Conte di Carmagnola
F. Hayez, Il conte di Carmagnola (acquerello)
È una tragedia scritta da Manzoni nel periodo 1816-1820, ambientata nell'Italia del XV secolo e avente come protagonista Francesco di Bartolomeo Bussone, conte di Carmagnola e capitano di ventura al servizio prima dei Milanesi e poi di Venezia: nella tragedia si narra della battaglia di Maclodio (1427) vinta dai Veneziani grazie all'abilità militare del Carmagnola, il quale in seguito libera alcuni prigionieri milanesi in accordo con il diritto di guerra (il suo gesto, ispirato da umana pietà, viene tuttavia interpretato dal senato veneziano come un tradimento, anche perché l'uomo era stato in precedenza al servizio dei nemici milanesi e la moglie Antonietta è imparentata col duca di Milano, Filippo Maria Visconti). Il Carmagnola è dunque imprigionato e condannato a morte per tradimento, vittima di oscuri intrighi politici (il presunto tradimento è il pretesto con cui il senato di Venezia vuole liberarsi di un personaggio troppo potente e scomodo) e alla fine, pur proclamandosi innocente, l'uomo perdona i suoi aguzzini e affronta la morte con la consolazione che gli deriva dalla fede cristiana, in modo dunque assai diverso dal tipico comportamento dell'eroe tragico.
La vicenda personale del Carmagnola è per Manzoni esemplare della parabola di un uomo che giunge a un alto grado di potere e in seguito cade in disgrazia, trovando infine conforto nella religione e nella fede cristiana (in modo analogo, dunque, alla figura di Napoleone nel Cinque maggio): l'autore è convinto dell'innocenza storica del Bussone e la sua storia è un mezzo per affrontare il tema del contrasto insanabile tra morale cristiana e ragion di Stato, questione al centro anche della successiva tragedia Adelchi e di molti episodi del romanzo. Nella vicenda è presente anche un personaggio di fantasia, il senatore veneziano Marco che, pur essendo fedele amico del protagonista, alla fine lo tradisce e si sottomette riluttante alla logica spietata del potere, non rivelando al Bussone la trama che lo porterà alla prigionia e alla morte.
Nel testo, scritto in endecasillabi sciolti in ossequio alla tradizione della tragedia alfieriana e settecentesca, è presente l'elemento di novità rappresentato dal Coro, ovvero un brano poetico alla fine dell'Atto III separato dalle parti recitate, in cui l'autore descrive la battaglia fratricida di Maclodio (sono ottave di versi decasillabi, forma metrica analoga all'ode Marzo 1821): ciò sarà oggetto delle critiche negative alla tragedia da parte dello studioso francese Victor Chauvet, unitamente al fatto che Manzoni non rispetta le cosiddette tre unità aristoteliche e in particolare quelle di luogo e tempo, in quanto la vicenda si snoda nell'arco di vari mesi. L'autore risponderà con la famosa Lettera al Signor C.*** pubblicata nel 1823, in cui riprende alcune considerazioni già esposte nella Prefazione alla stessa tragedia e che si possono riassumere in questi punti: egli respinge le cosiddette unità aristoteliche in quanto, a suo dire, non hanno un reale fondamento nella Poetica di Aristotele e costringono lo scrittore a concentrare le vicende narrate in un tempo troppo breve (è già evidente il respiro "romanzesco" che Manzoni intende dare alla narrazione, preludio alle successive scelte letterarie); afferma che è possibile conciliare storia e invenzione, creando un dramma moralmente accettabile e interessante per il lettore; difende la scelta di introdurre nella tragedia il Coro, definito come il "cantuccio" riservato al poeta in cui egli può esporre le sue personali considerazioni sulle vicende rappresentate (il che prefigura le frequenti digressioni inserite poi nel romanzo). La tragedia è significativa anche perché da essa emerge quell'interesse crescente per la storia che sempre più ampio spazio troverà nella riflessione letteraria di Manzoni e che di lì a pochi anni si concretizzerà nella stesura del romanzo, accanto all'opera storiografica che dopo i Promessi sposi diventerà preminente nell'attività dello scrittore.
La vicenda personale del Carmagnola è per Manzoni esemplare della parabola di un uomo che giunge a un alto grado di potere e in seguito cade in disgrazia, trovando infine conforto nella religione e nella fede cristiana (in modo analogo, dunque, alla figura di Napoleone nel Cinque maggio): l'autore è convinto dell'innocenza storica del Bussone e la sua storia è un mezzo per affrontare il tema del contrasto insanabile tra morale cristiana e ragion di Stato, questione al centro anche della successiva tragedia Adelchi e di molti episodi del romanzo. Nella vicenda è presente anche un personaggio di fantasia, il senatore veneziano Marco che, pur essendo fedele amico del protagonista, alla fine lo tradisce e si sottomette riluttante alla logica spietata del potere, non rivelando al Bussone la trama che lo porterà alla prigionia e alla morte.
Nel testo, scritto in endecasillabi sciolti in ossequio alla tradizione della tragedia alfieriana e settecentesca, è presente l'elemento di novità rappresentato dal Coro, ovvero un brano poetico alla fine dell'Atto III separato dalle parti recitate, in cui l'autore descrive la battaglia fratricida di Maclodio (sono ottave di versi decasillabi, forma metrica analoga all'ode Marzo 1821): ciò sarà oggetto delle critiche negative alla tragedia da parte dello studioso francese Victor Chauvet, unitamente al fatto che Manzoni non rispetta le cosiddette tre unità aristoteliche e in particolare quelle di luogo e tempo, in quanto la vicenda si snoda nell'arco di vari mesi. L'autore risponderà con la famosa Lettera al Signor C.*** pubblicata nel 1823, in cui riprende alcune considerazioni già esposte nella Prefazione alla stessa tragedia e che si possono riassumere in questi punti: egli respinge le cosiddette unità aristoteliche in quanto, a suo dire, non hanno un reale fondamento nella Poetica di Aristotele e costringono lo scrittore a concentrare le vicende narrate in un tempo troppo breve (è già evidente il respiro "romanzesco" che Manzoni intende dare alla narrazione, preludio alle successive scelte letterarie); afferma che è possibile conciliare storia e invenzione, creando un dramma moralmente accettabile e interessante per il lettore; difende la scelta di introdurre nella tragedia il Coro, definito come il "cantuccio" riservato al poeta in cui egli può esporre le sue personali considerazioni sulle vicende rappresentate (il che prefigura le frequenti digressioni inserite poi nel romanzo). La tragedia è significativa anche perché da essa emerge quell'interesse crescente per la storia che sempre più ampio spazio troverà nella riflessione letteraria di Manzoni e che di lì a pochi anni si concretizzerà nella stesura del romanzo, accanto all'opera storiografica che dopo i Promessi sposi diventerà preminente nell'attività dello scrittore.