Angelandrea Zottoli
"La debolezza di Gertrude"
In queste pagine dedicate al personaggio di Gertrude il critico sottolinea l'orgoglio e il carattere debole della giovane, che desidera i privilegi della sua condizione aristocratica ma non ha la forza di ribellarsi alle decisioni altrui, dunque finisce per soccombere ed essere risucchiata in un vortice di peccati e delitti (la sua indole non è malvagia e perciò è portata al crimine dalla volontà di altri, a causa della sua scarsa determinazione). L'autore non nasconde le responsabilità di coloro che la forzano a un destino che non è il suo (il padre, la badessa, Egidio...), tuttavia sottolinea le colpe individuali della "Signora" che sono da ricondurre in gran parte a lei, secondo quella visione morale per cui la responsabilità del male commesso è del singolo e non può trovare scuse nella coercizione esercitata da altri.
A. Zottoli (1879-1956) è stato critico letterario e ha collaborato con l'Istituto dell'Enciclopedia Italiana, diventando anche socio dell'Accademia dei Lincei. La sua attività critica, fuori degli schemi del "crocianesimo" dominante nel primo Novecento, ha avuto come oggetto la poesia di Boiardo, Ariosto, Leopardi.
A. Zottoli (1879-1956) è stato critico letterario e ha collaborato con l'Istituto dell'Enciclopedia Italiana, diventando anche socio dell'Accademia dei Lincei. La sua attività critica, fuori degli schemi del "crocianesimo" dominante nel primo Novecento, ha avuto come oggetto la poesia di Boiardo, Ariosto, Leopardi.
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Gertrude era colei che non sapeva resistere alle sue passioni [...] e perciò era la debole. Era venuta al mondo appunto per vivere quel fato che era scritto prima che essa nascesse: per decidere della sua sorte non occorreva il suo consenso, ma solo la sua presenza... "Non diceva nulla, non faceva nulla, ma tutto ciò che si faceva attorno a lei, la poneva in una situazione nella quale il disdirsi, appena il mover dubbio sulla sua risoluzione, il fermarsi un momento avrebbe avuto sempre più apparenza di una stranezza scandalosa"... [Fermo e Lucia, II, 3].
Quindi non essa veramente agiva, ma gli altri agivano per lei. Manzoni ce la presenta come trasportata da una macchina, che funzionava indipendetemente dalla sua volontà e che essa qualche volta avrebbe voluto, ma non poteva fermare [...]. Il suo costume era di trarsi dalle circostanze difficili con ripieghi che la ponevano in circostanze più difficili ancora, di consumare, per dire così, il tempo avvenire per vivere nel tempo presente. E alla fine, dopo tanti tentativi di differimento, finì per affrettare la sua ruina, cioè la vestizione, "per essere chiusa una volta, per precludersi ogni strada a tornare indietro, per non sentirsi più nascere in cuore quell'intollerabile: potrei forse ancora" [Fermo e Lucia, II, 4].
Non stiamo a ricordare che più o meno farà così anche l'Innominato quando, per chiudere la via alle esitazioni, si affretterà a impegnare la sua parola con don Rodrigo per il ratto di Lucia; l'Innominato agirà in un momento di debolezza contrastante con la sua indole, e non tarderà a riprendersi. Giusto, se mai, potrebbe essere solo il paragone con don Abbondio, quando si accorge di essere atteso dai bravi: "Non potendo schivare il pericolo, vi corse incontro, perché i momenti dell'incertezza erano allora così penosi per lui, che non desiderava altro che d'abbreviarli". È l'atteggiamento dei fiacchi, quello che conviene a Gertrude. Essa, anche quando crede di aver più fermamente risoluto, non sa andar oltre quella che Manzoni chiama operazion passiva [...]: scrive quando dovrebbe parlare; s'abbandona quando dovrebbe resistere.
Indice di fiacchezza è quell'orgoglio che voleva darle un'illusione d'indipendenza, ma in fatto apriva gli aditi del suo cuore a tutte le passioni, chiudendoli alla verità [...]. Esso era in lei non solo una qualità di nascita, ma anche un prodotto, industriosamente coltivato, dell'educazione familiare; ed esso, col conseguente timore dello scandalo, faceva che la rete in cui la sventurata era presa fosse l'opera involontaria delle sue stesse mani, e quanto più nel suo furore impotente tentava di liberarsene, tanto più vi s'impigliava.
Indice di fiacchezza è anche quel ritiro interiore che Gertrude si costruisce, e dove le è dolce ritirarsi dalle lotte che non sa affrontare per idolatrare le sue passioni delicate e violente e vivere nel fulgore delle sue illusioni. È un ritiro che sta nella parte più riposta della sua mente. Ivi le resistenze degli altri non esistono perché non esiste la realtà. Ed ivi essa è padrona; ma basta che ne esca, cioè basta che torni nella vita, perché gli altri divengano nuovamente arbitri dei suoi atti.
Anche al delitto non si risolve per malvagità, perché malvagia non è, e soprattutto perché la malvagità sarebbe un modo come un altro di affermare un'indipendenza che le manca. Ci si risolve perché ci sono altri che vogliono per lei; perché, incapace com'è di affisar la mente in realtà contrastanti alle sue passioni, si è lasciata prendere nell'ingranaggio di una macchina che la porta al delitto [...].
Manzoni che la conosce, nel descrivere la sua vita di educanda, si duole che nel monastero essa non abbia trovato se non "persone le quali non pensano a conoscere un animo per dirigerlo nella sua scelta, ma a fissarlo in una scelta già destinata" [Fermo e Lucia, II, 2]. Forse, scrivendo queste parole, egli per contrasto aveva innanzi alla mente quei direttori spirituali, grandi risvegliatori di energie interiori, che furono vanto di Port Royal. Ma, quand'anche in uno di questi grandi direttori Gertrude avesse avuto la fortuna d'incontrarsi, che cosa sarebbe avvenuto? Forse non sarebbe stata monaca, ma sarebbe stata salvata dal direttore, non da se stessa. Se pure poteva essere salvata. Manzoni in fondo non lo crede. Egli come uomo è pieno di umana pietà per la vittima, sente quasi il bisogno di compiangerla e consolarla fin coi diminutivi e gli aggettivi - Gertrudina, la poveretta, l'innocentina, la sventurata -, ma come giudice è inesorabile. Nota la responsabilità delle persone che, spingendola al delitto, la sagrificano: padre, parenti, esaminatore, monache - non ci manca nessuno, e nessuno potrebbe mancarci, perché questa della responsabilità individuale è, per così dire, la pietra angolare di tutta la sua concezione morale; basta guardare il mondo con gli occhi del Manzoni per non poter sottrarsi al dovere di chiamar ciascuno a rendere conto preciso dei suoi atti. Ma l'affermata responsabilità di tanta gente non gli vela il giudizio. Gertrude è condannata per la sua natura, non per l'opera condannevole quanto si voglia degli altri. Se non ci fossero stati quel padre e quelle monache, non sarebbero mancati altri a profittare di lei, anzi non mancarono appena essa cadde sotto le loro grinfie. Per la sua natura essa non poteva dare un passo che per discendere, e ciò indipendentemente dalle circostanze agevolatrici od ostacolatrici della discesa che potevano esserci nel posto in cui si trovava; era il peso abbandonato destinato a rotolare per forza di gravità; e quindi, se non proprio in quello in cui cadde, in un qualche precipizio era in tutti i modi condannata a cadere. Manzoni lo riconosce quasi esplicitamente. Dopo aver criticato il buon ecclesiastico venuto ad esaminarla, aggiunge: "Del resto noi siamo ben lontani dal dare l'unica colpa, e nemmeno la primaria, della riuscita di quell'esame all'ingegno corrivo del buon uomo. Coi tristi precedenti di Gertrude, e col suo carattere, la cosa doveva avere a un dipresso quell'esito, qualunque fosse stato l'esaminatore" [Fermo e Lucia, II, 4].
Gertrude era la predestinata, appunto perché, nella sua mancanza di forza intima, dipendeva dagli altri; e dagli altri, malgrado il suo sciagurato orgoglio, sentiva di dipendere. Il suo destino non era nella sua volontà, ma in quel volto paterno in cui trovava un sentimento così pauroso di necessità fatale; ma nella gente che la circondava; ma nelle case, con cui il monastero dove l'avevano messa confinava.
E proprio agli altri andava chiedendo la sua salvazione.
Gertrude era colei che non sapeva resistere alle sue passioni [...] e perciò era la debole. Era venuta al mondo appunto per vivere quel fato che era scritto prima che essa nascesse: per decidere della sua sorte non occorreva il suo consenso, ma solo la sua presenza... "Non diceva nulla, non faceva nulla, ma tutto ciò che si faceva attorno a lei, la poneva in una situazione nella quale il disdirsi, appena il mover dubbio sulla sua risoluzione, il fermarsi un momento avrebbe avuto sempre più apparenza di una stranezza scandalosa"... [Fermo e Lucia, II, 3].
Quindi non essa veramente agiva, ma gli altri agivano per lei. Manzoni ce la presenta come trasportata da una macchina, che funzionava indipendetemente dalla sua volontà e che essa qualche volta avrebbe voluto, ma non poteva fermare [...]. Il suo costume era di trarsi dalle circostanze difficili con ripieghi che la ponevano in circostanze più difficili ancora, di consumare, per dire così, il tempo avvenire per vivere nel tempo presente. E alla fine, dopo tanti tentativi di differimento, finì per affrettare la sua ruina, cioè la vestizione, "per essere chiusa una volta, per precludersi ogni strada a tornare indietro, per non sentirsi più nascere in cuore quell'intollerabile: potrei forse ancora" [Fermo e Lucia, II, 4].
Non stiamo a ricordare che più o meno farà così anche l'Innominato quando, per chiudere la via alle esitazioni, si affretterà a impegnare la sua parola con don Rodrigo per il ratto di Lucia; l'Innominato agirà in un momento di debolezza contrastante con la sua indole, e non tarderà a riprendersi. Giusto, se mai, potrebbe essere solo il paragone con don Abbondio, quando si accorge di essere atteso dai bravi: "Non potendo schivare il pericolo, vi corse incontro, perché i momenti dell'incertezza erano allora così penosi per lui, che non desiderava altro che d'abbreviarli". È l'atteggiamento dei fiacchi, quello che conviene a Gertrude. Essa, anche quando crede di aver più fermamente risoluto, non sa andar oltre quella che Manzoni chiama operazion passiva [...]: scrive quando dovrebbe parlare; s'abbandona quando dovrebbe resistere.
Indice di fiacchezza è quell'orgoglio che voleva darle un'illusione d'indipendenza, ma in fatto apriva gli aditi del suo cuore a tutte le passioni, chiudendoli alla verità [...]. Esso era in lei non solo una qualità di nascita, ma anche un prodotto, industriosamente coltivato, dell'educazione familiare; ed esso, col conseguente timore dello scandalo, faceva che la rete in cui la sventurata era presa fosse l'opera involontaria delle sue stesse mani, e quanto più nel suo furore impotente tentava di liberarsene, tanto più vi s'impigliava.
Indice di fiacchezza è anche quel ritiro interiore che Gertrude si costruisce, e dove le è dolce ritirarsi dalle lotte che non sa affrontare per idolatrare le sue passioni delicate e violente e vivere nel fulgore delle sue illusioni. È un ritiro che sta nella parte più riposta della sua mente. Ivi le resistenze degli altri non esistono perché non esiste la realtà. Ed ivi essa è padrona; ma basta che ne esca, cioè basta che torni nella vita, perché gli altri divengano nuovamente arbitri dei suoi atti.
Anche al delitto non si risolve per malvagità, perché malvagia non è, e soprattutto perché la malvagità sarebbe un modo come un altro di affermare un'indipendenza che le manca. Ci si risolve perché ci sono altri che vogliono per lei; perché, incapace com'è di affisar la mente in realtà contrastanti alle sue passioni, si è lasciata prendere nell'ingranaggio di una macchina che la porta al delitto [...].
Manzoni che la conosce, nel descrivere la sua vita di educanda, si duole che nel monastero essa non abbia trovato se non "persone le quali non pensano a conoscere un animo per dirigerlo nella sua scelta, ma a fissarlo in una scelta già destinata" [Fermo e Lucia, II, 2]. Forse, scrivendo queste parole, egli per contrasto aveva innanzi alla mente quei direttori spirituali, grandi risvegliatori di energie interiori, che furono vanto di Port Royal. Ma, quand'anche in uno di questi grandi direttori Gertrude avesse avuto la fortuna d'incontrarsi, che cosa sarebbe avvenuto? Forse non sarebbe stata monaca, ma sarebbe stata salvata dal direttore, non da se stessa. Se pure poteva essere salvata. Manzoni in fondo non lo crede. Egli come uomo è pieno di umana pietà per la vittima, sente quasi il bisogno di compiangerla e consolarla fin coi diminutivi e gli aggettivi - Gertrudina, la poveretta, l'innocentina, la sventurata -, ma come giudice è inesorabile. Nota la responsabilità delle persone che, spingendola al delitto, la sagrificano: padre, parenti, esaminatore, monache - non ci manca nessuno, e nessuno potrebbe mancarci, perché questa della responsabilità individuale è, per così dire, la pietra angolare di tutta la sua concezione morale; basta guardare il mondo con gli occhi del Manzoni per non poter sottrarsi al dovere di chiamar ciascuno a rendere conto preciso dei suoi atti. Ma l'affermata responsabilità di tanta gente non gli vela il giudizio. Gertrude è condannata per la sua natura, non per l'opera condannevole quanto si voglia degli altri. Se non ci fossero stati quel padre e quelle monache, non sarebbero mancati altri a profittare di lei, anzi non mancarono appena essa cadde sotto le loro grinfie. Per la sua natura essa non poteva dare un passo che per discendere, e ciò indipendentemente dalle circostanze agevolatrici od ostacolatrici della discesa che potevano esserci nel posto in cui si trovava; era il peso abbandonato destinato a rotolare per forza di gravità; e quindi, se non proprio in quello in cui cadde, in un qualche precipizio era in tutti i modi condannata a cadere. Manzoni lo riconosce quasi esplicitamente. Dopo aver criticato il buon ecclesiastico venuto ad esaminarla, aggiunge: "Del resto noi siamo ben lontani dal dare l'unica colpa, e nemmeno la primaria, della riuscita di quell'esame all'ingegno corrivo del buon uomo. Coi tristi precedenti di Gertrude, e col suo carattere, la cosa doveva avere a un dipresso quell'esito, qualunque fosse stato l'esaminatore" [Fermo e Lucia, II, 4].
Gertrude era la predestinata, appunto perché, nella sua mancanza di forza intima, dipendeva dagli altri; e dagli altri, malgrado il suo sciagurato orgoglio, sentiva di dipendere. Il suo destino non era nella sua volontà, ma in quel volto paterno in cui trovava un sentimento così pauroso di necessità fatale; ma nella gente che la circondava; ma nelle case, con cui il monastero dove l'avevano messa confinava.
E proprio agli altri andava chiedendo la sua salvazione.
_(da Umili e potenti nella poetica del Manzoni, 1942 - 2a edizione)