La guerra di successione di Mantova e del Monferrato
Ritratto di Carlo Gonzaga-Nevers (XVII sec.)
È il conflitto in atto all'epoca delle vicende del romanzo (1628-1631), causa non secondaria della terribile carestia che affligge il Milanese e della calata dei lanzichenecchi che porteranno il contagio della peste: storicamente la guerra iniziò con la morte senza eredi diretti di Vincenzo II Gonzaga, duca di Mantova e del Monferrato, i cui possessi vennero contesi tra Carlo Gonzaga di Nevers, sostenuto dalla Francia di Richelieu, e Ferrante Gonzaga duca di Guastalla, sostenuto dalla Spagna. In seguito entrarono nel conflitto anche Carlo Emanuele I di Savoia e l'imperatore Ferdinando II d'Asburgo al fianco della Spagna, mentre Venezia e il papa Urbano VIII sostenevano la Francia. Le truppe spagnole cinsero d'assedio la fortezza di Casale e il successivo diretto intervento della Francia causò la discesa in Lombardia delle truppe del generale boemo Albrecht von Wallenstein, che si abbandonarono a saccheggi e portarono nel Milanese la peste. La guerra si concluse con un trattato di pace che riconobbe legittimo successore al ducato Carlo di Nevers, il quale si insediò formalmente nel 1631 pur essendo costretto a fare diverse concessioni territoriali ai Savoia e ai Gonzaga di Guastalla, nonché a ricorrere all'aiuto economico di Venezia dato lo stato di estrema povertà in cui versava la città di Mantova a causa della guerra.
Il conflitto è citato per la prima volta nel cap. V durante il banchetto al palazzotto di don Rodrigo, quando quest'ultimo afferma di aver sentito dire che "a Milano correvano voci d'accomodamento" (il signorotto allude a trattative di pace allora promosse dal pontefice per scongiurare il conflitto, poi fallite). Si riaccende una discussione tra il conte Attilio e il podestà, il quale sostiene che la Spagna avrà la meglio in questa contesa internazionale e si lancia in uno sconclusionato elogio del primo ministro di Filippo IV, il conte-duca Olivares, non essendo contraddetto da Attilio cui il cugino ha lanciato uno sguardo d'intesa (la Spagna alla fine sarà sconfitta e dunque tutte le previsioni del podestà saranno sconfessate). L'autore torna a parlare della guerra nel cap. XII, quando spiega le ragioni della carestia e ne attribuisce una buona parte al "guasto" e allo "sperperìo" di questo conflitto, dal momento che ai proprietari terrieri venivano imposte tasse esorbitanti per le necessità belliche e, soprattutto, le soldatesche depredavano i raccolti già scarsi per la cattiva stagione: emerge chiaramente la condanna da parte del romanziere di una guerra nata da assurde contese dinastiche e da questioni di politica internazionale, che tuttavia produce gravi conseguenze sulla vita delle popolazioni umili e ne peggiora la già precaria esistenza (il governatore dello Stato di Milano, don Gonzalo, è impegnato nell'assedio di Casale e non ha tempo per dedicarsi al problema della penuria di grano, avallando di fatto gli assurdi provvedimenti presi in merito dal gran cancelliere Ferrer che lo sostituisce). In seguito lo stesso governatore (XXVII) tornerà di corsa a Milano dopo il tumulto del giorno di S. Martino e si lamenterà col residente di Venezia per l'asilo offerto al fuggiasco Renzo, al solo scopo di esercitare pressioni su uno Stato alleato dei Francesi e non far trasparire le difficoltà incontrate nell'assedio di Casale, che sta andando per le lunghe.
L'autore torna poi a parlare della guerra nel corso del cap. XXVIII, in appendice all'ampia digressione dedicata all'inasprirsi della carestia, per dire che in seguito alla presa della rocca della Rochelle il card. Richelieu aveva portato le truppe francesi in Italia, causando il ritiro di quelle spagnole di don Gonzalo da Casale e lasciando poi una guarnigione al passo di Susa, salvo ritirarsi proprio quando le soldatesche dell'imperatore si apprestavano a entrare in Lombardia per cingere d'assedio la città di Mantova. Il passaggio dei lanzichenecchi è visto con seria preoccupazione dalle autorità sanitarie in quanto si teme che possa portare la peste, di cui ci sono vari casi nelle truppe tedesche, tuttavia gli appelli al Tribunale di Sanità perché attui serie misure onde contrastare il diffondersi del contagio cadono nel vuoto e, poco dopo, lo stesso governatore di Milano don Gonzalo viene rimosso dal suo incarico, lasciando la città tra i fischi e le rimostranze della folla per l'incuria dimostrata durante il suo governo. Nel settembre 1629 le truppe tedesche entrano in Valtellina seguendo il corso dell'Adda per portarsi e Mantova e il loro passaggio provoca ovunque saccheggi e devastazioni, dal momento che i lanzichenecchi sono soldati poco avvezzi alla disciplina e mantenuti più coi frutti delle spoliazioni che col soldo regolare: le popolazioni locali si rifugiano per lo più sui monti per scampare al saccheggio e fra queste persone ci sono anche don Abbondio, Agnese e Perpetua che trovano ospitalità nel castello dell'innominato (capp. XXIX-XXX). Il passaggio dei lanzichenecchi si lascia dietro una scia sinistra di morte e desolazione, oltre al terribile contagio della peste, e nell'occasione vengono citati i nomi di alcuni celebri condottieri imperiali, fra cui spiccano il Wallenstein, Jean de Merode, Ernesto Montecuccoli, Giovanni Altringer, Torquanto Conti. La conclusione del conflitto viene ricordata incidentalmente dall'autore nel cap. XXXII, col dire che la guerra ha causato circa un milione di vittime (specie per l'epidemia peste di cui essa è stata causa non trascurabile) e alla fine, nonostante il "sacco atroce" di Mantova ad opera dei soldati tedeschi e l'occupazione della città durata oltre un anno, il trattato di pace ha riconosciuto come duca legittimo quello stesso Carlo di Nevers che si voleva escludere, quindi la guerra ha provocato tanti disastri per lasciare le cose sostanzialmente inalterate. Manzoni aggiunge altre osservazioni amaramente ironiche circa i maneggi politici e i trattati segreti che hanno fatto seguito alla pace, incluso l'accordo in base al quale il duca di Savoia cedette Pinerolo alla Francia.
È rimasta giustamente celebre la tirata di don Abbondio contro le mire dinastiche del duca di Nevers e dell'imperatore, che si intestardisce a voler sostenere Ferrante Gonzaga a dispetto dei suoi immensi domini, e contro il governatore di Milano che dovrebbe "tener lontani i flagelli del paese" e invece li attira "per il gusto di far la guerra", mentre "ne va di mezzo chi non ci ha colpa": è il consueto punto di vista egoistico e interessato del curato, che tuttavia esprime l'indifferenza delle persone umili per le contese dinastiche che sono all'origine della guerra e che, nondimeno, producono conseguenze nefaste soprattutto per loro, specie pensando al successivo diffondersi della peste causato proprio dal passaggio delle truppe tedesche. Don Abbondio esprime in sostanza il punto di vista dello stesso autore, sia pure col registro comico che è consueto in questo personaggio, dal momento che Manzoni condanna tutte le guerre nate per futili ragioni di potere e che causano dolore e sofferenze alla povera gente, prendendo quindi le distanze dalla storiografia tradizionale che invece magnificava le imprese di sovrani e condottieri senza badare alle tribolazioni degli umili (è in fondo la prospettiva dell'anonimo nell'Introduzione, quando il secentista dichiarava di non voler trattare del "rimbombo de' bellici Oricalchi", ma dei casi di "gente meccaniche, e di piccol affare", quindi delle vicende storiche che coinvolgono poveri contadini e personaggi di bassa condizione).
Per approfondire: U. Dotti, Guerra, fame, peste.
Il conflitto è citato per la prima volta nel cap. V durante il banchetto al palazzotto di don Rodrigo, quando quest'ultimo afferma di aver sentito dire che "a Milano correvano voci d'accomodamento" (il signorotto allude a trattative di pace allora promosse dal pontefice per scongiurare il conflitto, poi fallite). Si riaccende una discussione tra il conte Attilio e il podestà, il quale sostiene che la Spagna avrà la meglio in questa contesa internazionale e si lancia in uno sconclusionato elogio del primo ministro di Filippo IV, il conte-duca Olivares, non essendo contraddetto da Attilio cui il cugino ha lanciato uno sguardo d'intesa (la Spagna alla fine sarà sconfitta e dunque tutte le previsioni del podestà saranno sconfessate). L'autore torna a parlare della guerra nel cap. XII, quando spiega le ragioni della carestia e ne attribuisce una buona parte al "guasto" e allo "sperperìo" di questo conflitto, dal momento che ai proprietari terrieri venivano imposte tasse esorbitanti per le necessità belliche e, soprattutto, le soldatesche depredavano i raccolti già scarsi per la cattiva stagione: emerge chiaramente la condanna da parte del romanziere di una guerra nata da assurde contese dinastiche e da questioni di politica internazionale, che tuttavia produce gravi conseguenze sulla vita delle popolazioni umili e ne peggiora la già precaria esistenza (il governatore dello Stato di Milano, don Gonzalo, è impegnato nell'assedio di Casale e non ha tempo per dedicarsi al problema della penuria di grano, avallando di fatto gli assurdi provvedimenti presi in merito dal gran cancelliere Ferrer che lo sostituisce). In seguito lo stesso governatore (XXVII) tornerà di corsa a Milano dopo il tumulto del giorno di S. Martino e si lamenterà col residente di Venezia per l'asilo offerto al fuggiasco Renzo, al solo scopo di esercitare pressioni su uno Stato alleato dei Francesi e non far trasparire le difficoltà incontrate nell'assedio di Casale, che sta andando per le lunghe.
L'autore torna poi a parlare della guerra nel corso del cap. XXVIII, in appendice all'ampia digressione dedicata all'inasprirsi della carestia, per dire che in seguito alla presa della rocca della Rochelle il card. Richelieu aveva portato le truppe francesi in Italia, causando il ritiro di quelle spagnole di don Gonzalo da Casale e lasciando poi una guarnigione al passo di Susa, salvo ritirarsi proprio quando le soldatesche dell'imperatore si apprestavano a entrare in Lombardia per cingere d'assedio la città di Mantova. Il passaggio dei lanzichenecchi è visto con seria preoccupazione dalle autorità sanitarie in quanto si teme che possa portare la peste, di cui ci sono vari casi nelle truppe tedesche, tuttavia gli appelli al Tribunale di Sanità perché attui serie misure onde contrastare il diffondersi del contagio cadono nel vuoto e, poco dopo, lo stesso governatore di Milano don Gonzalo viene rimosso dal suo incarico, lasciando la città tra i fischi e le rimostranze della folla per l'incuria dimostrata durante il suo governo. Nel settembre 1629 le truppe tedesche entrano in Valtellina seguendo il corso dell'Adda per portarsi e Mantova e il loro passaggio provoca ovunque saccheggi e devastazioni, dal momento che i lanzichenecchi sono soldati poco avvezzi alla disciplina e mantenuti più coi frutti delle spoliazioni che col soldo regolare: le popolazioni locali si rifugiano per lo più sui monti per scampare al saccheggio e fra queste persone ci sono anche don Abbondio, Agnese e Perpetua che trovano ospitalità nel castello dell'innominato (capp. XXIX-XXX). Il passaggio dei lanzichenecchi si lascia dietro una scia sinistra di morte e desolazione, oltre al terribile contagio della peste, e nell'occasione vengono citati i nomi di alcuni celebri condottieri imperiali, fra cui spiccano il Wallenstein, Jean de Merode, Ernesto Montecuccoli, Giovanni Altringer, Torquanto Conti. La conclusione del conflitto viene ricordata incidentalmente dall'autore nel cap. XXXII, col dire che la guerra ha causato circa un milione di vittime (specie per l'epidemia peste di cui essa è stata causa non trascurabile) e alla fine, nonostante il "sacco atroce" di Mantova ad opera dei soldati tedeschi e l'occupazione della città durata oltre un anno, il trattato di pace ha riconosciuto come duca legittimo quello stesso Carlo di Nevers che si voleva escludere, quindi la guerra ha provocato tanti disastri per lasciare le cose sostanzialmente inalterate. Manzoni aggiunge altre osservazioni amaramente ironiche circa i maneggi politici e i trattati segreti che hanno fatto seguito alla pace, incluso l'accordo in base al quale il duca di Savoia cedette Pinerolo alla Francia.
È rimasta giustamente celebre la tirata di don Abbondio contro le mire dinastiche del duca di Nevers e dell'imperatore, che si intestardisce a voler sostenere Ferrante Gonzaga a dispetto dei suoi immensi domini, e contro il governatore di Milano che dovrebbe "tener lontani i flagelli del paese" e invece li attira "per il gusto di far la guerra", mentre "ne va di mezzo chi non ci ha colpa": è il consueto punto di vista egoistico e interessato del curato, che tuttavia esprime l'indifferenza delle persone umili per le contese dinastiche che sono all'origine della guerra e che, nondimeno, producono conseguenze nefaste soprattutto per loro, specie pensando al successivo diffondersi della peste causato proprio dal passaggio delle truppe tedesche. Don Abbondio esprime in sostanza il punto di vista dello stesso autore, sia pure col registro comico che è consueto in questo personaggio, dal momento che Manzoni condanna tutte le guerre nate per futili ragioni di potere e che causano dolore e sofferenze alla povera gente, prendendo quindi le distanze dalla storiografia tradizionale che invece magnificava le imprese di sovrani e condottieri senza badare alle tribolazioni degli umili (è in fondo la prospettiva dell'anonimo nell'Introduzione, quando il secentista dichiarava di non voler trattare del "rimbombo de' bellici Oricalchi", ma dei casi di "gente meccaniche, e di piccol affare", quindi delle vicende storiche che coinvolgono poveri contadini e personaggi di bassa condizione).
Per approfondire: U. Dotti, Guerra, fame, peste.