Natalino Sapegno
"Il romanzo della Provvidenza"
Natalino Sapegno
In questa pagina il grande critico novecentesco propone un'interpretazione del romanzo come "epopea della Provvidenza" già sostenuta a suo tempo da Attilio Momigliano, in base alla quale un profondo sentimento religioso circola internamente in tutta l'opera e ne costituisce la trama essenziale, spiegando il dolore e il male della storia alla luce di una serena confidenza in Dio (tale visione è stata messa in discussione dalla critica più recente, incline a considerare la visione religiosa di Manzoni tutt'altro che consolatoria ed edificante ma, al contrario, aperta e problematica, come sostenuto - tra gli altri - da Italo Calvino).
Di dichiarata ispirazione cattolica, N. Sapegno (1901-1990) è stato uno dei principali critici letterari italiani, studioso in particolare di Dante e del Trecento e autore di edizioni e commenti scolastici di classici della nostra letteratura. Intensa è stata la sua corrispondenza con intellettuali del calibro di Attilio Momigliano, Piero Gobetti, Mario Fubini, Carlo Levi.
Di dichiarata ispirazione cattolica, N. Sapegno (1901-1990) è stato uno dei principali critici letterari italiani, studioso in particolare di Dante e del Trecento e autore di edizioni e commenti scolastici di classici della nostra letteratura. Intensa è stata la sua corrispondenza con intellettuali del calibro di Attilio Momigliano, Piero Gobetti, Mario Fubini, Carlo Levi.
__Un alto sentimento religioso circola in ogni parte di quel mondo, penetra in ogni vicenda, sfiora anche i personaggi più tristi e i più vili. L’intervento di Dio negli accadimenti piccoli e grandi è in ogni momento così forte che ti sembra di poterlo toccar con mano: è una presenza paterna, amorosa e severa, che palpita in ogni cosa; e il poeta l’avverte con la fede semplice e intatta dei suoi contadini, della povera gente: “quel che Dio vuole. Lui sa quel che fa; c’è anche per noi”; “lasciamo fare a Quello lassù”; “tiriamo avanti con fede, e Dio ci aiuterà”. E in questo mondo basso, più triste che lieto, l’opera di Dio la senti soprattutto nelle tribolazioni, negli affanni, e in quegli spiragli di luce che s’aprono improvvisi in mezzo alle tenebre dell’angoscia e chiudon le porte alla disperazione. La “provida sventura” del coro d’Ermengarda, il “Dio che atterra e suscita, / che affanna e che consola” dell’Ode napoleonica, sono anche il filo conduttore, la trama segreta del romanzo, ma espressi in termini più semplici, familiari, popolareschi. È il tema che palpita nelle parole di fra Cristoforo ai due sposi finalmente ricongiunti: “Ringraziate il Cielo che v’ha condotti a questo stato, non per mezzo dell’allegrezze turbolente e passeggere, ma co’ travagli e tra le miserie, per disporvi a un’allegrezza raccolta e tranquilla”. Ed era già nella chiusa dell’addio ai monti: “chi dava a voi tanta giocondità è per tutto; e non turba mai la gioia de’ suoi figli se non per prepararne loro una più certa e più grande”. E ritornerà anche nelle meditate conclusioni in cui Lucia e Renzo condenseranno alla fine il frutto e il “sugo” di tutta la loro esperienza. Il pessimismo cristiano dell’Adelchi s’è schiarito e intenerito in questo dono di fiducia e di attesa, in questa luce di “allegrezza raccolta e tranquilla”.
Questa morale, con quel che comporta di rassegnato e di umbratile, è il limite in cui si appuntano le diffidenze e le riserve dei lettori più restii (suonava ostica già a qualche democratico dell’Ottocento, che l’applicava con visione alquanto miope alla lotta politica in corso, e vi fiutava un invito, tutt’altro che conforme ai sentimenti dello scrittore, alla rassegnazione e alla non violenza di fronte all’Austria e al clericalismo retrivo). Limite, ad ogni modo, come s’è già detto, d’ambiente e di situazione storica, d’ideologia storicamente condizionata, insomma, non di arte. Perché la moralità non si sovrappone al racconto, ma lo compenetra e l’illumina dal di dentro: la senti anche nei paesaggi e negli oggetti e nelle peripezie più naturali (nel gran notturno drammatico e musicale del cap. VIII, nella fuga di Renzo da Milano all’Adda, nella descrizione dell’afa e del temporale che mette fine al contagio), ma appunto la senti come un elemento e una luce delle cose e degli avvenimenti, una nota che li completa, e li arricchisce. La sua funzione è, non di fine, bensì di strumento, che fa più penetrante ed intensa l’analisi psicologica e asseconda la ricerca del naturale, del concreto, del vero, nella scelta degli oggetti e nel modo di rappresentarli.
Questa morale, con quel che comporta di rassegnato e di umbratile, è il limite in cui si appuntano le diffidenze e le riserve dei lettori più restii (suonava ostica già a qualche democratico dell’Ottocento, che l’applicava con visione alquanto miope alla lotta politica in corso, e vi fiutava un invito, tutt’altro che conforme ai sentimenti dello scrittore, alla rassegnazione e alla non violenza di fronte all’Austria e al clericalismo retrivo). Limite, ad ogni modo, come s’è già detto, d’ambiente e di situazione storica, d’ideologia storicamente condizionata, insomma, non di arte. Perché la moralità non si sovrappone al racconto, ma lo compenetra e l’illumina dal di dentro: la senti anche nei paesaggi e negli oggetti e nelle peripezie più naturali (nel gran notturno drammatico e musicale del cap. VIII, nella fuga di Renzo da Milano all’Adda, nella descrizione dell’afa e del temporale che mette fine al contagio), ma appunto la senti come un elemento e una luce delle cose e degli avvenimenti, una nota che li completa, e li arricchisce. La sua funzione è, non di fine, bensì di strumento, che fa più penetrante ed intensa l’analisi psicologica e asseconda la ricerca del naturale, del concreto, del vero, nella scelta degli oggetti e nel modo di rappresentarli.
__(da Ritratto del Manzoni e altri saggi, Bari 1962)