Nobiltà e potere nei Promessi sposi
F. Gonin, Gertrude e la sua famiglia
Manzoni non rinuncia a rivolgere un'aspra critica nel romanzo ai membri dell'aristocrazia, accusati di condurre una vita gaudente e dissipata che li porta a compiere abusi e ingiustizie, spesso in nome di una malintesa concezione di decoro e onore nobiliare: il suo bersaglio è soprattutto l'aristocrazia feudale che nel XVII-XVIII secolo godeva di ampi privilegi e sottoponeva le popolazioni contadine a vessazioni e soprusi, benché il romanziere rivolga lo sguardo anche alla nobiltà del suo tempo che stentava a integrarsi nella società borghese uscita dall'età napoleonica (e alla quale lui stesso, giova ricordarlo, apparteneva per nascita). Il rappresentante più tipico di questa nobiltà improduttiva che vive sulle spalle delle classi più umili è naturalmente don Rodrigo, il quale, non contento di trascorrere un'esistenza oziosa nel suo palazzo circondato da servi e bravi, inizia a infastidire Lucia per una sciocca scommessa fatta col conte Attilio e nella quale si intestardisce per una questione di puntiglio cavalleresco. La persecuzione della giovane è una prepotenza di natura sessuale non infrequente nelle zone rurali dell'Italia del Seicento, così come era consueta la connivenza di questi nobili annoiati e soverchiatori con i rappresentanti della giustizia, ad esempio il podestà di Lecco che siede come commensale alla tavola di don Rodrigo: il signorotto si serve anche dell'assistenza dell'avvocato Azzecca-garbugli per aggirare i limiti imposti dalla giustizia, il che delinea un quadro assai misero in cui gli esponenti della nobiltà si fanno beffe della legge e compiono le loro bravate senza temere conseguenze giudiziarie, rispetto alle quali Attilio si mostra ancor meno titubante del cugino (non esita anzi a spronarlo nell'andare fino in fondo ai suoi sporchi progetti per non venir meno alla concezione di decoro familiare, che gli impone la prevaricazione dei contadini che sono sottoposti alla sua signoria). Occasionalmente questi aristocratici di provincia arrivano a coinvolgere nelle loro malefatte anche membri influenti del governo milanese dell'epoca, come fa il conte Attilio quando si rivolge allo zio che fa parte del Consiglio Segreto ed è quindi un esponente di spicco dell'alta politica dello Stato: il conte zio eserciterà indebite pressioni sul padre provinciale dei cappuccini perché trasferisca fra Cristoforo da Pescarenico, e il prelato accoglierà a malincuore questa richiesta per opportunità politica, perché sensibile al linguaggio del potere che anche lui condivide col potente zio di don Rodrigo (il quale agisce all'insaputa delle malefatte del nipote, per proteggere l'onore del blasone di famiglia minacciato dal rischio di uno scandalo).
Le cose non sono diverse quando si parla di una famiglia aristocratica di più alto rango e grado sociale rispetto a quella di Rodrigo e Attilio, vale a dire la casata del principe padre di Gertrude che obbliga la figlia a farsi monaca contro la sua volontà: tutto nasce dalla preoccupazione del nobile che teme di danneggiare il patrimonio di famiglia assegnando una dote per il matrimonio della figlia, per cui decide in modo irrevocabile il suo destino prima che venga al mondo e, in seguito, ricorre ad ogni sotterfugio per costringerla a prendere il velo pur in assenza di una vera vocazione. Il principe ottiene la collaborazione compiacente della badessa del monastero di Monza, fin troppo interessata ad avere l'appoggio politico del gentiluomo accogliendo nel chiostro sua figlia, dunque la superiora diventa complice attiva nell'attirare Gertrude in una vera e propria trappola, usando anche violenze psicologiche pur di forzarla a un passo al quale lei non si sente in nessun modo portata. La conclusione di questa triste vicenda è una vita infelice per la povera Gertrude che sarà indotta a una relazione clandestina e al delitto, oltre ad avere una parte essenziale nel rapimento di Lucia da parte dell'innominato (la vicenda è ispirata a quella reale di Marianna de Leyva, una delle tante giovani aristocratiche costrette alla monacazione dai padri per motivi analoghi a quelle del principe del romanzo).
La critica agli esponenti della nobiltà si accompagna a quella, ancor più sottile e penetrante, dei meccanismi del potere connessi all'aristocrazia, tanto nei comportamenti privati quanto nell'esercizio della pubblica autorità in cui gli uomini di Stato dimostrano gravi mancanze, talvolta dovute a semplice incompetenza e inadeguatezza. Molti sono infatti gli esempi di personaggi storici che, posti a ricoprire un incarico pubblico di grande responsabilità, hanno poi dimostrato la loro inefficienza con gravi conseguenze per la popolazione amministrata: anzitutto il gran cancelliere Antonio Ferrer, che impone in maniera dissennata durante la carestia del 1628 un calmiere sul prezzo del pane che contravviene alle leggi di mercato, provocando così indirettamente il tumulto di S. Martino a Milano (il popolo insorge quando il calmiere viene revocato da un'apposita commissione); l'uomo politico salverà dal linciaggio l'incolpevole vicario di Provvisione, blandendo con parole ingannevoli la folla che assedia la casa del funzionario, e in seguito approverà nuovi provvedimenti per ribassare ancora il prezzo del pane, col risultato di esaurire in fretta le scorte di grano e aggravare ancor di più la già terribile carestia. Altrettanto negativa l'azione di don Gonzalo Fernandez de Cordoba, il governatore dello Stato di Milano che trascura i suoi doveri in quanto impegnato nell'assedio di Casale del Monferrato (nell'ambito della guerra per la successione di Mantova, nata da ridicole questioni dinastiche) e in seguito non prende gli adeguati provvedimenti per fronteggiare il pericolo della peste, venendo infine rimosso dal suo incarico e lasciando Milano tra i fischi e gli insulti della folla. Lo sostituirà Ambrogio Spinola, che però si mostrerà ugualmente incapace a fronteggiare la calamità della peste e non farà nulla per lenire le sofferenze della popolazione, tanto che Manzoni polemizza con gli storici che hanno espresso un giudizio benevolo nei suoi confronti e sottolinea le sue mancanze nel prendersi cura di un popolo che gli è stato dato "in balìa", per opprimerlo e vessarlo in nome di un re straniero (l'autore rimarca il fatto che la dominazione spagnola è all'origine di molte storture del sistema politico, anche se il male è intimamente connesso con l'idea stessa di potere).
La visione del romanziere è dunque estremamente pessimistica e trae origine dalla sua concezione negativa del potere in quanto tale, poiché secondo lui chi è chiamato ad esercitare funzioni di governo e dominio su altri uomini è naturalmente portato a provocare sofferenze negli umili, per malvagità, incuria o semplice incompetenza: non è un caso che la sola eccezione in questo senso sia rappresentata dal cardinal Federigo Borromeo, che è di nobile origine e ricopre un'alta carica ecclesiastica senza macchiarsi di alcuna colpa, per quanto egli non eserciti alcuna posizione di governo e sia dunque un esempio diverso da figure quali Ferrer, don Gonzalo, Ambrogio Spinola. La visione manzoniana deriva da quella "morale dell'inazione" già espressa nell'Adelchi e in base alla quale l'esercizio del potere è irreparabilmente connesso col male, per cui chi è re o detiene un potere su altri uomini non può fare a meno di macchiarsi di gravi colpe: il pessimismo dello scrittore è solo in parte attenuato al tempo del romanzo e ciò spiega perché il libro proponga un'attenta analisi dei meccanismi perversi del potere politico, svelandone le brutture e mostrando spesso gli uomini di potere abili nell'arte della dissimulazione, della menzogna e dell'inganno a danno dei poveri. Ciò si collega anche alla volontà da parte di Manzoni di dedicare la sua indagine storica alle vicende degli umili, di quelle popolazioni che hanno subìto le dissennate decisioni dei potenti senza potersi opporre e hanno sofferto per i loro errori e le loro mancanze, prendendo le distanze dalla storiografia tradizionale che invece si concentrava sulle vicende di sovrani e governanti, i "Prencipi e Potentati, e qualificati Personaggj" di cui parla l'anonimo nell'Introduzione, per rivolgere l'attenzione alle "gente meccaniche, e di piccol affare" come i protagonisti principali della vicenda romanzesca.
Le cose non sono diverse quando si parla di una famiglia aristocratica di più alto rango e grado sociale rispetto a quella di Rodrigo e Attilio, vale a dire la casata del principe padre di Gertrude che obbliga la figlia a farsi monaca contro la sua volontà: tutto nasce dalla preoccupazione del nobile che teme di danneggiare il patrimonio di famiglia assegnando una dote per il matrimonio della figlia, per cui decide in modo irrevocabile il suo destino prima che venga al mondo e, in seguito, ricorre ad ogni sotterfugio per costringerla a prendere il velo pur in assenza di una vera vocazione. Il principe ottiene la collaborazione compiacente della badessa del monastero di Monza, fin troppo interessata ad avere l'appoggio politico del gentiluomo accogliendo nel chiostro sua figlia, dunque la superiora diventa complice attiva nell'attirare Gertrude in una vera e propria trappola, usando anche violenze psicologiche pur di forzarla a un passo al quale lei non si sente in nessun modo portata. La conclusione di questa triste vicenda è una vita infelice per la povera Gertrude che sarà indotta a una relazione clandestina e al delitto, oltre ad avere una parte essenziale nel rapimento di Lucia da parte dell'innominato (la vicenda è ispirata a quella reale di Marianna de Leyva, una delle tante giovani aristocratiche costrette alla monacazione dai padri per motivi analoghi a quelle del principe del romanzo).
La critica agli esponenti della nobiltà si accompagna a quella, ancor più sottile e penetrante, dei meccanismi del potere connessi all'aristocrazia, tanto nei comportamenti privati quanto nell'esercizio della pubblica autorità in cui gli uomini di Stato dimostrano gravi mancanze, talvolta dovute a semplice incompetenza e inadeguatezza. Molti sono infatti gli esempi di personaggi storici che, posti a ricoprire un incarico pubblico di grande responsabilità, hanno poi dimostrato la loro inefficienza con gravi conseguenze per la popolazione amministrata: anzitutto il gran cancelliere Antonio Ferrer, che impone in maniera dissennata durante la carestia del 1628 un calmiere sul prezzo del pane che contravviene alle leggi di mercato, provocando così indirettamente il tumulto di S. Martino a Milano (il popolo insorge quando il calmiere viene revocato da un'apposita commissione); l'uomo politico salverà dal linciaggio l'incolpevole vicario di Provvisione, blandendo con parole ingannevoli la folla che assedia la casa del funzionario, e in seguito approverà nuovi provvedimenti per ribassare ancora il prezzo del pane, col risultato di esaurire in fretta le scorte di grano e aggravare ancor di più la già terribile carestia. Altrettanto negativa l'azione di don Gonzalo Fernandez de Cordoba, il governatore dello Stato di Milano che trascura i suoi doveri in quanto impegnato nell'assedio di Casale del Monferrato (nell'ambito della guerra per la successione di Mantova, nata da ridicole questioni dinastiche) e in seguito non prende gli adeguati provvedimenti per fronteggiare il pericolo della peste, venendo infine rimosso dal suo incarico e lasciando Milano tra i fischi e gli insulti della folla. Lo sostituirà Ambrogio Spinola, che però si mostrerà ugualmente incapace a fronteggiare la calamità della peste e non farà nulla per lenire le sofferenze della popolazione, tanto che Manzoni polemizza con gli storici che hanno espresso un giudizio benevolo nei suoi confronti e sottolinea le sue mancanze nel prendersi cura di un popolo che gli è stato dato "in balìa", per opprimerlo e vessarlo in nome di un re straniero (l'autore rimarca il fatto che la dominazione spagnola è all'origine di molte storture del sistema politico, anche se il male è intimamente connesso con l'idea stessa di potere).
La visione del romanziere è dunque estremamente pessimistica e trae origine dalla sua concezione negativa del potere in quanto tale, poiché secondo lui chi è chiamato ad esercitare funzioni di governo e dominio su altri uomini è naturalmente portato a provocare sofferenze negli umili, per malvagità, incuria o semplice incompetenza: non è un caso che la sola eccezione in questo senso sia rappresentata dal cardinal Federigo Borromeo, che è di nobile origine e ricopre un'alta carica ecclesiastica senza macchiarsi di alcuna colpa, per quanto egli non eserciti alcuna posizione di governo e sia dunque un esempio diverso da figure quali Ferrer, don Gonzalo, Ambrogio Spinola. La visione manzoniana deriva da quella "morale dell'inazione" già espressa nell'Adelchi e in base alla quale l'esercizio del potere è irreparabilmente connesso col male, per cui chi è re o detiene un potere su altri uomini non può fare a meno di macchiarsi di gravi colpe: il pessimismo dello scrittore è solo in parte attenuato al tempo del romanzo e ciò spiega perché il libro proponga un'attenta analisi dei meccanismi perversi del potere politico, svelandone le brutture e mostrando spesso gli uomini di potere abili nell'arte della dissimulazione, della menzogna e dell'inganno a danno dei poveri. Ciò si collega anche alla volontà da parte di Manzoni di dedicare la sua indagine storica alle vicende degli umili, di quelle popolazioni che hanno subìto le dissennate decisioni dei potenti senza potersi opporre e hanno sofferto per i loro errori e le loro mancanze, prendendo le distanze dalla storiografia tradizionale che invece si concentrava sulle vicende di sovrani e governanti, i "Prencipi e Potentati, e qualificati Personaggj" di cui parla l'anonimo nell'Introduzione, per rivolgere l'attenzione alle "gente meccaniche, e di piccol affare" come i protagonisti principali della vicenda romanzesca.