in materia di stregoneria, tanto che don Ferrante ne discute ex professo, da uomo dotto.
- Giovanni Tarcagnota scrisse Dell'istorie del mondo, opera confusa sulla storia universale ripresa poi da Cesare Campana (morto nel 1616); Ludovico Dolce (1508-1569) tradusse le Historie di G. Gonara, dall'inizio del mondo fino all'imperatore Alessio Comneno; Gaspare Bugatti (XVI sec.) fu autore di una Istoria universale dal principio del mondo al 1569; Marco Guazzo (1496-1556) scrisse una cronaca dall'inizio del mondo sino ai suoi tempi. Sono tutti autori mediocri, la cui opera è stata dimenticata nei secoli successivi, ma che godevano di gran fama nel Seicento.
- Il francese Jean Bodin (1530-1596) scrisse Six livres de la République; Bartolomeo Cavalcanti (1503-1562), fiorentino, pubblicò Degli ottimi reggimenti delle repubbliche antiche e moderne; Francesco Sansovino (1521-1586), romano, scrisse Del governo dei regni e delle repubbliche antiche e moderne; Paolo Paruta (1540-1598), di Venezia, fu autore di tre libri Della perfezione della vita politica; Traiano Boccalini (1556-1613), di Loreto, scrisse la Pietra del paragone politico e i Ragguagli di Parnaso, operetta satirica con intenti storici e politici (quest'ultimo era molto noto e in voga in Italia nel XVII sec.).
- Niccolò Machiavelli (1496-1527), autore tra le altre cose del Principe e dei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, è il principale autore di politica del Rinascimento, mentre il piemontese Giovanni Botero (1540-1617) scrisse la Ragion di stato, trattato con cui si opponeva in parte alle dottrine del Segretario fiorentino. Entrambi erano noti e apprezzati nel Seicento, anche se l'opera di Machiavelli era spesso fraintesa o rielaborata, per cui don Ferrante li considera due matadori, ovvero i due massimi maestri (cfr. l'italiano moderno "mattatori").
- Valeriano Castiglione (1593-1663), monaco benedettino milanese, fu autore di un mediocre libro in 50 capitoli intitolato appunto Lo statista regnante applicato al governo del duca Carlo Emanuele I, oggi praticamente dimenticato, ma all'epoca di don Ferrante esaltato e preferito addirittura al Principe di Machiavelli: l'elenco dei riconoscimenti ottenuti dal Castiglione dimostra il carattere vacuo della cultura secentesca, in cui spesso gli autori moderni venivano celebrati a danno degli antichi senza dar peso al loro effettivo valore.
- Gli autori citati erano in effetti delle autorità in materia cavalleresca nel XVII sec.: sono tutti autori di trattati di cavalleria, mentre ovviamente il poeta sorrentino Torquato Tasso (1544-1595) è oggi ricordato più per la Gerusalemme liberata che non per i due dialoghi intitolati ad Antonio Forno, anche se tutti i suoi scritti erano ritenuti nel Seicento fondamentali nelle dispute di cavalleria (il Tasso viene citato anche dal podestà nella discussione col conte Attilio, nel cap. V). Il milanese F. Birago (1562-1640) scrisse i Consigli cavallereschi (non i Discorsi, come erroneamente riportato dall'autore) e viene detto ironicamente che la sua opera avrebbe oscurato quella di G. B. Olevano, autore nel XVII sec. di un trattato cavalleresco (entrambi erano autori assai mediocri e ai tempi di Manzoni erano stati dimenticati).