Capitolo VIII
M. Fanolli, La partenza dei promessi sposi
"Addio, monti sorgenti dall'acque,
ed elevati al cielo; cime inuguali, note
a chi è cresciuto tra voi, e impresse
nella sua mente, non meno che lo sia l'aspetto
de' suoi più familiari; torrenti, de' quali distingue
lo scroscio, come il suono delle voci domestiche;
ville sparse e biancheggianti sul pendìo,
come branchi di pecore pascenti, addio!
Quanto è tristo il passo di chi, cresciuto tra voi,
se ne allontana! ..."
Personaggi:
Luoghi: Tempo: Temi: Trama: |
_Renzo, Lucia, Agnese, Tonio, Gervaso, Perpetua, don Abbondio, il Griso, i bravi, Menico, Ambrogio, padre Cristoforo, il console, fra Fazio
Il paese di Renzo e Lucia, il convento di Pescarenico Notte del 10 novembre 1628 La giustizia, Nobiltà e potere, Chiesa e religione Renzo, Lucia e gli altri tentano il "matrimonio a sorpresa", ma don Abbondio riesce a impedirlo. Il sagrestano Ambrogio suona le campane a martello, richiamando l'intero paese. Il Griso e i suoi bravi penetrano in casa di Agnese e Lucia, non trovando nessuno. Sopraggiunge Menico, che riesce a fuggire dai bravi grazie ai rintocchi delle campane. Renzo, Agnese e Lucia raggiungono padre Cristoforo al convento. Il frate consiglia ai due promessi di lasciare il paese, quindi avviene la separazione e la partenza. |
Perpetua informa don Abbondio dell'arrivo di Tonio e Gervaso
F. Gonin, Carneade
_Don Abbondio è seduto in una stanza al primo piano della sua casa, intento a leggere un libro in cui è nominato il filosofo Carneade, di cui lui non sa nulla (il curato si diletta a leggere e un sacerdote suo vicino gli presta ogni tanto dei libri scelti a caso); quest'opera è un panegirico scritto in onore di S. Carlo Borromeo, in cui quest'ultimo è paragonato ad Archimede e al filosofo del II sec. a.C. Perpetua entra ad annunciare la visita di Tonio e Gervaso, al che don Abbondio si lamenta dell'ora tarda ma poi accetta di riceverli, ansioso di riavere indietro i suoi soldi. Il curato chiede alla sua domestica se si sia accertata dell'identità di Tonio, domanda a cui la donna risponde in modo alquanto stizzito, quindi Perpetua scende di sotto per fare entrare i due uomini.
Agnese "distrae" Perpetua
Gustavino, Agnese e Perpetua
_Perpetua raggiunge Tonio e Gervaso, trovando anche Agnese che la saluta: la domestica chiede alla donna da dove viene e Agnese nomina un paesetto vicino, aggiungendo che lì ha sentito dei discorsi che possono interessare Perpetua. La domestica invita i due uomini a entrare, mentre Agnese dice che secondo alcuni pettegolezzi Perpetua in gioventù non avrebbe sposato due pretendenti (Beppe Suolavecchia e Anselmo Lunghigna) perché non l'avevano voluta, al che la donna reagisce stizzita affermando che nulla di tutto ciò è vero e chiedendo a gran voce chi sia la fonte di simili menzogne. Agnese finge di voler sapere altri particolari, quindi inizia a parlare con Perpetua e si allontana dalla casa del curato, addentrandosi in una viuzza che svolta dietro l'abitazione e da dove non si può vedere l'uscio. Quando le due donne sono abbastanza lontane, Agnese tossisce forte e questo segnale fa capire a Renzo e Lucia che è il momento di entrare in casa: i due promessi si avvicinano con cautela, entrano nell'andito dove li attendono Tonio e Gervaso, quindi i quattro salgono le scale con passi silenziosi, badando a non fare rumore per non mettere in allarme don Abbondio. Quando sono giunti al primo piano, i due promessi si stringono al muro per non farsi vedere, mentre i due fratelli si affacciano all'uscio della stanza dove si trova il curato e Tonio lo saluta con voce ferma, dicendo Deo gratias.
Tonio parla con don Abbondio
F. Gonin, Don Abbondio
_Don Abbondio invita i due fratelli ad entrare, al che Tonio e Gervaso fanno il loro ingresso aprendo la porta e illuminando in parte il pianerottolo (dove Lucia è nascosta e trasalisce all'idea di essere scoperta), per poi richiuderla lasciando i due promessi nel buio. Il curato è seduto al suo scrittoio, alla luce di un debole lume che rischiara la sua faccia bruna e rugosa, i suoi capelli bianchi, i folti baffi e il pizzo, nonché la papalina che porta in testa. Egli saluta i due nuovi arrivati, mentre Tonio si scusa per l'ora tarda e riceve i rimproveri del curato, sia perché è da tempo che deve pagare il debito, sia perché il sacerdote si dice ammalato (in realtà don Abbondio è più guarito dalla febbre di quanto non voglia far credere). Il curato chiede a Tonio perché abbia portato anche il fratello, al che l'uomo risponde che voleva compagnia e poi consegna a don Abbondio venticinque berlinghe nuove di zecca, a pagamento del suo debito. Il religioso conta le monete e le controlla, quindi Tonio chiede indietro la collana della moglie Tecla data a garanzia del prestito e don Abbondio la estrae da un armadio; in seguito Tonio esige una ricevuta e il curato, sia pur brontolando un poco, si accinge a scriverla su un foglio di carta con penna e calamaio, ripetendo a voce alta le parole. In quel momento Tonio e Gervaso si mettono davanti allo scrittoio, coprendo la vista dell'uscio, e iniziano a sfregare i piedi sul pavimento, per segnalare ai due promessi che è il momento di entrare. Don Abbondio, tutto preso dalla stesura del documento, prosegue senza rendersi conto di nulla.
Il "matrimonio a sorpresa" fallisce
F. Gonin, La prontezza del curato
_Renzo afferra Lucia per un braccio e la conduce con sé, entrando con lei nella stanza: i due avanzano silenziosi, mettendosi dietro Tonio e Gervaso che stanno proprio davanti a don Abbondio e gli impediscono di vedere i due promessi. Il curato ha intanto finito di scrivere la ricevuta, quindi la rilegge senza alzare gli occhi dal foglio e, toltisi gli occhiali, porge la carta a Tonio chiedendo se è soddisfatto. Tonio allunga la mano per prendere il documento e si ritira da un lato, facendo cenno al fratello di fare la stessa cosa, per cui i due fanno comparire Renzo e Lucia che si parano subito di fronte a don Abbondio: nel breve tempo che questi, spaventato, pensa al da farsi, Renzo è lesto a pronunciare la formula del "matrimonio a sorpresa" ("Signor curato, in presenza di questi testimoni, quest'è mia moglie"), ma Lucia non fa in tempo a dire "e questo..." che il curato, con rapida mossa, ha lasciato cadere la carta, ha afferrato con la mano sinistra il lume e con la destra il tappeto che copre lo scrittoio, gettando il panno in testa alla giovane che non può dire altro. In seguito il curato lascia cadere il lume a terra e preme con le mani il tappeto su Lucia, per impedirle di parlare, mentre con quanto fiato in gola chiama Perpetua in soccorso; il lume si spegne sul pavimento, per cui la stanza sprofonda nella più totale oscurità.
Il sagrestano Ambrogio suona le campane
F. Gonin, Tonio cerca la ricevuta
_Don Abbondio è lesto a chiudersi dentro una stanza interna, continuando a chiamare Perpetua in aiuto, mentre Renzo cerca a tastoni la porta e dice al curato di non fare schiamazzi, Tonio cerca carponi sul pavimento la sua ricevuta, Lucia prega Renzo di andar via e il povero Gervaso saltella qua e là come un invasato, cercando l'uscita. Manzoni fa alcune osservazioni ironiche sul fatto che Renzo sembra esercitare un sopruso sul curato, mentre in realtà è lui la vittima, e don Abbondio sembra essere un oppresso, mentre è lui a fare una prepotenza ai due promessi (così andavano le cose nel XVII secolo, il che sottintende che vanno spesso allo stesso modo nel XIX). Il curato si affaccia da una finestra della casa che dà sulla piazza della chiesa, illuminata quasi a giorno dal chiaro di luna, gridando aiuto a gran voce e facendosi udire dal sagrestano Ambrogio, che dorme in uno stanzino sul muro laterale della chiesa. Questi apre una piccola finestra e chiede al curato cosa succede, al che don Abbondio risponde che c'è "gente in casa": Ambrogio corre al campanile e inizia a suonare le campane a martello, per richiamare quanta più gente possibile e dare così aiuto al padrone. Tutti nel paese sono svegliati dai rintocchi e molti abitanti afferrano forconi e schioppi, precipitandosi verso la chiesa da cui provengono i rintocchi.
Il Griso e i bravi penetrano nella casa delle due donne
F. Gonin, I bravi nella casa
I rintocchi vengono uditi da Agnese e Perpetua, ma anche dai bravi che sono impegnati in ben altre faccende: l'autore fa un passo indietro e spiega che i tre che stavano all'osteria si ritirano a tarda ora e fanno un giro per il paese, accertandosi che tutti siano andati a dormire, quindi raggiungono il Griso e gli altri appostati presso il casolare abbandonato. Il capo dei bravi indossa un cappellaccio e un mantello da pellegrino, impugna un bastone e si muove seguito dagli altri, avvicinandosi alla casa delle due donne dalla parte opposta a quella da cui si erano allontanati Renzo e tutti gli altri. Giunto all'uscio di strada, il Griso ordina a due sgherri di calarsi oltre il muro di cinta e nascondersi dietro un fico nel cortile, mentre lui bussa per fingersi un pellegrino smarrito che chiede ricovero per la notte. Poiché non riceve risposta, fa entrare un terzo bravo che sconficca il paletto e apre l'uscio, quindi il Griso raggiunge l'uscio della casa bussando ancora e, ovviamente, non ricevendo alcuna risposta (intanto gli altri bravi hanno raggiunto i compagni nascosti). Il Griso sconficca anche questa serratura ed entra con cautela, chiamando con sé i due bravi nascosti dietro il fico e facendo luce con una debole lanterna, poi si accerta che al pian terreno non ci sia nessuno; successivamente sale adagio la scala, accompagnato dal Grignapoco (un bravo originario di Bergamo che dovrebbe far credere con la sua parlata che la spedizione venga da quella contrada) e seguito da altri uomini, giungendo alle stanze del primo piano. Entra cautamente dentro una di esse, ma trova il letto intatto, così come avviene quando va a esplorare l'altra stanza; il Griso pensa che qualcuno abbia fatto la spia, non sapendo spiegarsi l'assenza delle due donne.
L'arrivo di Menico e le campane a martello
F. Gonin, I bravi e Menico
Intanto i due bravi rimasti a sentinella dell'uscio di strada sentono dei piccoli passi frettolosi che si avvicinano: si tratta di Menico, inviato da padre Cristoforo ad avvisare Lucia e Agnese di scappare per via del rapimento e di rifugiarsi al convento. Il ragazzo fa per aprire il paletto della porta ma lo trova sconficcato, per cui entra titubante ed è subito afferrato per le braccia dai bravi che gli intimano con tono minaccioso di far silenzio. Menico caccia un urlo, al che un bravo gli mette una mano sulla bocca e l'altro tira fuori un coltello per spaventarlo, quando all'improvviso il silenzio della notte è rotto dai rintocchi delle campane a martello: i due bravi sono decisamente allarmati, per cui lasciano andare Menico (che si affretta a fuggire via e a dirigersi verso la chiesa) ed entrano in casa, dove gli altri complici cercano di guadagnare l'uscita in modo disordinato. Il Griso cerca di tenerli insieme e di calmarli, come il cane che fa la guardia a un branco di maiali, quindi il gruppo esce dalla casa in buon ordine e si allontana dal paese (la casa è posta al fondo di esso).
Menico raggiunge Renzo e gli altri
F. Gonin, Menico e gli altri
L'autore torna ad Agnese e Perpetua, che nel frattempo continuano a parlare con la prima che cerca in ogni modo di trattenere la seconda e di non farla tornare verso casa, ravvivando di continuo il discorso con nuove domande (Agnese si rammarica di non aver concertato con Renzo e Lucia un segnale che indichi il buon esito dello stratagemma). Quando le due donne sono a poca distanza dalla casa del curato, si sente all'improvviso il primo grido di don Abbondio che chiama aiuto, al che Agnese finge indifferenza; cerca di trattenere Perpetua, la quale però riesce a divincolarsi e si precipita verso l'uscio, avendo capito che sta accadendo qualcosa. Agnese la segue, mentre si sente l'urlo di Menico e quasi contemporaneamente inizia lo scampanio, quindi raggiungono l'uscio della casa da cui escono di corsa Renzo e tutti gli altri. Tonio e Gervaso sono rapidi ad allontanarsi, quindi Perpetua (che ha riconosciuto i due promessi non senza sorpresa) entra e sale di corsa le scale. Renzo esorta Agnese e Lucia a tornare subito a casa, ma in quella sopraggiunge Menico che invita tutti ad andare al convento di padre Cristoforo, poiché "C'è il diavolo in casa" (il ragazzo allude ai bravi che hanno tentato di ucciderlo); Renzo raccoglie l'invito e i quattro si allontanano in fretta, dirigendosi al convento di Pescarenico tagliando per i campi.
I paesani accorrono alla casa del curato
Intanto un gran numero di abitanti del paese, allarmati dalle campane a martello, raggiungono la chiesa e chiedono ad Ambrogio cosa stia succedendo, al che il sagrestano risponde che c'è qualcuno in casa del curato: gli uomini si dirigono subito là, ma trovano l'uscio intatto e chiuso e tutto sembra tranquillo e in ordine. Don Abbondio sta ancora litigando con Perpetua che accusa di averlo lasciato solo nel momento del bisogno, quando i paesani lo chiamano a gran voce: suo malgrado, il curato deve affacciarsi da una finestra e tranquillizzare tutti, dicendo che gli intrusi sono fuggiti e invitando i presenti a tornare a casa. La folla sta per disperdersi, quando arriva trafelato un uomo che abita vicino alla casa di Agnese e ha visto i bravi armati nel cortile di questa, nonché un pellegrino (che, in realtà, era il Griso travestito), per cui esorta il gruppo ad andare subito là: la folla raggiunge la casa e non tarda ad accorgersi che l'abitazione è stata violata e le due donne sono scomparse, dunque viene fatta la proposta di gettarsi all'inseguimento dei rapitori. Alcuni sono titubanti, quando si sparge la voce che Agnese e Lucia si sono messe in salvo in una casa vicina e poiché la cosa viene creduta la folla si disperde rapidamente, senza che quella notte accada nient'altro di significativo. Il mattino dopo il console del paese riceverà la visita di due bravi che gli intimeranno di non rendere testimonianza su quanto è avvenuto la sera prima e di non sollevare scandali, se intende morire di malattia e non di morte violenta.
Renzo, Lucia e Agnese arrivano al convento
F. Gonin, Padre Cristoforo e gli altri
Frattanto Renzo, Agnese e Lucia proseguono la loro fuga insieme a Menico, finché i quattro raggiungono un campo isolato dove non c'è nessuno e non si sentono più i lugubri rintocchi delle campane. Renzo informa Agnese del triste esito dello stratagemma, quindi Menico racconta dell'avvertimento ricevuto da padre Cristoforo e racconta cosa gli è successo a casa delle due donne, al che gli altri si guardano l'un l'altro spaventati e poi accarezzano il ragazzo, per consolarlo del pericolo corso. Agnese gli dà quattro monete d'argento e Renzo una berlinga, quindi Menico è invitato a tornare a casa (Renzo gli raccomanda di non dire nulla di quanto appreso dal frate).
I tre proseguono verso il convento, con Renzo che cammina indietro per fare la guardia, mentre Lucia, spaventata e turbata da quanto è successo, cammina appoggiandosi alla madre (questa chiede che ne sarà della loro casa, ma nessuno risponde). Infine giungono al convento e Renzo ne apre la porta, trovando padre Cristoforo che è in attesa insieme a fra Fazio, il laico sagrestano dei cappuccini. Il padre si rallegra che non manchi nessuno, quindi li fa entrare suscitando le proteste di fra Fazio, che ha da ridire sulla presenza di due donne nel convento a notte alta: Cristoforo lo mette a tacere con la frase latina Omnia munda mundis ("tutto è puro per i puri") e il sagrestano non oppone altre resistenze.
I tre proseguono verso il convento, con Renzo che cammina indietro per fare la guardia, mentre Lucia, spaventata e turbata da quanto è successo, cammina appoggiandosi alla madre (questa chiede che ne sarà della loro casa, ma nessuno risponde). Infine giungono al convento e Renzo ne apre la porta, trovando padre Cristoforo che è in attesa insieme a fra Fazio, il laico sagrestano dei cappuccini. Il padre si rallegra che non manchi nessuno, quindi li fa entrare suscitando le proteste di fra Fazio, che ha da ridire sulla presenza di due donne nel convento a notte alta: Cristoforo lo mette a tacere con la frase latina Omnia munda mundis ("tutto è puro per i puri") e il sagrestano non oppone altre resistenze.
Padre Cristoforo consiglia ai tre di lasciare il paese
G. Gallina, L'addio di fra Cristoforo
_Padre Cristoforo spiega ai tre quale avvertimento ha affidato a Menico, rallegrandosi del fatto che, come egli crede, il ragazzo li abbia trovati tranquilli nelle loro case: Lucia è turbata all'idea di non rivelare la verità al frate, ma questa è la "notte degl'imbrogli e de' sotterfugi". Cristoforo afferma che il paese non è più un posto sicuro per loro e che, per quanto la cosa sia difficile da accettare, se ne dovranno andare: forse presto potranno tornare, ma nel frattempo egli provvederà a trovare ai tre un rifugio sicuro e a soddisfare le loro necessità. Le donne dovranno andare a Monza, presentando una lettera al padre guardiano del convento dei cappuccini che penserà a trovar loro una sistemazione. Renzo invece andrà a Milano, dove presenterà a sua volta una lettera a padre Bonaventura da Lodi, al convento di Porta Orientale, il quale gli troverà un lavoro in attesa di tempi migliori. Il frate invita i tre a raggiungere la riva del lago, nei pressi dello sbocco del torrente Bione, dove troveranno un barcaiolo al quale dovranno rivolgersi con un segnale convenuto (essi diranno "barca" e alla domanda "per chi?", risponderanno "San Francesco"); questi li trasporterà alla riva opposta, dove un calesse li porterà sino a Monza. Renzo e Agnese consegnano al frate le chiavi delle rispettive case, perché qualcuno badi a custodirle in loro assenza, quindi il frate rivolge una preghiera a Dio perché vegli sui tre fuggitivi e, al contempo, illumini con la sua grazia don Rodrigo che cerca solo di compiere il male. A questo punto i tre si congedano da padre Cristoforo, che si dice certo che si rivedranno presto, quindi raggiungono in fretta la barca nel luogo indicato.
L'addio di Lucia al paese natio
G. Mantegazza, "Addio, monti..."
_Renzo, Agnese e Lucia trovano subito il barcaiolo e questi, dopo i segnali convenuti, li fa salire sull'imbarcazione e si stacca dalla proda, iniziando a remare verso la riva opposta. Non tira un alito di vento e la superficie del lago è immobile, illuminata dal chiarore lunare; si sente solo il debole rumore della risacca sulle rive e dell'acqua che si infrange contro i piloni del ponte. I tre sono silenziosi e guardano il paesaggio, in cui si distingue il profilo delle montagne, il paese, il palazzotto di don Rodrigo che domina tutto dall'alto e assume un aspetto feroce, sinistro. Lucia vede da lontano la sua casa ed è presa da una grande commozione, piangendo segretamente: la giovane dice addio ai monti, il cui aspetto le è familiare come quello delle persone care, ai torrenti, il cui suono le è noto come la voce di chi ama, alle case che biancheggiano qua e là sul pendio. Colui che si allontana volontariamente dal paese natio, per fare fortuna altrove, parte a malincuore e vorrebbe tornare indietro, all'idea di perdersi nelle tumultuose e caotiche città; Lucia, che parte costretta da una prepotenza, che pensava di trascorrere in quel luogo tutta la sua vita, dice tristemente addio alla sua casa, dove Renzo veniva a trovarla, alla casa del promesso sposo, in cui pensava di entrare - non senza rossore - come sua moglie, alla chiesa, dove il rito del matrimonio era stato preparato e si sarebbe dovuto celebrare nella santità del sacramento. Questi sono i pensieri di Lucia, forse non espressi con queste parole, mentre quelli degli altri due non sono molto differenti (intanto la barca si avvicina alla riva destra dell'Adda).
Temi principali e collegamenti
- Il capitolo costituisce il secondo tempo della "notte degli imbrogli" in cui avviene il fallito stratagemma del "matrimonio a sorpresa" e il mancato rapimento di Lucia, che sfugge ai bravi proprio perché è andata dal curato insieme agli altri. Le vicende sono narrate dall'autore con la tecnica del flashback, dal momento che all'inizio viene descritta l'azione a casa di don Abbondio, in seguito si torna indietro al momento in cui il Griso e i bravi penetrano nella casetta delle due donne e sopraggiunge Menico, per poi tornare ancora indietro al momento in cui Agnese e Perpetua sono sorprese dal grido del curato, dalle campane e poi dall'urlo di Menico. La concitazione domina largamente l'episodio, anche in seguito all'accorrere disordinato della folla dei paesani, mentre solo alla fine prevale un ritmo più disteso (quando i tre giungono al convento di padre Cristoforo).
- Lo stratagemma attuato dai due promessi sposi, anche se legalmente scorretto e dunque in parte condannato dall'autore, è comunque ciò che consente di sventare il rapimento, poiché le due donne sono assenti all'arrivo dei bravi e in seguito lo scampanio provoca la fuga dei malviventi, salvando probabilmente la vita a Menico (il ragazzo giungerebbe troppo tardi a dare l'allarme ad Agnese e Lucia). Padre Cristoforo non ne saprà mai nulla, mentre Lucia confesserà tutto al cardinal Borromeo, il quale avrà parole di conforto e dirà alla giovane che non deve accusare se stessa dopo tutte le sofferenze patite (cap. XXIV).
- Dopo il travestimento del Griso nel cap. VII, in cui si era spacciato per un mendicante ed era entrato in casa di Agnese e Lucia, qui il criminale si finge un pellegrino per ottenere lo stesso scopo, indossando un "sanrocchino" (il mantello indossato dai pellegrini dal nome del loro protettore, S. Rocco) e impugnando un "bordone", il classico bastone usato da chi si metteva in pellegrinaggio (il bastone e le conchiglie di cui è cosparso il mantello sono attribuzioni di San Giacomo, il cui sepolcro a Compostella è da secoli meta di pellegrinaggi). È appena il caso di sottolineare il carattere ironico e vagamente blasfemo di questo travestimento, che tuttavia confonde le idee ai paesani che l'hanno visto nei momenti dell'azione.
- Le campane a martello venivano suonate nei villaggi di una volta per richiamare l'attenzione dei paesani in caso di emergenza (un incendio, un assalto di predoni o nemici, un'altra calamità...) e l'uso è attestato largamente in Italia fino alla prima metà del XX secolo. La folla dei compaesani di don Abbondio e dei due promessi è sollecita ad accorrere alla chiesa, ma appare disorganizzata e tumultuosa nel decidere il da farsi e, soprattutto, fin troppo rapida a disperdersi quando si sparge la falsa voce secondo cui Agnese e Lucia si sono messe in salvo (il console, ovvero il magistrato che svolge le funzioni di un sindaco, è un pessimo "capitano" e il giorno seguente viene minacciato dai bravi perché non sollevi scandali sull'accaduto). In ogni caso la rappresentazione degli abitanti del paese è positiva e la loro condotta è improntata alla solidarietà reciproca, il che non si potrà certo dire della popolazione della città di Milano durante la peste.
- Il luogo dove Agnese e Lucia dovranno rifugiarsi in seguito alla fuga dal paese è qui indicato con degli asterischi, attribuiti alla consueta finzione della reticenza dell'anonimo, ma l'autore nel cap. IX spiegherà chiaramente che si tratta di Monza, ovvero la città dove sorge il convento in cui è presente Gertrude e in cui troveranno riparo le due donne.
- Il passo che conclude il capitolo è il cosiddetto "Addio, monti...", ovvero la celebre pagina in cui Manzoni attribuisce a Lucia in partenza un commosso saluto ai luoghi dove è nata e vissuta, dai quali deve forzatamente separarsi con inevitabile sofferenza: è un grande pezzo di bravura, in cui il tono è altamente lirico e il linguaggio solenne e sostenuto, quale ovviamente non potrebbe usare nella realtà una povera contadina (e infatti l'autore precisa alla fine che "Di tal genere, se non tali appunto, erano i pensieri di Lucia"). Il brano costituisce un'ulteriore descrizione dei luoghi della parte iniziale del romanzo, dopo quella altrettanto famosa che apriva il cap. I.
- Il nome del filosofo Carneade con cui si apre il capitolo è diventato per antonomasia sinonimo di illustre sconosciuto, proprio in base alle parole di don Abbondio che non sa nulla di lui.
La dimensione positiva del mondo contadino e paesano
Il paese dei due promessi (ed. 1840)
Il cap. VIII rappresenta un momento di svolta importante nelle vicende del romanzo, in quanto i due promessi sono costretti ad abbandonare il paese in seguito al fallito tentativo di rapire Lucia da parte di don Rodrigo e poi a separarsi, entrando in una dimensione spaziale più ampia di quella contadina del piccolo villaggio in cui sono nati e ricca di insidie (Monza e il convento di Gertrude per le due donne, Milano e i suoi tumulti per Renzo). L'abbandono del paese coincide con l'allontanamento da un ambiente rassicurante e domestico, in cui prevale la solidarietà reciproca e uno stile di vita sobrio, mentre (soprattutto per Renzo) la grande metropoli sarà uno spazio insidioso, quasi una sorta di percorso formativo che il giovane non supererà in occasione del primo viaggio, mentre sarà più preparato al suo ritorno in città all'epoca della peste. Ciò si spiega anzitutto per l'idea manzoniana della campagna come luogo sano contrapposto alla città "malata" (tema del resto ampiamente presente nella letteratura europea del XVIII-XIX secolo), i cui abitanti sono gente semplice che conduce una vita onesta, pronti ad aiutarsi l'un l'altro nelle avversità e a formare una comunità unita e solidale: se ne ha già un accenno nel cap. VI, quando la famiglia di Tonio invita Renzo a fermarsi a cena nonostante la tavola non offra che poca polenta di scarsa qualità a causa della carestia, e l'ulteriore riprova è proprio nel cap. VIII, quando i paesani non esitano a radunarsi in una piccola folla al suono delle campane a martello per correre in soccorso del curato, anche se questo improvvisato esercito è piuttosto sgangherato e offre un aiuto tardivo e ben poco efficace. Questo non significa che l'autore dia del mondo rurale e contadino un quadro idealizzato e privo di difetti (la gente del paese in fondo non sa o non ha il coraggio di opporsi alle angherie di don Rodrigo), ma a paragone della città la dimensione della campagna appare più accogliente e rassicurante, come dimostra anche il fatto che alla fine delle vicende i due sposi non più promessi si trasferiranno in un piccolo centro del Bergamasco, dove Renzo diventerà una specie di imprenditore nel campo tessile e, dunque, sempre nell'orizzonte di una minuscola comunità rurale. Le ragioni di questa visione dell'autore derivano anche da considerazioni economiche, cioè dal fatto che per Manzoni il cuore dell'economia dev'essere legato alla terra e al commercio dei suoi prodotti (in accordo con varie teorie assai diffuse nel periodo dell'Illuminismo e in particolare in Lombardia; cfr. anche il cap. XII), per cui anche l'emigrante che è costretto a lasciare il paese natale per cercare fortuna in città è vittima di un destino avverso e soffre nel troncare il legame con le proprie radici: il brano famoso che chiude il cap. VIII, che descrive proprio l'addio di Lucia ai luoghi della sua infanzia e giovinezza, contiene anche un riferimento a colui che "se ne parte volontariamente, tratto dalla speranza di fare altrove fortuna", il quale è quasi atterrito alla prospettiva di allontanarsi dal luoghi familiari per affrontare la città caotica e sovraffollata. Parlando di questo ipotetico personaggio, l'autore afferma che "Quanto più si avanza nel piano, il suo occhio si ritira, disgustato e stanco, da quell’ampiezza uniforme; l’aria gli par gravosa e morta; s’inoltra mesto e disattento nelle città tumultuose; le case aggiunte a case, le strade che sboccano nelle strade, pare che gli levino il respiro; e davanti agli edifizi ammirati dallo straniero, pensa, con desiderio inquieto, al campicello del suo paese, alla casuccia a cui ha già messo gli occhi addosso, da gran tempo, e che comprerà, tornando ricco a’ suoi monti". Tale descrizione prefigura l'ingresso di Renzo nella "tumultuosa" Milano il giorno della sommossa di S. Martino e anticipa l'atmosfera cupa, quasi soffocante della metropoli che tanti guai provocherà al protagonista, il quale infatti sarà ben lieto dapprima di rifugiarsi a Bergamo (che all'epoca era un grande borgo rurale) e poi di tornare al suo paese, in cui tra l'altro l'orrore della peste non verrà mostrato direttamente.
Non è inutile, infine, ricordare che le nevrosi di cui Manzoni soffriva (era agorafobico e dunque intimorito dagli spazi aperti e dalla folla) hanno forse influenzato questo giudizio negativo sull'ambiente urbano, come si può ricavare non solo dalle successive descrizioni di Milano ma anche da alcuni accenni del brano citato prima, il che spiega perché nel romanzo la città sia sempre descritta come luogo insano e fonte di problemi, mentre la campagna è il luogo della salute e della vita frugale.
Non è inutile, infine, ricordare che le nevrosi di cui Manzoni soffriva (era agorafobico e dunque intimorito dagli spazi aperti e dalla folla) hanno forse influenzato questo giudizio negativo sull'ambiente urbano, come si può ricavare non solo dalle successive descrizioni di Milano ma anche da alcuni accenni del brano citato prima, il che spiega perché nel romanzo la città sia sempre descritta come luogo insano e fonte di problemi, mentre la campagna è il luogo della salute e della vita frugale.
Clicca qui per ascoltare l'audio del capitolo dal sito www.liberliber.it
(voce narrante di Silvia Cecchini).
Capitolo VIII
“Carneade! [1] Chi era costui?” ruminava tra sé don Abbondio seduto sul suo seggiolone, in una stanza del piano superiore, con un libricciolo aperto davanti, quando Perpetua entrò a portargli l’imbasciata. “Carneade! questo nome mi par bene d’averlo letto o sentito; doveva essere un uomo di studio, un letteratone del tempo antico: è un nome di quelli; ma chi diavolo era costui?” Tanto il pover’uomo era lontano da prevedere che burrasca gli si addensasse sul capo!
Bisogna sapere che don Abbondio si dilettava di leggere un pochino ogni giorno; e un curato suo vicino, che aveva un po’ di libreria, gli prestava un libro dopo l’altro, il primo che gli veniva alle mani. Quello su cui meditava in quel momento don Abbondio, convalescente della febbre dello spavento, anzi più guarito (quanto alla febbre) che non volesse lasciar credere, era un panegirico [2] in onore di san Carlo, detto con molta enfasi, e udito con molta ammirazione nel duomo di Milano, due anni prima. Il santo v’era paragonato, per l’amore allo studio, ad Archimede; e fin qui don Abbondio non trovava inciampo; perché Archimede ne ha fatte di così curiose, ha fatto dir tanto di sé, che, per saperne qualche cosa, non c’è bisogno d’un’erudizione molto vasta. Ma, dopo Archimede, l’oratore chiamava a paragone anche Carneade: e lì il lettore era rimasto arrenato. In quel momento entrò Perpetua ad annunziar la visita di Tonio. - A quest’ora? - disse anche don Abbondio, com’era naturale. - Cosa vuole? Non hanno discrezione: ma se non lo piglia al volo... - Già: se non lo piglio ora, chi sa quando lo potrò pigliare! Fatelo venire... Ehi! ehi! siete poi ben sicura che sia proprio lui? - Diavolo! - rispose Perpetua, e scese; aprì l’uscio, e disse: - dove siete? - Tonio si fece vedere; e, nello stesso tempo, venne avanti anche Agnese, e salutò Perpetua per nome. - Buona sera, Agnese, - disse Perpetua: - di dove si viene, a quest’ora? - Vengo da... - e nominò un paesetto vicino. - E se sapeste... - continuò: - mi son fermata di più, appunto in grazia vostra. - Oh perché? - domandò Perpetua; e voltandosi a’ due fratelli, - entrate, - disse, - che vengo anch’io. - Perché, - rispose Agnese, - una donna di quelle che non sanno le cose, e voglion parlare... credereste? s’ostinava a dire che voi non vi siete maritata con Beppe Suolavecchia, né con Anselmo Lunghigna, perché non v’hanno voluta. Io sostenevo che siete stata voi che gli avete rifiutati, l’uno e l’altro... - Sicuro. Oh la bugiarda! la bugiardona! Chi è costei? - Non me lo domandate, che non mi piace metter male. - Me lo direte, me l’avete a dire: oh la bugiarda! - Basta... ma non potete credere quanto mi sia dispiaciuto di non saper bene tutta la storia, per confonder colei. - Guardate se si può inventare, a questo modo! - esclamò di nuovo Perpetua; e riprese subito: - in quanto a Beppe, tutti sanno, e hanno potuto vedere... Ehi, Tonio! accostate l’uscio, e salite pure, che vengo -. Tonio, di dentro, rispose di sì; e Perpetua continuò la sua narrazione appassionata. In faccia all’uscio di don Abbondio, s’apriva, tra due casipole, una stradetta, che, finite quelle, voltava in un campo. Agnese vi s’avviò, come se volesse tirarsi alquanto in disparte, per parlar più liberamente; e Perpetua dietro. Quand’ebbero voltato, e furono in luogo, donde non si poteva più veder ciò che accadesse davanti alla casa di don Abbondio, Agnese tossì forte. Era il segnale: Renzo lo sentì, fece coraggio a Lucia, con una stretta di braccio; e tutt’e due, in punta di piedi, vennero avanti, rasentando il muro, zitti zitti; arrivarono all’uscio, lo spinsero adagino adagino; cheti e chinati, entraron nell’andito, dov’erano i due fratelli ad aspettarli. Renzo accostò di nuovo l’uscio pian piano; e tutt’e quattro su per le scale, non facendo rumore neppur per uno. Giunti sul pianerottolo, i due fratelli s’avvicinarono all’uscio della stanza, ch’era di fianco alla scala; gli sposi si strinsero al muro. - Deo gratias, - disse Tonio, a voce chiara. - Tonio, eh? Entrate, - rispose la voce di dentro. Il chiamato aprì l’uscio, appena quanto bastava per poter passar lui e il fratello, a un per volta. La striscia di luce, che uscì d’improvviso per quella apertura, e si disegnò sul pavimento oscuro del pianerottolo, fece riscoter Lucia, come se fosse scoperta. Entrati i fratelli, Tonio si tirò dietro l’uscio: gli sposi rimasero immobili nelle tenebre, con l’orecchie tese, tenendo il fiato: il rumore più forte era il martellar che faceva il povero cuore di Lucia. Don Abbondio stava, come abbiam detto, sur una vecchia seggiola, ravvolto in una vecchia zimarra, con in capo una vecchia papalina, che gli faceva cornice intorno alla faccia, al lume scarso d’una piccola lucerna. Due folte ciocche di capelli, che gli scappavano fuor della papalina, due folti sopraccigli, due folti baffi, un folto pizzo, tutti canuti, e sparsi su quella faccia bruna e rugosa, potevano assomigliarsi a cespugli coperti di neve, sporgenti da un dirupo, al chiaro di luna. - Ah! ah! - fu il suo saluto, mentre si levava gli occhiali, e li riponeva nel libricciolo. - Dirà il signor curato, che son venuto tardi, - disse Tonio, inchinandosi, come pure fece, ma più goffamente, Gervaso. - Sicuro ch’è tardi: tardi in tutte le maniere. Lo sapete, che sono ammalato? - Oh! mi dispiace. - L’avrete sentito dire; sono ammalato, e non so quando potrò lasciarmi vedere... Ma perché vi siete condotto dietro quel... quel figliuolo? - Così per compagnia, signor curato. - Basta, vediamo. - Son venticinque berlinghe nuove, di quelle col sant’Ambrogio a cavallo, - disse Tonio, levandosi un involtino di tasca. - Vediamo, - replicò don Abbondio: e, preso l’involtino, si rimesse gli occhiali, l’aprì, cavò le berlinghe, le contò, le voltò, le rivoltò, le trovò senza difetto. - Ora, signor curato, mi darà la collana della mia Tecla. - È giusto, - rispose don Abbondio; poi andò a un armadio, si levò una chiave di tasca, e, guardandosi intorno, come per tener lontani gli spettatori, aprì una parte di sportello, riempì l’apertura con la persona, mise dentro la testa, per guardare, e un braccio, per prender la collana; la prese, e, chiuso l’armadio, la consegnò a Tonio, dicendo: - va bene? - Ora, - disse Tonio, - si contenti di mettere un po’ di nero sul bianco [3]. - Anche questa! - disse don Abbondio: - le sanno tutte. Ih! com’è divenuto sospettoso il mondo! Non vi fidate di me? - Come, signor curato! s’io mi fido? Lei mi fa torto. Ma siccome il mio nome è sul suo libraccio, dalla parte del debito... dunque, giacché ha già avuto l’incomodo di scrivere una volta, così... dalla vita alla morte... - Bene bene, - interruppe don Abbondio, e brontolando, tirò a sé una cassetta del tavolino, levò fuori carta, penna e calamaio, e si mise a scrivere, ripetendo a viva voce le parole, di mano in mano che gli uscivan dalla penna. Frattanto Tonio e, a un suo cenno, Gervaso, si piantaron ritti davanti al tavolino, in maniera d’impedire allo scrivente la vista dell’uscio; e, come per ozio, andavano stropicciando, co’ piedi, il pavimento, per dar segno a quei ch’erano fuori, d’entrare, e per confondere nello stesso tempo il rumore delle loro pedate. Don Abbondio, immerso nella sua scrittura, non badava ad altro. Allo stropiccìo de’ quattro piedi, Renzo prese un braccio di Lucia, lo strinse, per darle coraggio, e si mosse, tirandosela dietro tutta tremante, che da sé non vi sarebbe potuta venire. Entraron pian piano, in punta di piedi, rattenendo il respiro; e si nascosero dietro i due fratelli. Intanto don Abbondio, finito di scrivere, rilesse attentamente, senza alzar gli occhi dalla carta; la piegò in quattro, dicendo: - ora, sarete contento? - e, levatosi con una mano gli occhiali dal naso, la porse con l’altra a Tonio, alzando il viso. Tonio, allungando la mano per prender la carta, si ritirò da una parte; Gervaso, a un suo cenno, dall’altra; e, nel mezzo, come al dividersi d’una scena, apparvero Renzo e Lucia. Don Abbondio, vide confusamente, poi vide chiaro, si spaventò, si stupì, s’infuriò, pensò, prese una risoluzione: tutto questo nel tempo che Renzo mise a proferire le parole: - signor curato, in presenza di questi testimoni, quest’è mia moglie -. Le sue labbra non erano ancora tornate al posto, che don Abbondio, lasciando cader la carta, aveva già afferrata e alzata, con la mancina, la lucerna, ghermito, con la diritta, il tappeto del tavolino, e tiratolo a sé, con furia, buttando in terra libro, carta, calamaio e polverino [4]; e, balzando tra la seggiola e il tavolino, s’era avvicinato a Lucia. La poveretta, con quella sua voce soave, e allora tutta tremante, aveva appena potuto proferire: - e questo... - che don Abbondio le aveva buttato sgarbatamente il tappeto sulla testa e sul viso, per impedirle di pronunziare intera la formola. E subito, lasciata cader la lucerna che teneva nell’altra mano, s’aiutò anche con quella a imbacuccarla col tappeto, che quasi la soffogava; e intanto gridava quanto n’aveva in canna: - Perpetua! Perpetua! tradimento! aiuto! - Il lucignolo, che moriva sul pavimento, mandava una luce languida e saltellante sopra Lucia, la quale, affatto smarrita, non tentava neppure di svolgersi, e poteva parere una statua abbozzata in creta, sulla quale l’artefice ha gettato un umido panno. Cessata ogni luce, don Abbondio lasciò la poveretta, e andò cercando a tastoni l’uscio che metteva a una stanza più interna; lo trovò, entrò in quella, si chiuse dentro, gridando tuttavia: - Perpetua! tradimento! aiuto! fuori di questa casa! fuori di questa casa! - Nell’altra stanza, tutto era confusione: Renzo, cercando di fermare il curato, e remando con le mani, come se facesse a mosca cieca, era arrivato all’uscio, e picchiava, gridando: - apra, apra; non faccia schiamazzo -. Lucia chiamava Renzo, con voce fioca, e diceva, pregando: - andiamo, andiamo, per l’amor di Dio -. Tonio, carpone, andava spazzando con le mani il pavimento, per veder di raccapezzare la sua ricevuta. Gervaso, spiritato, gridava e saltellava, cercando l’uscio di scala, per uscire a salvamento. In mezzo a questo serra serra, non possiam lasciar di fermarci un momento a fare una riflessione. Renzo, che strepitava di notte in casa altrui, che vi s’era introdotto di soppiatto, e teneva il padrone stesso assediato in una stanza, ha tutta l’apparenza d’un oppressore; eppure, alla fin de’ fatti, era l’oppresso. Don Abbondio, sorpreso, messo in fuga, spaventato, mentre attendeva tranquillamente a’ fatti suoi, parrebbe la vittima; eppure, in realtà, era lui che faceva un sopruso. Così va spesso il mondo... voglio dire, così andava nel secolo decimo settimo. L’assediato, vedendo che il nemico non dava segno di ritirarsi, aprì una finestra che guardava sulla piazza della chiesa, e si diede a gridare: - aiuto! aiuto! - Era il più bel chiaro di luna; l’ombra della chiesa, e più in fuori l’ombra lunga ed acuta del campanile, si stendeva bruna e spiccata sul piano erboso e lucente della piazza: ogni oggetto si poteva distinguere, quasi come di giorno. Ma, fin dove arrivava lo sguardo, non appariva indizio di persona vivente. Contiguo però al muro laterale della chiesa, e appunto dal lato che rispondeva verso la casa parrocchiale, era un piccolo abituro, un bugigattolo, dove dormiva il sagrestano. Fu questo riscosso da quel disordinato grido, fece un salto, scese il letto in furia, aprì l’impannata d’una sua finestrina, mise fuori la testa, con gli occhi tra’ peli, e disse: - cosa c’è? - Correte, Ambrogio! aiuto! gente in casa, - gridò verso lui don Abbondio. - Vengo subito, - rispose quello; tirò indietro la testa, richiuse la sua impannata, e, quantunque mezzo tra ‘l sonno, e più che mezzo sbigottito, trovò su due piedi un espediente per dar più aiuto di quello che gli si chiedeva, senza mettersi lui nel tafferuglio, quale si fosse. Dà di piglio alle brache, che teneva sul letto; se le caccia sotto il braccio, come un cappello di gala, e giù balzelloni per una scaletta di legno; corre al campanile, afferra la corda della più grossa di due campanette che c’erano, e suona a martello. Ton, ton, ton, ton: i contadini balzano a sedere sul letto; i giovinetti sdraiati sul fenile, tendon l’orecchio, si rizzano. - Cos’è? Cos’è? Campana a martello! fuoco? ladri? banditi? - Molte donne consigliano, pregano i mariti, di non moversi, di lasciar correre gli altri: alcuni s’alzano, e vanno alla finestra: i poltroni, come se si arrendessero alle preghiere, ritornan sotto: i più curiosi e più bravi scendono a prender le forche e gli schioppi, per correre al rumore: altri stanno a vedere. Ma, prima che quelli fossero all’ordine, prima anzi che fosser ben desti, il rumore era giunto agli orecchi d’altre persone che vegliavano, non lontano, ritte e vestite: i bravi in un luogo, Agnese e Perpetua in un altro. Diremo prima brevemente ciò che facesser coloro, dal momento in cui gli abbiamo lasciati, parte nel casolare e parte all’osteria. Questi tre, quando videro tutti gli usci chiusi e la strada deserta, uscirono in fretta, come se si fossero avvisti d’aver fatto tardi, e dicendo di voler andar subito a casa; diedero una giravolta per il paese, per venire in chiaro se tutti eran ritirati- e in fatti, non incontrarono anima vivente, né sentirono il più piccolo strepito. Passarono anche, pian piano, davanti alla nostra povera casetta: la più quieta di tutte, giacché non c’era più nessuno. Andarono allora diviato [5] al casolare, e fecero la loro relazione al signor Griso. Subito, questo si mise in testa un cappellaccio, sulle spalle un sanrocchino di tela incerata, sparso di conchiglie; prese un bordone da pellegrino [6], disse: - andiamo da bravi: zitti, e attenti agli ordini -, s’incamminò il primo, gli altri dietro; e, in un momento, arrivarono alla casetta, per una strada opposta a quella per cui se n’era allontanata la nostra brigatella, andando anch’essa alla sua spedizione. Il Griso trattenne la truppa, alcuni passi lontano, andò innanzi solo ad esplorare, e, visto tutto deserto e tranquillo di fuori fece venire avanti due di quei tristi, diede loro ordine di scalar adagino il muro che chiudeva il cortiletto, e, calati dentro, nascondersi in un angolo, dietro un folto fico, sul quale aveva messo l’occhio, la mattina. Ciò fatto, picchiò pian piano, con intenzione di dirsi un pellegrino smarrito, che chiedeva ricovero, fino a giorno. Nessun risponde: ripicchia un po’ più forte; nemmeno uno zitto [7]. Allora, va a chiamare un terzo malandrino, lo fa scendere nel cortiletto, come gli altri due, con l’ordine di sconficcare adagio il paletto, per aver libero l’ingresso e la ritirata. Tutto s’eseguisce con gran cautela, e con prospero successo. Va a chiamar gli altri, li fa entrar con sé, li manda a nascondersi accanto ai primi; accosta adagio adagio l’uscio di strada, vi posta due sentinelle di dentro; e va diritto all’uscio del terreno. Picchia anche lì, e aspetta: e’ poteva ben aspettare. Sconficca pian pianissimo anche quell’uscio: nessuno di dentro dice: chi va là?; nessuno si fa sentire: meglio non può andare. Avanti dunque : - st -, chiama quei del fico, entra con loro nella stanza terrena, dove, la mattina, aveva scelleratamente accattato quel pezzo di pane. Cava fuori esca, pietra, acciarino e zolfanelli, accende un suo lanternino, entra nell’altra stanza più interna, per accertarsi che nessun ci sia: non c’è nessuno. Torna indietro, va all’uscio di scala, guarda, porge l’orecchio: solitudine e silenzio. Lascia due altre sentinelle a terreno, si fa venir dietro il Grignapoco, ch’era un bravo del contado di Bergamo, il quale solo doveva minacciare, acchetare, comandare, essere in somma il dicitore, affinché il suo linguaggio potesse far credere ad Agnese che la spedizione veniva da quella parte. Con costui al fianco, e gli altri dietro, il Griso sale adagio adagio, bestemmiando in cuor suo ogni scalino che scricchiolasse, ogni passo di que’ mascalzoni che facesse rumore. Finalmente è in cima. Qui giace la lepre [8]. Spinge mollemente l’uscio che mette alla prima stanza; l’uscio cede, si fa spiraglio: vi mette l’occhio; è buio: vi mette l’orecchio, per sentire se qualcheduno russa, fiata, brulica là dentro; niente. Dunque avanti: si mette la lanterna davanti al viso, per vedere, senza esser veduto, spalanca l’uscio, vede un letto; addosso: il letto è fatto e spianato, con la rimboccatura arrovesciata, e composta sul capezzale. Si stringe nelle spalle, si volta alla compagnia, accenna loro che va a vedere nell’altra stanza, e che gli vengan dietro pian piano; entra, fa le stesse cerimonie, trova la stessa cosa. - Che diavolo è questo? - dice allora: - che qualche cane traditore abbia fatto la spia? - Si metton tutti, con men cautela, a guardare, a tastare per ogni canto, buttan sottosopra la casa. Mentre costoro sono in tali faccende, i due che fan la guardia all’uscio di strada, sentono un calpestìo di passini frettolosi, che s’avvicinano in fretta; s’immaginano che, chiunque sia, passerà diritto; stan quieti, e, a buon conto, si mettono all’erta. In fatti, il calpestìo si ferma appunto all’uscio. Era Menico che veniva di corsa, mandato dal padre Cristoforo ad avvisar le due donne che, per l’amor del cielo, scappassero subito di casa, e si rifugiassero al convento, perché... il perché lo sapete. Prende la maniglia del paletto, per picchiare, e se lo sente tentennare in mano, schiodato e sconficcato. “Che è questo?” pensa; e spinge l’uscio con paura: quello s’apre. Menico mette il piede dentro, in gran sospetto, e si sente a un punto acchiappar per le braccia, e due voci sommesse, a destra e a sinistra, che dicono, in tono minaccioso: - zitto! o sei morto -. Lui in vece caccia un urlo: uno di que’ malandrini gli mette una mano alla bocca; l’altro tira fuori un coltellaccio, per fargli paura. Il garzoncello trema come una foglia, e non tenta neppur di gridare; ma, tutt’a un tratto, in vece di lui, e con ben altro tono, si fa sentir quel primo tocco di campana così fatto, e dietro una tempesta di rintocchi in fila. Chi è in difetto è in sospetto, dice il proverbio milanese: all’uno e all’altro furfante parve di sentire in que’ tocchi il suo nome, cognome e soprannome: lasciano andar le braccia di Menico, ritirano le loro in furia, spalancan la mano e la bocca, si guardano in viso, e corrono alla casa, dov’era il grosso della compagnia. Menico, via a gambe per la strada, alla volta del campanile, dove a buon conto qualcheduno ci doveva essere. Agli altri furfanti che frugavan la casa, dall’alto al basso, il terribile tocco fece la stessa impressione: si confondono, si scompigliano, s’urtano a vicenda: ognuno cerca la strada più corta, per arrivare all’uscio. Eppure era tutta gente provata e avvezza a mostrare il viso; ma non poterono star saldi contro un pericolo indeterminato, e che non s’era fatto vedere un po’ da lontano, prima di venir loro addosso. Ci volle tutta la superiorità del Griso a tenerli insieme, tanto che fosse ritirata e non fuga. Come il cane che scorta una mandra di porci [9], corre or qua or là a quei che si sbandano; ne addenta uno per un orecchio, e lo tira in ischiera; ne spinge un altro col muso; abbaia a un altro che esce di fila in quel momento; così il pellegrino acciuffa un di coloro, che già toccava la soglia, e lo strappa indietro; caccia indietro col bordone uno e un altro che s’avviavan da quella parte: grida agli altri che corron qua e là, senza saper dove; tanto che li raccozzò tutti nel mezzo del cortiletto. - Presto, presto! pistole in mano, coltelli in pronto, tutti insieme; e poi anderemo: così si va. Chi volete che ci tocchi, se stiam ben insieme, sciocconi? Ma, se ci lasciamo acchiappare a uno a uno, anche i villani ce ne daranno. Vergogna! Dietro a me, e uniti -. Dopo questa breve aringa, si mise alla fronte [10], e uscì il primo. La casa, come abbiam detto, era in fondo al villaggio; il Griso prese la strada che metteva fuori, e tutti gli andaron dietro in buon ordine. Lasciamoli andare, e torniamo un passo indietro a prendere Agnese e Perpetua, che abbiam lasciate in una certa stradetta. Agnese aveva procurato d’allontanar l’altra dalla casa di don Abbondio, il più che fosse possibile; e, fino a un certo punto, la cosa era andata bene. Ma tutt’a un tratto, la serva s’era ricordata dell’uscio rimasto aperto, e aveva voluto tornare indietro. Non c’era che ridire: Agnese, per non farle nascere qualche sospetto, aveva dovuto voltar con lei, e andarle dietro, cercando di trattenerla, ogni volta che la vedesse riscaldata ben bene nel racconto di que’ tali matrimoni andati a monte. Mostrava di darle molta udienza, e, ogni tanto, per far vedere che stava attenta, o per ravviare il cicalìo, diceva: - sicuro: adesso capisco: va benissimo: è chiara: e poi? e lui? e voi? - Ma intanto, faceva un altro discorso con sé stessa. “Saranno usciti a quest’ora? o saranno ancor dentro? Che sciocchi che siamo stati tutt’e tre, a non concertar qualche segnale, per avvisarmi, quando la cosa fosse riuscita! È stata proprio grossa! Ma è fatta: ora non c’è altro che tener costei a bada, più che posso: alla peggio, sarà un po’ di tempo perduto”. Così, a corserelle e a fermatine, eran tornate poco distante dalla casa di don Abbondio, la quale però non vedevano, per ragione di quella cantonata: e Perpetua, trovandosi a un punto importante del racconto, s’era lasciata fermare senza far resistenza, anzi senza avvedersene; quando, tutt’a un tratto, si sentì venir rimbombando dall’alto, nel vano immoto dell’aria, per l’ampio silenzio della notte, quel primo sgangherato grido di don Abbondio: - aiuto! aiuto! - Misericordia! cos’è stato? - gridò Perpetua, e volle correre. - Cosa c’è? cosa c’è? - disse Agnese, tenendola per la sottana. - Misericordia! non avete sentito? - replicò quella, svincolandosi. - Cosa c’è? cosa c’è? - ripeté Agnese, afferrandola per un braccio. - Diavolo d’una donna! - esclamò Perpetua, rispingendola, per mettersi in libertà; e prese la rincorsa. Quando, più lontano, più acuto, più istantaneo, si sente l’urlo di Menico. - Misericordia! - grida anche Agnese; e di galoppo dietro l’altra. Avevan quasi appena alzati i calcagni, quando scoccò la campana: un tocco, e due, e tre, e seguita: sarebbero stati sproni, se quelle ne avessero avuto bisogno. Perpetua arriva, un momento prima dell’altra; mentre vuole spinger l’uscio, l’uscio si spalanca di dentro, e sulla soglia compariscono Tonio, Gervaso, Renzo, Lucia, che, trovata la scala, eran venuti giù saltelloni; e, sentendo poi quel terribile scampanìo, correvano in furia, a mettersi in salvo. - Cosa c’è? cosa c’è? - domandò Perpetua ansante ai fratelli, che le risposero con un urtone, e scantonarono. - E voi! come! che fate qui voi? - domandò poscia [11] all’altra coppia, quando l’ebbe raffigurata. Ma quelli pure usciron senza rispondere. Perpetua, per accorrere dove il bisogno era maggiore, non domandò altro, entrò in fretta nell’andito, e corse, come poteva al buio, verso la scala. I due sposi rimasti promessi si trovarono in faccia Agnese, che arrivava tutt’affannata. - Ah siete qui! - disse questa, cavando fuori la parola a stento: - com’è andata? cos’è la campana? mi par d’aver sentito... - A casa, a casa, - diceva Renzo, - prima che venga gente -. E s avviavano; ma arriva Menico di corsa, li riconosce, li ferma, e, ancor tutto tremante, con voce mezza fioca, dice: - dove andate? indietro, indietro! per di qua, al convento! - Sei tu che...? - cominciava Agnese. - Cosa c’è d’altro? - domandava Renzo. Lucia, tutta smarrita, taceva e tremava. - C’è il diavolo in casa, - riprese Menico ansante. - Gli ho visti io: m’hanno voluto ammazzare: l’ha detto il padre Cristoforo: e anche voi, Renzo, ha detto che veniate subito: e poi gli ho visti io: provvidenza che vi trovo qui tutti! vi dirò poi, quando saremo fuori. Renzo, ch’era il più in sé di tutti, pensò che, di qua o di là, conveniva andar subito, prima che la gente accorresse; e che la più sicura era di far ciò che Menico consigliava, anzi comandava, con la forza d’uno spaventato. Per istrada poi, e fuor del pericolo, si potrebbe domandare al ragazzo una spiegazione più chiara. - Cammina avanti, - gli disse. - Andiam con lui, - disse alle donne. Voltarono, s’incamminarono in fretta verso la chiesa, attraversaron la piazza, dove per grazia del cielo, non c’era ancora anima vivente; entrarono in una stradetta che era tra la chiesa e la casa di don Abbondio; al primo buco che videro in una siepe, dentro, e via per i campi. Non s’eran forse allontanati un cinquanta passi, quando la gente cominciò ad accorrere sulla piazza, e ingrossava ogni momento. Si guardavano in viso gli uni con gli altri: ognuno aveva una domanda da fare, nessuno una risposta da dare. I primi arrivati corsero alla porta della chiesa: era serrata. Corsero al campanile di fuori; e uno di quelli, messa la bocca a un finestrino, una specie di feritoia, cacciò dentro un: - che diavolo c’è? - Quando Ambrogio sentì una voce conosciuta, lasciò andar la corda; e assicurato dal ronzìo, ch’era accorso molto popolo, rispose: - vengo ad aprire -. Si mise in fretta l’arnese che aveva portato sotto il braccio, venne, dalla parte di dentro, alla porta della chiesa, e l’aprì. - Cos’è tutto questo fracasso? - Cos’è? - Dov’è? - Chi è? - Come, chi è? - disse Ambrogio, tenendo con una mano un battente della porta, e, con l’altra, il lembo di quel tale arnese, che s’era messo così in fretta: - come! non lo sapete? gente in casa del signor curato. Animo, figliuoli: aiuto -. Si voltan tutti a quella casa, vi s’avvicinano in folla, guardano in su, stanno in orecchi: tutto quieto. Altri corrono dalla parte dove c’era l’uscio: è chiuso, e non par che sia stato toccato. Guardano in su anche loro: non c’è una finestra aperta: non si sente uno zitto. - Chi è là dentro? - Ohe, ohe! - Signor curato! - Signor curato! Don Abbondio, il quale, appena accortosi della fuga degl’invasori, s’era ritirato dalla finestra, e l’aveva richiusa, e che in questo momento stava a bisticciar sottovoce con Perpetua, che l’aveva lasciato solo in quell’imbroglio, dovette, quando si sentì chiamare a voce di popolo, venir di nuovo alla finestra; e visto quel gran soccorso, si pentì d’averlo chiesto. - Cos’è stato? - Che le hanno fatto? - Chi sono costoro? - Dove sono? - gli veniva gridato da cinquanta voci a un tratto. - Non c’è più nessuno: vi ringrazio: tornate pure a casa. - Ma chi è stato? - Dove sono andati? - Che è accaduto? - Cattiva gente, gente che gira di notte; ma sono fuggiti: tornate a casa; non c’è più niente: un’altra volta, figliuoli: vi ringrazio del vostro buon cuore -. E, detto questo, si ritirò, e chiuse la finestra. Qui alcuni cominciarono a brontolare, altri a canzonare, altri a sagrare; altri si stringevan nelle spalle, e se n’andavano: quando arriva uno tutto trafelato, che stentava a formar le parole. Stava costui di casa quasi dirimpetto alle nostre donne, ed essendosi, al rumore, affacciato alla finestra, aveva veduto nel cortiletto quello scompiglio de’ bravi, quando il Griso s’affannava a raccoglierli. Quand’ebbe ripreso fiato, gridò: - che fate qui, figliuoli? non è qui il diavolo; è giù in fondo alla strada, alla casa d’Agnese Mondella: gente armata; son dentro; par che vogliano ammazzare un pellegrino; chi sa che diavolo c’è! - Che? - Che? - Che? - E comincia una consulta tumultuosa. - Bisogna andare. - Bisogna vedere. - Quanti sono? - Quanti siamo? - Chi sono? - Il console! il console! [12] - Son qui, - risponde il console, di mezzo alla folla: - son qui; ma bisogna aiutarmi, bisogna ubbidire. Presto: dov’è il sagrestano? Alla campana, alla campana. Presto: uno che corra a Lecco a cercar soccorso: venite qui tutti... Chi accorre, chi sguizza tra uomo e uomo, e se la batte; il tumulto era grande, quando arriva un altro, che gli aveva veduti partire in fretta, e grida: - correte, figliuoli: ladri, o banditi che scappano con un pellegrino: son già fuori del paese: addosso! addosso! - A quest’avviso, senza aspettar gli ordini del capitano, si movono in massa, e giù alla rinfusa per la strada; di mano in mano che l’esercito s’avanza, qualcheduno di quei della vanguardia rallenta il passo, si lascia sopravanzare, e si ficca nel corpo della battaglia: gli ultimi spingono innanzi: lo sciame confuso giunge finalmente al luogo indicato. Le tracce dell’invasione eran fresche e manifeste: l’uscio spalancato, la serratura sconficcata; ma gl’invasori erano spariti. S’entra nel cortile; si va all’uscio del terreno: aperto e sconficcato anche quello: si chiama: - Agnese! Lucia! Il pellegrino! Dov’è il pellegrino? L’avrà sognato Stefano, il pellegrino. - No, no: l’ha visto anche Carlandrea. Ohe, pellegrino! - Agnese! Lucia! - Nessuno risponde. - Le hanno portate via! Le hanno portate via! - Ci fu allora di quelli che, alzando la voce, proposero d’inseguire i rapitori: che era un’infamità; e sarebbe una vergogna per il paese, se ogni birbone potesse a man salva venire a portar via le donne, come il nibbio i pulcini da un’aia deserta. Nuova consulta e più tumultuosa: ma uno (e non si seppe mai bene chi fosse stato) gettò nella brigata una voce, che Agnese e Lucia s’eran messe in salvo in una casa. La voce corse rapidamente, ottenne credenza; non si parlò più di dar la caccia ai fuggitivi; e la brigata si sparpagliò, andando ognuno a casa sua. Era un bisbiglio, uno strepito, un picchiare e un aprir d’usci, un apparire e uno sparir di lucerne, un interrogare di donne dalle finestre, un rispondere dalla strada. Tornata questa deserta e silenziosa, i discorsi continuaron nelle case, e moriron negli sbadigli, per ricominciar poi la mattina. Fatti però, non ce ne fu altri; se non che, quella medesima mattina, il console, stando nel suo campo, col mento in una mano, e il gomito appoggiato sul manico della vanga mezza ficcata nel terreno, e con un piede sul vangile; stando, dico, a speculare tra sé sui misteri della notte passata, e sulla ragion composta di ciò che gli toccasse a fare, e di ciò che gli convenisse fare, vide venirsi incontro due uomini d’assai gagliarda presenza, chiomati come due re de’ Franchi della prima razza [13], e somigliantissimi nel resto a que’ due che cinque giorni prima avevano affrontato don Abbondio, se pur non eran que’ medesimi. Costoro, con un fare ancor men cerimonioso, intimarono al console che guardasse bene di non far deposizione al podestà dell’accaduto, di non rispondere il vero, caso che ne venisse interrogato, di non ciarlare, di non fomentar le ciarle de’ villani, per quanto aveva cara la speranza di morir di malattia. I nostri fuggiaschi camminarono un pezzo di buon trotto, in silenzio, voltandosi, ora l’uno ora l’altro, a guardare se nessuno gl’inseguiva, tutti in affanno per la fatica della fuga, per il batticuore e per la sospensione in cui erano stati, per il dolore della cattiva riuscita, per l’apprensione confusa del nuovo oscuro pericolo. E ancor più in affanno li teneva l’incalzare continuo di que’ rintocchi, i quali, quanto, per l’allontanarsi, venivan più fiochi e ottusi, tanto pareva che prendessero un non so che di più lugubre e sinistro. Finalmente cessarono. I fuggiaschi allora, trovandosi in un campo disabitato, e non sentendo un alito all’intorno, rallentarono il passo; e fu la prima Agnese che, ripreso fiato, ruppe il silenzio, domandando a Renzo com’era andata, domandando a Menico cosa fosse quel diavolo in casa. Renzo raccontò brevemente la sua trista storia; e tutt’e tre si voltarono al fanciullo, il quale riferì più espressamente l’avviso del padre, e raccontò quello ch’egli stesso aveva veduto e rischiato, e che pur troppo confermava l’avviso. Gli ascoltatori compresero più di quel che Menico avesse saputo dire: a quella scoperta, si sentiron rabbrividire; si fermaron tutt’e tre a un tratto, si guardarono in viso l’un con l’altro, spaventati; e subito, con un movimento unanime, tutt’e tre posero una mano, chi sul capo, chi sulle spalle del ragazzo, come per accarezzarlo, per ringraziarlo tacitamente che fosse stato per loro un angelo tutelare, per dimostrargli la compassione che sentivano dell’angoscia da lui sofferta, e del pericolo corso per la loro salvezza; e quasi per chiedergliene scusa. - Ora torna a casa, perché i tuoi non abbiano a star più in pena per te, - gli disse Agnese; e rammentandosi delle due parpagliole promesse, se ne levò quattro di tasca, e gliele diede, aggiungendo: - basta; prega il Signore che ci rivediamo presto: e allora... - Renzo gli diede una berlinga nuova, e gli raccomandò molto di non dir nulla della commissione avuta dal frate; Lucia l’accarezzò di nuovo, lo salutò con voce accorata; il ragazzo li salutò tutti, intenerito; e tornò indietro. Quelli ripresero la loro strada, tutti pensierosi; le donne innanzi, e Renzo dietro, come per guardia. Lucia stava stretta al braccio della madre, e scansava dolcemente, e con destrezza, l’aiuto che il giovine le offriva ne’ passi malagevoli di quel viaggio fuor di strada; vergognosa in sé, anche in un tale turbamento, d’esser già stata tanto sola con lui, e tanto famigliarmente, quando s’aspettava di divenir sua moglie, tra pochi momenti. Ora, svanito così dolorosamente quel sogno, si pentiva d’essere andata troppo avanti, e, tra tante cagioni di tremare, tremava anche per quel pudore che non nasce dalla trista scienza del male, per quel pudore che ignora se stesso, somigliante alla paura del fanciullo, che trema nelle tenebre, senza saper di che. - E la casa? - disse a un tratto Agnese. Ma, per quanto la domanda fosse importante, nessuno rispose, perché nessuno poteva darle una risposta soddisfacente. Continuarono in silenzio la loro strada, e poco dopo, sboccarono finalmente sulla piazzetta davanti alla chiesa del convento. Renzo s’affacciò alla porta, e la sospinse bel bello [14]. La porta di fatto s’aprì; e la luna, entrando per lo spiraglio, illuminò la faccia pallida, e la barba d’argento del padre Cristoforo, che stava quivi ritto in aspettativa. Visto che non ci mancava nessuno, - Dio sia benedetto! - disse, e fece lor cenno ch’entrassero. Accanto a lui, stava un altro cappuccino; ed era il laico sagrestano, ch’egli, con preghiere e con ragioni, aveva persuaso a vegliar con lui, a lasciar socchiusa la porta, e a starci in sentinella, per accogliere que’ poveri minacciati: e non si richiedeva meno dell’autorità del padre, della sua fama di santo, per ottener dal laico una condiscendenza incomoda, pericolosa e irregolare. Entrati che furono, il padre Cristoforo riaccostò la porta adagio adagio. Allora il sagrestano non poté più reggere, e, chiamato il padre da una parte, gli andava susurrando all’orecchio: - ma padre, padre! di notte... in chiesa... con donne... chiudere... la regola... ma padre! - E tentennava la testa. Mentre diceva stentatamente quelle parole, “vedete un poco!” pensava il padre Cristoforo, “se fosse un masnadiero inseguito, fra Fazio non gli farebbe una difficoltà al mondo; e una povera innocente, che scappa dagli artigli del lupo...” - Omnia munda mundis [15], - disse poi, voltandosi tutt’a un tratto a fra Fazio, e dimenticando che questo non intendeva il latino. Ma una tale dimenticanza fu appunto quella che fece l’effetto. Se il padre si fosse messo a questionare con ragioni, a fra Fazio non sarebber mancate altre ragioni da opporre; e sa il cielo quando e come la cosa sarebbe finita. Ma, al sentir quelle parole gravide d’un senso misterioso, e proferite così risolutamente, gli parve che in quelle dovesse contenersi la soluzione di tutti i suoi dubbi. S’acquietò, e disse: - basta! lei ne sa più di me. - Fidatevi pure, - rispose il padre Cristoforo; e, all’incerto chiarore della lampada che ardeva davanti all’altare, s’accostò ai ricoverati, i quali stavano sospesi aspettando, e disse loro: - figliuoli! ringraziate il Signore, che v’ha scampati da un gran pericolo. Forse in questo momento...! - E qui si mise a spiegare ciò che aveva fatto accennare dal piccol messo: giacché non sospettava ch’essi ne sapesser più di lui, e supponeva che Menico gli avesse trovati tranquilli in casa, prima che arrivassero i malandrini. Nessuno lo disingannò, nemmeno Lucia, la quale però sentiva un rimorso segreto d’una tale dissimulazione, con un tal uomo; ma era la notte degl’imbrogli e de’ sotterfugi. - Dopo di ciò, - continuò egli, - vedete bene, figliuoli, che ora questo paese non è sicuro per voi. È il vostro; ci siete nati; non avete fatto male a nessuno; ma Dio vuol così. È una prova, figliuoli: sopportatela con pazienza, con fiducia, senza odio, e siate sicuri che verrà un tempo in cui vi troverete contenti di ciò che ora accade. Io ho pensato a trovarvi un rifugio, per questi primi momenti. Presto, io spero, potrete ritornar sicuri a casa vostra; a ogni modo, Dio vi provvederà, per il vostro meglio; e io certo mi studierò di non mancare alla grazia che mi fa, scegliendomi per suo ministro, nel servizio di voi suoi poveri cari tribolati. Voi, - continuò volgendosi alle due donne, - potrete fermarvi a *** [16]. Là sarete abbastanza fuori d’ogni pericolo, e, nello stesso tempo, non troppo lontane da casa vostra. Cercate del nostro convento, fate chiamare il padre guardiano, dategli questa lettera: sarà per voi un altro fra Cristoforo. E anche tu, il mio Renzo, anche tu devi metterti, per ora, in salvo dalla rabbia degli altri, e dalla tua. Porta questa lettera al padre Bonaventura da Lodi, nel nostro convento di Porta Orientale in Milano. Egli ti farà da padre, ti guiderà, ti troverà del lavoro, per fin che tu non possa tornare a viver qui tranquillamente. Andate alla riva del lago, vicino allo sbocco del Bione -. È un torrente a pochi passi da Pescarenico. - Lì vedrete un battello fermo; direte: barca; vi sarà domandato per chi; risponderete: san Francesco. La barca vi riceverà, vi trasporterà all’altra riva, dove troverete un baroccio [17] che vi condurrà addirittura fino a ***. Chi domandasse come fra Cristoforo avesse così subito a sua disposizione que’ mezzi di trasporto, per acqua e per terra, farebbe vedere di non conoscere qual fosse il potere d’un cappuccino tenuto in concetto di santo. Restava da pensare alla custodia delle case. Il padre ne ricevette le chiavi, incaricandosi di consegnarle a quelli che Renzo e Agnese gl’indicarono. Quest’ultima, levandosi di tasca la sua, mise un gran sospiro, pensando che, in quel momento, la casa era aperta, che c’era stato il diavolo, e chi sa cosa ci rimaneva da custodire! - Prima che partiate, - disse il padre, - preghiamo tutti insieme il Signore, perché sia con voi, in codesto viaggio, e sempre; e sopra tutto vi dia forza, vi dia amore di volere ciò ch’Egli ha voluto -. Così dicendo s’inginocchiò nel mezzo della chiesa; e tutti fecer lo stesso. Dopo ch’ebbero pregato, alcuni momenti, in silenzio, il padre, con voce sommessa, ma distinta, articolò queste parole: - noi vi preghiamo ancora per quel poveretto che ci ha condotti a questo passo. Noi saremmo indegni della vostra misericordia, se non ve la chiedessimo di cuore per lui; ne ha tanto bisogno! Noi, nella nostra tribolazione, abbiamo questo conforto, che siamo nella strada dove ci avete messi Voi: possiamo offrirvi i nostri guai; e diventano un guadagno. Ma lui!... è vostro nemico. Oh disgraziato! compete con Voi! Abbiate pietà di lui, o Signore, toccategli il cuore, rendetelo vostro amico, concedetegli tutti i beni che noi possiamo desiderare a noi stessi. Alzatosi poi, come in fretta, disse: - via, figliuoli, non c’è tempo da perdere: Dio vi guardi, il suo angelo v’accompagni: andate -. E mentre s’avviavano, con quella commozione che non trova parole, e che si manifesta senza di esse, il padre soggiunse, con voce alterata: - il cuor mi dice che ci rivedremo presto. Certo, il cuore, chi gli dà retta, ha sempre qualche cosa da dire su quello che sarà. Ma che sa il cuore? Appena un poco di quello che è già accaduto. Senza aspettar risposta, fra Cristoforo, andò verso la sagrestia; i viaggiatori usciron di chiesa; e fra Fazio chiuse la porta, dando loro un addio, con la voce alterata anche lui. Essi s’avviarono zitti zitti alla riva ch’era stata loro indicata; videro il battello pronto, e data e barattata la parola, c’entrarono. Il barcaiolo, puntando un remo alla proda, se ne staccò; afferrato poi l’altro remo, e vogando a due braccia, prese il largo, verso la spiaggia opposta. Non tirava un alito di vento; il lago giaceva liscio e piano, e sarebbe parso immobile, se non fosse stato il tremolare e l’ondeggiar leggiero della luna, che vi si specchiava da mezzo il cielo. S’udiva soltanto il fiotto morto e lento frangersi sulle ghiaie del lido, il gorgoglìo più lontano dell’acqua rotta tra le pile del ponte, e il tonfo misurato di que’ due remi, che tagliavano la superficie azzurra del lago, uscivano a un colpo grondanti, e si rituffavano. L’onda segata dalla barca, riunendosi dietro la poppa, segnava una striscia increspata, che s’andava allontanando dal lido. I passeggieri silenziosi, con la testa voltata indietro, guardavano i monti, e il paese rischiarato dalla luna, e variato qua e là di grand’ombre. Si distinguevano i villaggi, le case, le capanne: il palazzotto di don Rodrigo, con la sua torre piatta, elevato sopra le casucce ammucchiate alla falda del promontorio, pareva un feroce che, ritto nelle tenebre, in mezzo a una compagnia d’addormentati, vegliasse, meditando un delitto. Lucia lo vide, e rabbrividì; scese con l’occhio giù giù per la china, fino al suo paesello, guardò fisso all’estremità, scoprì la sua casetta, scoprì la chioma folta del fico che sopravanzava il muro del cortile, scoprì la finestra della sua camera; e, seduta, com’era, nel fondo della barca, posò il braccio sulla sponda, posò sul braccio la fronte, come per dormire, e pianse segretamente. Addio, monti sorgenti dall’acque, ed elevati al cielo; cime inuguali, note a chi è cresciuto tra voi, e impresse nella sua mente, non meno che lo sia l’aspetto de’ suoi più familiari; torrenti, de’ quali distingue lo scroscio, come il suono delle voci domestiche; ville sparse e biancheggianti sul pendìo, come branchi di pecore pascenti; addio! Quanto è tristo il passo di chi, cresciuto tra voi, se ne allontana! Alla fantasia di quello stesso che se ne parte volontariamente, tratto dalla speranza di fare altrove fortuna, si disabbelliscono, in quel momento, i sogni della ricchezza; egli si maraviglia d’essersi potuto risolvere [18], e tornerebbe allora indietro, se non pensasse che, un giorno, tornerà dovizioso. Quanto più si avanza nel piano, il suo occhio si ritira, disgustato e stanco, da quell’ampiezza uniforme; l’aria gli par gravosa e morta; s’inoltra mesto e disattento nelle città tumultuose; le case aggiunte a case, le strade che sboccano nelle strade, pare che gli levino il respiro; e davanti agli edifizi ammirati dallo straniero, pensa, con desiderio inquieto, al campicello del suo paese, alla casuccia a cui ha già messo gli occhi addosso, da gran tempo, e che comprerà, tornando ricco a’ suoi monti. Ma chi non aveva mai spinto al di là di quelli neppure un desiderio fuggitivo, chi aveva composti in essi tutti i disegni dell’avvenire, e n’è sbalzato lontano, da una forza perversa! Chi, staccato a un tempo dalle più care abitudini, e disturbato nelle più care speranze, lascia que’ monti, per avviarsi in traccia di sconosciuti che non ha mai desiderato di conoscere, e non può con l’immaginazione arrivare a un momento stabilito per il ritorno! Addio, casa natìa, dove, sedendo, con un pensiero occulto, s’imparò a distinguere dal rumore de’ passi comuni il rumore d’un passo aspettato con un misterioso timore. Addio, casa ancora straniera [19], casa sogguardata tante volte alla sfuggita, passando, e non senza rossore; nella quale la mente si figurava un soggiorno tranquillo e perpetuo di sposa. Addio, chiesa, dove l’animo tornò tante volte sereno, cantando le lodi del Signore; dov’era promesso, preparato un rito; dove il sospiro segreto del cuore doveva essere solennemente benedetto, e l’amore venir comandato, e chiamarsi santo; addio! Chi dava a voi tanta giocondità è per tutto; e non turba mai la gioia de’ suoi figli, se non per prepararne loro una più certa e più grande [20]. Di tal genere, se non tali appunto, erano i pensieri di Lucia, e poco diversi i pensieri degli altri due pellegrini, mentre la barca gli andava avvicinando alla riva destra dell’Adda. |
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Note
- Filosofo e oratore di Cirene (214-129 a.C.), prese parte all'ambasceria che giunse a Roma nel 155 a.C. e fu cacciata dalla città per iniziativa di Catone il Censore; è elogiato da Cicerone nel De officiis.
- Discorso di elogio (questo fu pronunciato da P. Vincenzo Tasca il 4 nov. 1626, nel duomo di Milano, in onore appunto di S. Carlo Borromeo).
- Tonio chiede al curato che gli rilasci una ricevuta dell'avvenuto pagamento.
- Il recipiente che conteneva la polvere usata per asciugare l'inchiostro.
- Direttamente.
- Il sanrocchino era il mantello usato dai pellegrini, particolarmente devoti a S. Rocco, mentre le conchiglie e il bastone sono tipici attributi di S. Giacomo (il cui sepolcro a Santiago de Compostela, in Spagna, è tuttora oggetto di frequenti pellegrinaggi).
- Neppure il minimo rumore.
- L'autore allude a Lucia, che è come la preda del "cacciatore" Griso (l'affermazione suona vagamente ironica nei confronti del malvivente).
- Il paragone è desisamente sarcastico e squalificante per il Griso.
- Dopo questo breve discorso, si mise in testa.
- Poi, in seguito (è forma arcaica del fiorentino letterario).
- Era il magistrato che nei piccoli paesi svolgeva le funzioni dell'attuale sindaco, anche se con limitati poteri.
- Con lunghi capelli, come i re dei Franchi Merovingi (il paragone è ironico).
- Pian pianino, lentamente.
- La frase è citata dalla lettera di S. Paolo a Tito (I, 15).
- Si tratta di Monza, come Manzoni preciserà nel cap. IX.
- Una specie di calesse.
- Decidere.
- Si tratta della casa di Renzo, dove Lucia sarebbe entrata come sua moglie.
- L'autore accenna alla Provvidenza, che certo non sottoporrebbe i due giovani a una tale prova se non riserbasse loro una ricompensa per l'avvenire.