Capitolo XXXVIII
G. Bertini, Renzo e Lucia sposi
"Venne la dispensa, venne l'assolutoria, venne quel benedetto giorno: i due promessi andarono, con sicurezza trionfale, proprio a quella chiesa, dove, proprio per bocca di don Abbondio, furono sposi. Un altro trionfo, e ben più singolare, fu l'andare a quel palazzotto; e vi lascio pensare che cose dovessero passar loro per la mente, in far quella salita, all'entrare in quella porta..."
Personaggi:
Luoghi: Tempo: Temi: Trama: |
_Renzo, Lucia, Agnese, don Abbondio, la mercantessa, l'amico di Renzo, il sagrestano Ambrogio, l'erede di don Rodrigo, Bortolo, la gente del Bergamasco
Il Paese di Renzo e Lucia, il palazzo di don Rodrigo, Bergamo Dall'autunno 1630 fino ad alcuni anni dopo il matrimonio La giustizia, Nobiltà e potere, La peste, Chiesa e religione Lucia e la mercantessa tornano in paese. Don Abbondio accampa nuovi pretesti per non celebrare le nozze, poi giunge la notizia della morte di don Rodrigo. Il curato accetta di celebrare il matrimonio e induce l'erede di don Rodrigo ad acquistare i poderi di Renzo e Agnese a un alto prezzo. Renzo e Lucia si sposano, poi partono insieme ad Agnese per il Bergamasco. Iniziali amarezze di Renzo nella nuova patria. Renzo e Bortolo acquistano un filatoio e iniziano una nuova attività. La vita matrimoniale degli sposi e i figli. Il "sugo della storia". |
Lucia e la mercantessa arrivano in paese
Una sera Agnese sente un calesse fermarsi davanti casa e pensa subito possa trattarsi di Lucia: è lei, infatti, appena giunta in compagnia della mercantessa, entrambe ovviamente accolte dalla donna con grandissima gioia. Il mattino dopo Renzo capita a casa di Agnese, per lamentarsi del fatto che Lucia tarda a tornare, e la sorpresa e la gioia di trovare lì la sua amata non si possono descrivere. La ragazza lo saluta col suo solito contegno riservato, ma Renzo sa bene quel che le passa in cuore e che lei non dà a vedere, benché sia evidente che ha un modo di trattare il giovane diverso da quello che usa con gli altri. Lucia lo informa, tra le altre cose, della morte di padre Cristoforo, che Renzo purtroppo si attendeva, ma al di là di queste tristezze il tempo passato insieme alla promessa sposa sembra volare e parlare con lei è sempre piacevole. La mercantessa si dimostra poi un'ottima compagnia, socievole e spiritosa, quale Renzo non avrebbe immaginato quando l'aveva vista al lazzaretto; la donna è diventata anche amica di Agnese e si intrattiene piacevolmente soprattutto con Lucia, che stuzzica amabilmente riuscendo a farle dimostrare tutta l'allegria che ha in cuore.
Don Abbondio accampa nuovi pretesti
Renzo decide infine di recarsi da don Abbondio per concertare il matrimonio e una volta dal curato gli chiede, in modo ironico, se il suo famoso mal di testa gli è passato e può finalmente celebrare le nozze. Don Abbondio non dice di no, ma inizia ad accampare nuovi pretesti per rimandare la cerimonia (Renzo è pur sempre ricercato, non è prudente dire il suo nome in chiesa...), al che il giovane intuisce il vero motivo e gli spiega che don Rodrigo è certamente morto di peste, avendolo lui visto in fin di vita. Il curato protesta che questo non c'entra nulla, anche se non si può escludere che il signorotto si sia salvato nonostante le sue condizioni disperate, tuttavia lui parla per delle buone ragioni e suggerisce a Renzo di sposarsi in un altro paese. Alla fine il giovane preferisce andarsene prima di perdere la pazienza e torna dalle tre donne a riferire tutto, esprimendo anche lui il proposito di sposare Lucia nel paese del Bergamasco dove è già deciso che andranno a vivere. A questo punto la mercantessa propone che siano loro tre donne a tentare di convincere il curato più tardi e nell'attesa prega Renzo di portare lei e Lucia a fare una passeggiata per godersi il bellissimo paesaggio del lago e delle montagne. Durante l'uscita si recano in visita anche dall'amico che ospita Renzo, al quale propongono di venire a pranzare a casa di Agnese tutti i giorni.
Le tre donne dal curato. Renzo informa dell'arrivo del marchese
Dopo pranzo Lucia, Agnese e la mercantessa vanno da don Abbondio, che vedendole arrivare sfoggia una gran faccia tosta e si prodiga in complimenti alle tre donne: le fa accomodare e inizia a portare il discorso lontano dal matrimonio, parlando della peste e delle vicissitudini di Lucia e della vedova, di quello che ha passato lui, rallegrandosi con Agnese del fatto che lei non si è ammalata. Le due donne più anziane spiano il momento opportuno per parlare delle nozze, ma a quel punto il curato inizia a dire che su Renzo pende ancora un mandato di cattura, che sarebbe meglio far in modo di revocarlo, che meglio ancora sarebbe sposarsi nel Bergamasco, e via di questo passo. A un tratto sopraggiunge Renzo, con passo deciso, il quale porta la notizia che è giunto in paese un marchese che si è presentato come l'erede di don Rodrigo ed ha già preso possesso del suo palazzotto: don Abbondio è stupito e incredulo, per cui Renzo gli propone di domandare al sagrestano Ambrogio, che aspetta di fuori e che è a conoscenza di maggiori dettagli sulla cosa. Ambrogio viene fatto entrare e scioglie tutti i dubbi del curato, confermando che don Rodrigo è effettivamente passato a miglior vita.
Il sollievo di don Abbondio per la morte di don Rodrigo
Don Abbondio, alla notizia della morte di don Rodrigo, è preso da un gran sollievo si lascia andare ad affermazioni poco lusinghiere sul defunto signorotto, dicendo anche che c'è la Provvidenza e che la peste, oltre che un flagello, è stata anche una scopa che ha spazzato via malvagi e prepotenti destinati a vivere ancora molti anni. Il curato è felice che il nobile non infastidirà più nessuno coi suoi bravi e la sua arroganza, anche se Renzo ribatte che lui lo ha perdonato di cuore. A questo punto don Abbondio si dice pronto a celebrare le nozze, poiché all'improvviso la "cattura" di Renzo non è più un problema (c'è stato anche un decreto di amnistia emanato per la nascita dell'infante di Spagna) e del resto la peste ha cancellato cose ben più importanti. Il curato esorta addirittura i due promessi a sposarsi nella sua chiesa, cosa che Renzo evidentemente accetta (è venuto per questo...) e manifesta il proposito di informare del matrimonio anche il cardinal Borromeo, cui ora, spiega, deve essere dato il titolo di "eminenza".
Le chiacchiere di don Abbondio con Renzo e le donne
Agnese osserva sommessamente che quando ha incontrato il cardinale le era stato detto di chiamarlo "monsignor illustrissimo", tuttavia don Abbondio le spiega che il papa ha deciso che ai cardinali ora spetta il titolo di "eminenza", a suo dire perché quello di "illustrissimo" è dato ormai a tutti e ha perso importanza; tra un po' vorranno essere chiamati "eminenze" anche vescovi e abati, non però i curati che sono l'ultima ruota del carro e ai quali spetta solo del "reverendo". Tornando al matrimonio, il curato si dice pronto ad annunciarlo in chiesa già la domenica seguente e propone di chiedere la dispensa per gli altri due annunci, cosa che la Curia accorderà in quanto a causa della peste ci sono molte richieste di matrimoni. Quello di Renzo e Lucia è solo uno dei tanti che ci saranno in paese e persino Perpetua, se fosse ancora viva, troverebbe un pretendente; la mercantessa conferma che anche a Milano è la stessa cosa e si schermisce poi all'osservazione del religioso, secondo il quale anche lei troverà presto molti corteggiatori, come pure la stessa Agnese. Don Abbondio aggiunge poi ironiche osservazioni sulla sua età avanzata e parla latino, suscitando le bonarie proteste di Renzo che lo invita a parlare in quella lingua quanto vuole, perché ora non gli importa più nulla; il curato rimprovera a sua volta in modo scherzoso il giovane e Lucia per il "matrimonio a sorpresa" (e Agnese, che li aveva ammaestrati), aggiungendo poi cento altre chiacchiere con una disinvoltura e una parlantina che non dimostrava da tempo, come se si fosse tolto dalle spalle un peso enorme.
Don Abbondio riceve la visita del marchese
Il giorno dopo don Abbondio riceve l'inaspettata e gradita visita del marchese erede di don Rodrigo, un uomo maturo il cui aspetto testimonia la fama di persona dabbene che è nota a tutti. Il nobile porta al curato i saluti del cardinal Borromeo e chiede notizie di Renzo e Lucia, poiché il prelato gli ha spiegato che hanno avuto guai a causa di don Rodrigo: il curato conferma che sono vivi e in procinto di sposarsi, quindi il nobile chiede se possa esserci per lui un modo per riparare ai torti subìti dai giovani, tanto più che egli, rimasto vedovo e senza figli a causa della peste, e con un cospicuo patrimonio, è fin troppo ricco per le sue necessità. Don Abbondio coglie al volo l'occasione e spiega al marchese che i due sposi hanno intenzione di trasferirsi nel Bergamasco e dunque vogliono vendere le case e i terreni, che ovviamente non hanno un grande valore; dati i tempi, inoltre, per i poveri è difficile vendere le loro proprietà a un prezzo ragionevole, per cui il curato propone al nobile di acquistare i poderi per fare un favore ai due giovani (e anche a lui stesso, che si troverà un illustre possidente nella sua parrocchia). Il marchese non solo accetta la proposta, ma chiede a don Abbondio di fissare lui il prezzo e poi chiede di andare subito assieme a casa di Lucia e Agnese, lasciando il curato di stucco. Lungo la strada, don Abbondio ne pensa un'altra e chiede al nobile se gli sia possibile intercedere a favore di Renzo e far revocare la "cattura" che ancora pende sulla sua testa per i fatti del tumulto di S. Martino, nei quali il ragazzo si è trovato immischiato per ignoranza e ingenuità: il curato assicura che Renzo è un bravo giovane e ormai nessuno si cura più di quel fatto, per cui il marchese garantisce che si assume l'impegno di fargli avere l'assolutoria.
Il marchese da Renzo e Lucia
Don Abbondio e il marchese giungono a casa di Agnese e trovano anche Renzo insieme alle tre donne, lasciando tutti stupiti per quella visita straordinaria: il nobile conduce la conversazione in modo molto garbato e accorto, parlando del cardinal Borromeo ed evitando di toccare tasti troppo dolorosi per i due giovani; poi parla della proposta di acquisto dei poderi, pregando il curato di fare da arbitro e proporre un prezzo per le proprietà. Don Abbondio fa mille complimenti e infine suggerisce una cifra che a suo dire è spropositata, tuttavia il marchese finge di aver frainteso e la raddoppia, non volendo poi sentire altre obiezioni. Invita infine la coppia a pranzo al suo palazzo il giorno dopo le nozze, dove tra l'altro si redigerà il contratto di compravendita con tutti i dettagli. Don Abbondio, una volta tornato in canonica, riflette tra sé che la peste ha davvero rimesso le cose a posto e quasi bisognerebbe che ce ne fosse una per generazione, a patto però di salvare la pelle.
Renzo e Lucia finalmente sposi
Giunge la dispensa dagli altri due annunci in chiesa e l'assolutoria di Renzo, quindi il giorno fissato per le nozze i due promessi si presentano trionfalmente all'altare davanti a don Abbondio e diventano finalmente marito e moglie. Il giorno dopo la cerimonia, i due si recano in compagnia del curato, di Agnese e della mercantessa al palazzo di don Rodrigo, dove li attende il marchese suo erede: a entrambi sembra ben strano percorrere quella salita, varcare quella soglia, mentre è ovvio che la gioia di quella giornata sia in parte attenuata dall'assenza di padre Cristoforo, anche se sono certi che ora il frate sta assai meglio di loro. Il marchese li accoglie benevolmente e fa loro molti complimenti, quindi li conduce in un tinello e mette a tavola gli sposi, insieme ad Agnese e alla vedova; si ritira poi a pranzare in un'altra sala in compagnia del curato, benché sarebbe molto più semplice preparare una sola tavola (il marchese, osserva ironicamente l'autore, è un brav'uomo ma non un originale, per cui non si può pretendere che si metta sullo stesso piano di tre popolani e di una borghese).
La vendita dei poderi e i preparativi per la partenza
Dopo i due pranzi viene redatto il contratto di compravendita, non però per mano dell'Azzecca-garbugli ma di un altro avvocato: l'amico e complice di don Rodrigo è morto e la sua salma è sepolta a Canterelli, un cimitero che sorge poco distante da Lecco e dove riposano i morti di una celebre peste, che secondo l'autore è senz'altro quella narrata nel romanzo. Renzo lascia poi il palazzo insieme alle donne col peso del denaro che ha ricevuto, facendo serie riflessioni intorno alla sua vita futura e alle scelte migliori: optare per l'agricoltura o darsi all'industria della seta, impiegando i denari ricevuti dal marchese? Nella sua mente i pro e i contro alle due attività economiche vengono soppesati come nelle discussioni di due accademie del Settecento, ma per Renzo il problema è più pressante perché, avendo necessità pratiche, non gli si può dire semplicemente che agricoltura e industria hanno entrambe lati positivi e sono ugualmente utili all'economia di una nazione.
Renzo, Lucia e Agnese partono per il Bergamasco
A questo punto tutto è pronto per la partenza, dei coniugi Tramaglino e di Agnese per il Bergamasco e della mercantessa per Milano: la separazione avviene con molta commozione e promesse di andarsi a trovare, mentre non meno accorato è il commiato dall'amico ospite di Renzo. E anche l'addio a don Abbondio è tutt'altro che freddo, dal momento che i tre popolani hanno sempre avuto rispetto per il curato e costui, dal canto suo, ha sempre voluto bene a loro (sono i contrasti della vita che rendono tutto difficile). La partenza dal paese natio provoca in Renzo e nelle due donne un po' di pena, tuttavia non dev'essere insopportabile dato che potrebbero restare, ora che don Rodrigo è morto e il bando contro Renzo è stato revocato; e comunque sono ormai decisi a stabilirsi nel paese di Bortolo, decantato dal giovane come un luogo ideale e con condizioni di lavoro molto favorevoli per gli operai della seta, ed è pur vero che nella loro terra hanno vissuto momenti molto amari, per cui il distacco è meno doloroso di quanto si potrebbe pensare (forse, osserva l'autore, i dispiaceri provati nei luoghi dell'infanzia sono anche più tristi da ricordare, per cui la partenza è la soluzione migliore). Una volta trasferitisi nel Bergamasco, tuttavia, le cose non vanno inizialmente nel migliore dei modi, sia pure per questioni di poca importanza.
Le amarezze di Renzo nel paese di Bortolo
Il fatto è che nel paese di Bortolo si è fatto un gran parlare di Lucia e delle sue traversie, perciò si è creata un'ansiosa attesa per l'arrivo della ragazza e una grande curiosità di vedere la sua bellezza che si crede straordinaria: quando però i paesani vedono che la giovane è una contadina dotata di modesta bellezza si fanno commenti non proprio lusinghieri, trovandole ora un difetto ora un altro, se non dicendo che è addirittura brutta. Qualcuno riporta questi giudizi a Renzo e il giovane se la prende a male, osservando spesso che Lucia in fondo non è certo una principessa e che tanta aspettativa era ingiustificata, e cento cose simili. Alla fine il giovane si rende conto che trascorrere la vita in quel paese, così come aveva pensato all'inizio, sarebbe forse la scelta peggiore, anche perché è diventato sgarbato con tutti e trova a sua volta sempre qualcosa da criticare nel posto, cosicché potrebbe persino arrivare alle vie di fatto con qualche compaesano. Fortunatamente è la peste a risolvere ogni cosa: l'epidemia ha infatti ucciso il padrone di un filatoio alle porte di Bergamo, il cui figlio è un giovane scapestrato che non ne vuol sapere e intende vendere a qualunque prezzo, a patto di avere tutto il denaro in contanti. Bortolo viene a sapere la cosa e va a vedere la fabbrica, arrivando a pattuire un ottimo prezzo con il proprietario, tuttavia l'uomo non dispone di tutta la somma necessaria per concludere l'affare e propone a Renzo di mettersi in società con lui, cosa che il cugino accetta prontamente. Renzo decide insomma di dedicarsi all'industria della seta e non più all'agricoltura e, dopo la stipula della compravendita, lui e le due donne vanno a stabilirsi nel nuovo paese, dove Lucia è ben accolta e non suscita alcuna critica, cosa di cui l'uomo è più che soddisfatto.
La vita degli sposi nel nuovo paese
Naturalmente non tutto va sempre per il verso giusto neppure nella nuova patria, ma come osserva l'anonimo, l'uomo è sempre alla ricerca di qualcosa di nuovo ed è simile a un malato che cambia spesso letto, trovando il nuovo sempre più scomodo del vecchio. Per questo, conclude il secentista, è meglio fare opere di carità piuttosto che cercare il benessere, così si potrebbe migliorare la propria condizione. A dispetto di piccole difficoltà, comunque, la nuova vita di Renzo e Lucia scorre tranquilla e sarebbe assai noioso raccontarla tutta. Gli affari vanno presto a gonfie vele, specie grazie a decreti del governo veneto che agevolano i forestieri emigrati, e prima che passi un anno dal matrimonio nasce una bambina, alla quale viene dato il nome di Maria. La coppia ha anche altri figli, amorevolmente accuditi da Agnese ed educati nel migliore dei modi, tanto più che Renzo vuole che imparino a leggere e scrivere per approfittare di una cosa che può portare indubbi vantaggi.
Il "sugo della storia"
Renzo ama raccontare le sue passate avventure e, soprattutto, elencare le molte cose che ha imparato per l'avvenire, tra cui non mettersi nei tumulti, non predicare in piazza, non bere troppo, non tenere in mano il martello delle porte quando c'è intorno gente malintenzionata, non attaccarsi un campanello al piede senza prima aver riflettuto, e molte altre cose simili. Lucia, però, trova che nel ragionamento ci sia qualcosa di sbagliato, e a furia di sentirlo ripetere osserva che lei, i guai, non è andata a cercarli ma ne è stata vittima innocente, a meno di non considerare un errore l'essersi innamorata di Renzo. Dopo qualche discussione, i due coniugi concludono infine che i guai capitano spesso a chi si comporta in modo incauto, ma anche a chi non ne ha alcuna colpa, e che in un caso e nell'altro la fiducia in Dio li rende più sopportabili e li rende utili per una vita migliore. Questa conclusione, trovata da poveri contadini, sembra all'autore come "il sugo di tutta la storia" e perciò gli sembra opportuno metterla alla fine del romanzo: se l'opera, osserva con ironia, è piaciuta ai lettori, questi dovranno voler bene a chi l'ha scritta e un po' anche a chi l'ha rimaneggiata, se invece ne sono stati annoiati credano che non è stato per volontà dello scrittore.
Temi principali e collegamenti
- Il capitolo finale del romanzo è incentrato sul matrimonio dei due promessi che viene finalmente celebrato e, soprattutto, sul loro trasferimento nella nuova patria a Bergamo, dove Renzo inizierà una nuova attività imprenditoriale nella manifattura della seta, completando la sua trasformazione da contadino-operaio a piccolo industriale (sul punto si veda oltre). Il lieto fine è completo, se si eccettuano le amarezze iniziali provate da Renzo nel nuovo paese che danno un sapore di vita quotidiana e ordinaria alle vicende dei sue sposi.
- Il vero protagonista della prima parte del capitolo è don Abbondio, prima comicamente impegnato a eludere la richiesta di celebrare le nozze con nuovi puerili pretesti e poi, alla notizia della morte di don Rodrigo, fin troppo sollecito nel cambiare idea: l'autore crea un voluto contrasto tra la grettezza del curato, che quasi esulta per la morte del signorotto e inneggia alla peste come mezzo per eliminare i fastidi, e la nobiltà di Renzo, che invece ha sinceramente perdonato il suo persecutore. Don Abbondio non mancherà comunque di aiutare concretamente e in modo disinteressato i due sposi, verso i quali nutre un sincero affetto che solo la paura per don Rodrigo aveva soffocato (sul punto si veda oltre).
- Tra le chiacchiere di don Abbondio, vi è anche il riferimento al decreto con cui il 10 giugno 1630 papa Urbano VIII concesse ai cardinali il titolo di "eminenza", che tuttora conservano. Il curato osserva ironicamente che ciò è dovuto al fatto che il titolo di "illustrissimo" prima loro riservato ce l'hanno tutti e perciò è inflazionato, mentre i parroci continueranno a essere chiamati "reverendi".
- Il marchese erede di don Rodrigo è praticamente il solo personaggio nobile del romanzo (a eccezione del cardinal Borromeo, che è suo amico) ad essere presentato in modo positivo, mostrando affabilità nei confronti dei popolani, il desiderio di riparare ai torti del defunto don Rodrigo, nonché una notevole generosità nell'acquistare a caro prezzo le terre di Renzo e Agnese. L'unica nota stonata nel suo comportamento è il fatto di non sedere a tavola con gli sposi e la mercantessa, fatto che l'autore spiega ironicamente in quanto non era un "originale" e non era abbastanza umile per "istar loro in pari": l'allusione è ovviamente al fatto che le barriere sociali sono e restano invalicabili, nonostante le buone intenzioni dell'aristocratico, e ciò è ancora valido al tempo di Manzoni (la cui posizione a riguardo è comunque ambigua, dal momento che la condotta del marchese non viene condannata in modo deciso).
- Viene accennato in modo sbrigativo alla morte dell'Azzecca-garbugli per la peste, col dire che non è lui a redigere il contratto di compravendita delle terre di Renzo e Agnese, ma un altro avvocato, perché l'amico e commensale di don Rodrigo è sepolto al cimitero di Canterelli. Il dottore è l'ultima vittima della peste di un lungo elenco di personaggi negativi del romanzo, tra cui (oltre a don Rodrigo) figurano anche il Griso, il conte Attilio, il podestà e con tutta probabilità il conte zio e il padre provinciale dei cappuccini.
- Alla fine la peste è di non poco aiuto ai due sposi nella loro nuova vita, perché in seguito all'epidemia c'è grande carenza di operai della seta nel Bergamasco e quindi Venezia ne incentiva l'emigrazione dal Milanese (anche con provvedimenti di esenzione fiscale, che per Renzo sono "una nuova cuccagna"), mentre il filatoio acquistato con Bortolo è l'eredità sgradita di un giovane scapestrato che vuole disfarsene a poco prezzo, il cui padre è rimasto vittima del morbo. Nonostante lo sconvolgimento causato dalla morìa, il tessuto sociale ed economico si ricompone e ciò avviene soprattutto grazie alle logiche del libero scambio, come Manzoni (sostenitore convinto delle dottrine liberiste) non manca di sottolineare.
- La prima figlia della coppia viene chiamata Maria, come Renzo aveva suggerito a Lucia al lazzaretto per compensare il mancato rispetto del voto (cap. XXXVI). L'autore ci informa che il padre vuole che i figli imparino a leggere e a scrivere, per approfittare di questa "birberia", dimostrando di aver in parte superato la sua cronica diffidenza verso la parola scritta (cfr. il cap. XXVII e il relativo approfondimento). Curiosamente, nel Fermo e Lucia il primogenito degli sposi è un maschio e una seconda figlia viene chiamata Agnese, mentre non c'è alcun riferimento alla promessa di Renzo riguardo al nome Maria da dare a una bambina (cfr. il brano Il finale della storia).
- La morale conclusiva del romanzo, il "sugo di tutta la storia" affidato alle parole dei due sposi ormai uniti felicemente, è parso a più di un critico banalmente edificante e alquanto riduttivo, per quanto ciò sia coerente con il carattere dei due personaggi: Renzo, che ha affrontato un percorso di maturazione ed evoluzione nel corso della vicenda, pensa alle cose che ha imparato dalle sue traversie e cerca di mettere a frutto gli errori commessi, mentre Lucia, che si è sempre comportata in modo irreprensibile, non può che invocare l'aiuto della Provvidenza per sopportare le difficoltà e confidare in un futuro migliore. Questo è ovviamente il punto di vista di due poveri contadini, ma non esprime fino in fondo il pensiero dell'autore la cui visione è assai più problematica, specie quando dalla dimensione individuale si passa a quella più ampia della storia, in cui la Provvidenza raramente interviene e il "lieto fine" dei protagonisti non sempre si realizza (anzi, spesso è l'ingiustizia che trionfa incontrastata). Manzoni pensa pessimisticamente che solo nella vita ultraterrena ci potrà essere una qualche compensazione per le vittime della storia e tale posizione diventerà più radicale negli anni dopo il 1840, quando rinnegherà il romanzo e si dedicherà in modo esclusivo alla saggistica e alla storiografia.
Il riscatto finale di don Abbondio
F. Hayez, Don Abbondio e Perpetua
Don Abbondio, il personaggio comico per eccellenza del romanzo, appare caratterizzato soprattutto da egoismo e paura e non c'è dubbio che questi due sentimenti lo occupino lungo tutto l'arco della narrazione, al punto da spingerlo a mentire e a venir meno al suo dovere pur di mantenere il suo quieto vivere. È soprattutto la paura a guidare in modo grottesco ogni suo atto e il principale oggetto dei suoi timori assume una precisa identità, quella di don Rodrigo: il tirannello locale coi suoi bravi e le sue minacce incute nel curato un sacro terrore e a dimostrazione di ciò vi è il fatto che don Abbondio non rinuncia a temere per la sua vita (o, per lo meno, per la tranquilla prosecuzione della sua esistenza) neppure quando il signorotto ha lasciato il paese (cap. XXV), perché sa che prima o poi tornerà e dovrà fare i conti con lui, né per sua stessa ammissione il cardinale può "esser per tutto". La paura spinge il curato a cercare ogni sotterfugio, ogni espediente pur di sottrarsi al suo dovere, quando l'adempiere ad esso comporta un qualsiasi rischio, e infatti anche alla fine della vicenda, quando ormai i due promessi sono tornati al paese, accampa pretesti a non finire per non celebrare le nozze, finché non arriva la notizia della morte di don Rodrigo alla quale il curato si abbandona a un poco cristiano sfogo contro il suo persecutore, addirittura elogiando la peste che viene vista come una "scopa" che toglie di mezzo i prepotenti e i malvagi.
Il fatto è che la presenza in paese di un despota come don Rodrigo (ricco, nobile, con un piccolo esercito di sgherri al suo servizio, con protezioni altolocate) costituisce per don Abbondio un assillo e un tormento continuo, per cui solo quando la minaccia è finalmente scongiurata egli può respirare e riprendere la sua tranquilla vita oziosa, anzi, solo in questo momento il curato mostra il suo vero volto che sino allora è rimasto dietro una sorta di maschera. La paura spinge infatti don Abbondio non solo a mentire, ma anche a fingere atteggiamenti e pensieri non suoi, con un'ipocrisia che ha più di un esempio nel romanzo: dalle bugie dette a Renzo per rimandare le nozze, ostentando uno scrupolo per l'osservanza delle regole, al contegno cerimonioso verso l'innominato, fino al preteso timore per Renzo e la sua "cattura" per cui non è il caso di fare il suo nome in chiesa; è come se don Abbondio dovesse sempre fingere di essere ciò che non è, di pensare cose diverse da quelle che ha realmente in animo a causa dei timori che lo assillano, perché dire la verità comporta dei rischi e il curato non è certo il tipo da affrontarli a cuor leggero. Tutto questo però improvvisamente si dissolve all'agognata notizia che don Rodrigo è passato a miglior vita e non tornerà più in paese a dettare legge con la violenza e i suoi potenti amici (il podestà, l'Azzecca-garbugli), essi pure caduti vittime della peste: è questo il primo momento del romanzo in cui il personaggio si libera della maschera indossata finora e si rivela finalmente per quello che è, mostrando tra l'altro non solo un'indole ciarliera e scherzosa quale finora non gli avevamo mai visto, ma addirittura una insolita affezione verso i suoi parrocchiani, che dimostrerà anche in modo concreto nei giorni seguenti. La morte di don Rodrigo sembra infatti aver trasformato il curato, o meglio ne ha svelato l'aspetto che finora era rimasto nascosto per la paura di subire rappresaglie: ora che il malvagio tiranno è stato sostituito da un marchese suo erede che si dimostra uomo di altra tempra, don Abbondio non si limita a celebrare in tutta fretta il matrimonio dei due giovani, ma va oltre e si prodiga per agevolare la loro partenza per il Bergamasco, con un atto di generosità disinteressata che pare addirittura singolare nel personaggio. È lui infatti a proporre al marchese di acquistare le case e i poderi di Renzo e Agnese, tra l'altro a un prezzo assai più alto del valore di mercato, e se in questo suo intervento c'entra la convenienza di avere un ricco feudatario come vicino e compaesano, non vi è dubbio che il suo gesto si rivelerà molto vantaggioso per i due promessi, del resto destinati a lasciare per sempre quella terra. Non solo, ma per completare l'opera chiede al marchese di intervenire per far sì che il bando contro Renzo sia definitivamente revocato, fatto motivato unicamente dal desiderio di agevolare il giovane e dal sincero affetto che nutre in fondo per lui, tanto che ne perora la causa col marchese dicendo che è un bravo ragazzo e lui lo può dire perché lo conosce da quando l'ha battezzato. Già nel colloquio col cardinale dei capp. XXV-XXVI don Abbondio aveva dimostrato un'ombra di sincero pentimento, cagionato dai rimproveri del superiore e dalla consapevolezza di avere sbagliato ("E ad alta voce, disse: - ho mancato; capisco che ho mancato"), e Borromeo lo aveva esortato a non perdere la speranza di poter rimediare al male commesso, di fare del bene ai suoi parrocchiani verso i quali era venuto meno, poiché forse la Provvidenza gliene avrebbe offerta presto l'occasione: il cardinale aveva in fondo intuito l'indole non malvagia del curato e la sua previsione si rivela in effetti esatta, poiché il momento di aiutare Renzo e Lucia arriva e don Abbondio è lesto ad approfittarne, con un gesto che per la sua generosità verrà sicuramente apprezzato dai due promessi. Anche il distacco dai protagonisti in partenza per la loro nuova casa avviene in modo assai meno freddo di quanto ci si potrebbe attendere, sia per il reale affetto provato da questi verso il loro curato (prevale qui il rispetto dovuto al ruolo "istituzionale" del parroco, sempre presente anche in Renzo nonostante l'aspro confronto del cap. III), sia per i sentimenti realmente provati da don Abbondio verso di loro, che ora può finalmente esternare in quanto non ci sono più concreti motivi per nutrire timori ("Quelle buone creature avevan sempre conservato un certo attaccamento rispettoso per il loro curato; e questo, in fondo, aveva sempre voluto bene a loro. Son que’ benedetti affari, che imbroglian gli affetti").
Emerge dunque nelle pagine finali del romanzo un ritratto diverso del personaggio del curato, sempre ovviamente comico e caricaturale nei suoi atteggiamenti, tuttavia con una nuova dignità che lo rende più simpatico di quanto non fosse prima e stempera in parte il giudizio severo suggerito in precedenza dall'autore contro di lui, per quanto una vera e propria condanna morale sia assente nella narrazione. La "commedia tragica" di don Abbondio è quella di un uomo debole e pauroso vissuto in un mondo dove occorre essere forti e impavidi, per cui egli finisce per compiere il male e farsi complice dei prepotenti non certo in modo inconsapevole (ché, anzi, egli è fin troppo lucido nell'esaminare le possibilità che gli si offrono per trarsi di impaccio), ma agendo per paura e debolezza di carattere, quindi la condanna da parte del narratore è sempre suggerita in modo velato, mentre le parole di più forte esecrazione vengono riservate ad altri e soprattutto a chi avrebbe i mezzi per fermare i malvagi e non lo fa perché volutamente loro complice, come appunto i potenti amici di don Rodrigo. L'unica colpa del curato è di voler vivere tranquillo senza assumersi la responsabilità e il rischio di una posizione scomoda, il che rappresenta certo una colpa ma non certo imperdonabile, meritevole di un rimprovero severo da parte del cardinale (e si è visto, comunque, quanto di forzato ed eccessivo ci fosse nelle parole del prelato) e bonario da parte del narratore, che in effetti gli riserva un'uscita di scena con piena dignità, senza il feroce sarcasmo o l'ostentata indifferenza mostrata per altre figure del romanzo. In ultima analisi si può correggere tanto facile moralismo che la critica ottocentesca ha riversato sul personaggio e sposare la tesi più "moderata" di altri studiosi, che a cominciare da Pirandello hanno visto in don Abbondio una figura assai più seria di quanto appaia a prima vista e attraverso la quale Manzoni vuole affrontare il difficile rapporto dell'uomo con il male del mondo e della società, di fronte al quale si è terribilmente soli e chiamati ad una scelta tra esso e il bene di cui non tutti sono capaci (ciò dovrebbe indurre anche a temperare le posizioni di certi critici moderni che hanno parlato addirittura di immoralità del curato, non tenendo conto forse della complessità della narrazione manzoniana nei riguardi di un personaggio solo apparentemente di facile lettura).
Per approfondire: L. Pirandello, L'umorismo in don Abbondio; A. Spranzi, L'immoralità di don Abbondio.
Il fatto è che la presenza in paese di un despota come don Rodrigo (ricco, nobile, con un piccolo esercito di sgherri al suo servizio, con protezioni altolocate) costituisce per don Abbondio un assillo e un tormento continuo, per cui solo quando la minaccia è finalmente scongiurata egli può respirare e riprendere la sua tranquilla vita oziosa, anzi, solo in questo momento il curato mostra il suo vero volto che sino allora è rimasto dietro una sorta di maschera. La paura spinge infatti don Abbondio non solo a mentire, ma anche a fingere atteggiamenti e pensieri non suoi, con un'ipocrisia che ha più di un esempio nel romanzo: dalle bugie dette a Renzo per rimandare le nozze, ostentando uno scrupolo per l'osservanza delle regole, al contegno cerimonioso verso l'innominato, fino al preteso timore per Renzo e la sua "cattura" per cui non è il caso di fare il suo nome in chiesa; è come se don Abbondio dovesse sempre fingere di essere ciò che non è, di pensare cose diverse da quelle che ha realmente in animo a causa dei timori che lo assillano, perché dire la verità comporta dei rischi e il curato non è certo il tipo da affrontarli a cuor leggero. Tutto questo però improvvisamente si dissolve all'agognata notizia che don Rodrigo è passato a miglior vita e non tornerà più in paese a dettare legge con la violenza e i suoi potenti amici (il podestà, l'Azzecca-garbugli), essi pure caduti vittime della peste: è questo il primo momento del romanzo in cui il personaggio si libera della maschera indossata finora e si rivela finalmente per quello che è, mostrando tra l'altro non solo un'indole ciarliera e scherzosa quale finora non gli avevamo mai visto, ma addirittura una insolita affezione verso i suoi parrocchiani, che dimostrerà anche in modo concreto nei giorni seguenti. La morte di don Rodrigo sembra infatti aver trasformato il curato, o meglio ne ha svelato l'aspetto che finora era rimasto nascosto per la paura di subire rappresaglie: ora che il malvagio tiranno è stato sostituito da un marchese suo erede che si dimostra uomo di altra tempra, don Abbondio non si limita a celebrare in tutta fretta il matrimonio dei due giovani, ma va oltre e si prodiga per agevolare la loro partenza per il Bergamasco, con un atto di generosità disinteressata che pare addirittura singolare nel personaggio. È lui infatti a proporre al marchese di acquistare le case e i poderi di Renzo e Agnese, tra l'altro a un prezzo assai più alto del valore di mercato, e se in questo suo intervento c'entra la convenienza di avere un ricco feudatario come vicino e compaesano, non vi è dubbio che il suo gesto si rivelerà molto vantaggioso per i due promessi, del resto destinati a lasciare per sempre quella terra. Non solo, ma per completare l'opera chiede al marchese di intervenire per far sì che il bando contro Renzo sia definitivamente revocato, fatto motivato unicamente dal desiderio di agevolare il giovane e dal sincero affetto che nutre in fondo per lui, tanto che ne perora la causa col marchese dicendo che è un bravo ragazzo e lui lo può dire perché lo conosce da quando l'ha battezzato. Già nel colloquio col cardinale dei capp. XXV-XXVI don Abbondio aveva dimostrato un'ombra di sincero pentimento, cagionato dai rimproveri del superiore e dalla consapevolezza di avere sbagliato ("E ad alta voce, disse: - ho mancato; capisco che ho mancato"), e Borromeo lo aveva esortato a non perdere la speranza di poter rimediare al male commesso, di fare del bene ai suoi parrocchiani verso i quali era venuto meno, poiché forse la Provvidenza gliene avrebbe offerta presto l'occasione: il cardinale aveva in fondo intuito l'indole non malvagia del curato e la sua previsione si rivela in effetti esatta, poiché il momento di aiutare Renzo e Lucia arriva e don Abbondio è lesto ad approfittarne, con un gesto che per la sua generosità verrà sicuramente apprezzato dai due promessi. Anche il distacco dai protagonisti in partenza per la loro nuova casa avviene in modo assai meno freddo di quanto ci si potrebbe attendere, sia per il reale affetto provato da questi verso il loro curato (prevale qui il rispetto dovuto al ruolo "istituzionale" del parroco, sempre presente anche in Renzo nonostante l'aspro confronto del cap. III), sia per i sentimenti realmente provati da don Abbondio verso di loro, che ora può finalmente esternare in quanto non ci sono più concreti motivi per nutrire timori ("Quelle buone creature avevan sempre conservato un certo attaccamento rispettoso per il loro curato; e questo, in fondo, aveva sempre voluto bene a loro. Son que’ benedetti affari, che imbroglian gli affetti").
Emerge dunque nelle pagine finali del romanzo un ritratto diverso del personaggio del curato, sempre ovviamente comico e caricaturale nei suoi atteggiamenti, tuttavia con una nuova dignità che lo rende più simpatico di quanto non fosse prima e stempera in parte il giudizio severo suggerito in precedenza dall'autore contro di lui, per quanto una vera e propria condanna morale sia assente nella narrazione. La "commedia tragica" di don Abbondio è quella di un uomo debole e pauroso vissuto in un mondo dove occorre essere forti e impavidi, per cui egli finisce per compiere il male e farsi complice dei prepotenti non certo in modo inconsapevole (ché, anzi, egli è fin troppo lucido nell'esaminare le possibilità che gli si offrono per trarsi di impaccio), ma agendo per paura e debolezza di carattere, quindi la condanna da parte del narratore è sempre suggerita in modo velato, mentre le parole di più forte esecrazione vengono riservate ad altri e soprattutto a chi avrebbe i mezzi per fermare i malvagi e non lo fa perché volutamente loro complice, come appunto i potenti amici di don Rodrigo. L'unica colpa del curato è di voler vivere tranquillo senza assumersi la responsabilità e il rischio di una posizione scomoda, il che rappresenta certo una colpa ma non certo imperdonabile, meritevole di un rimprovero severo da parte del cardinale (e si è visto, comunque, quanto di forzato ed eccessivo ci fosse nelle parole del prelato) e bonario da parte del narratore, che in effetti gli riserva un'uscita di scena con piena dignità, senza il feroce sarcasmo o l'ostentata indifferenza mostrata per altre figure del romanzo. In ultima analisi si può correggere tanto facile moralismo che la critica ottocentesca ha riversato sul personaggio e sposare la tesi più "moderata" di altri studiosi, che a cominciare da Pirandello hanno visto in don Abbondio una figura assai più seria di quanto appaia a prima vista e attraverso la quale Manzoni vuole affrontare il difficile rapporto dell'uomo con il male del mondo e della società, di fronte al quale si è terribilmente soli e chiamati ad una scelta tra esso e il bene di cui non tutti sono capaci (ciò dovrebbe indurre anche a temperare le posizioni di certi critici moderni che hanno parlato addirittura di immoralità del curato, non tenendo conto forse della complessità della narrazione manzoniana nei riguardi di un personaggio solo apparentemente di facile lettura).
Per approfondire: L. Pirandello, L'umorismo in don Abbondio; A. Spranzi, L'immoralità di don Abbondio.
La parabola di Renzo, da contadino-operaio a imprenditore
Renzo è senza dubbio il personaggio più dinamico di tutto il romanzo e l'evoluzione cui va incontro non è solo un percorso di maturazione personale che lo porta a superare i suoi limiti di carattere, ma anche un progresso sociale che migliora notevolmente le sue condizioni di vita e su cui influiscono non poco le idee in campo economico dell'autore. Fin dall'inizio del resto Renzo è mostrato come un giovane intraprendente, che alterna il mestiere di contadino a quella di filatore di seta (caso non infrequente nella Lombardia del XVII sec.) e grazie alla sua abilità nel lavoro è piuttosto fornito di denari, cosa che lo mette in una condizione quasi privilegiata rispetto ai suoi compaesani: infatti ciò gli permette, ad esempio, di riscattare il debito di Tonio col curato in occasione del "matrimonio a sorpresa" e gli sarà di non poco aiuto durante la sua fuga nel Bergamasco, senza contare che proprio la sua abilità come operaio della seta gli consentirà di trovare lavoro e di mantenersi durante la sua latitanza. La possibilità di trovare un'occupazione nel territorio della Repubblica veneta è poi più volte accennata fin dagli inizi della narrazione, già nella presentazione di Renzo (cap. II) col dire che i lavoranti emigrano negli Stati vicini "attirati... da promesse, da privilegi e da grosse paghe", mentre nel cap. VI il giovane afferma che nel Bergamasco "chi lavora seta è ricevuto a braccia aperte" e il cugino Bortolo lo ha più volte invitato a trasferirsi laggiù, anticipando quindi la soluzione narrativa che verrà attuata alla fine del romanzo. L'autore a questo proposito sposa la dottrina economica del liberismo anche nel mercato del lavoro, in quanto approva la politica del governo veneto che incentiva l'emigrazione degli artigiani dal Milanese assicurando migliori condizioni di lavoro e vantaggi in termini di retribuzione, esattamente come per altro verso è favorevole alla libera circolazione delle merci da uno Stato all'altro senza l'imposizione di dazi doganali, che poi è la soluzione che permette a Bergamo di attenuare i terribili effetti della carestia del 1628 (si veda il discorso di Bortolo nel cap. XVII). Renzo approfitterà di questa politica di accoglienza degli emigranti già al momento della sua fuga, poiché non solo riesce a impiegarsi come operaio in un filatoio, ma le autorità bergamasche chiudono entrambi gli occhi quando quelle milanesi chiedono la sua estradizione in seguito ai fatti di S. Martino, mentre l'autore sottolinea che Venezia assecondava l'emigrazione di operai milanesi nel campo dell'industria serica facendo in modo "che ci trovassero molti vantaggi e, soprattutto quello senza di cui ogni altro è nulla, la sicurezza". Tutto ciò trae alimento ovviamente dalla guerra commerciale allora in atto tra il Ducato di Milano e la Serenissima, tuttavia è indubbio che il "modello di Bergamo" è presentato come vincente e maggiormente efficace contro quello lombardo, in cui la manifattura della seta è in crisi all'inizio del Seicento e le autorità perseguono una politica protezionista che non incentiva la ripresa della produzione, anzi spinge i bravi filatori a emigrare nello stato vicino in cui avranno paghe migliori e una situazione sociale che, se non presentata come un paradiso, è senza dubbio assai più favorevole di quella in patria (del resto la Spagna era uno stato già all'epoca in profonda decadenza economica).
Non stupisce pertanto che alla fine del romanzo, quando pure i due sposi potrebbero restare nel loro paese dopo la morte del loro persecutore, essi preferiscano invece trasferirsi nel territorio di Bergamo dove Renzo avrà maggiori possibilità di lavoro e potrà decidere come impiegare il capitale che ha accumulato grazie alla vendita del podere, se cioè dedicarsi all'agricoltura o all'industria manifatturiera. La scelta è presentata con la consueta ironia dallo scrittore, ma è ovvio che essa sottintende un discorso più ampio e ampiamente dibattuto dagli economisti del Settecento (è il riferimento alle "accademie del secolo passato"), alludendo alle polemiche tra i fisiocratici, sostenitori della preminenza dell'attività agricola, e i seguaci del liberismo, che presentavano la manifattura come l'attività in grado di assicurare il giusto sviluppo economico a una nazione, pur essendo spesso legata alla terra come la sericoltura. Ovviamente Manzoni propende per quest'ultima tesi e non a caso la scelta di Renzo sarà per "l'industria", allorché deciderà di impegnare il suo capitale nell'acquisto in società col cugino di un filatoio: è un ulteriore passo del personaggio che da emigrante in cerca di lavoro diventa addirittura padrone e imprenditore, oltretutto agevolato in questa sua nuova attività dalla politica del governo di Venezia, ancora una volta favorevole al passaggio di capitale economico e umano dal Milanese al suo territorio. Infatti un decreto della Repubblica prevede l'esenzione per dieci anni a tutti i forestieri dal pagamento delle imposte, fatto che per Renzo si tramuta in una "cuccagna", e tale provvedimento si spiega anche in ragione dei guasti e dello spopolamento causato dalla peste, il cui superamento avviene anche grazie a interventi di politica economica in senso liberista. L'esenzione pone rimedio tra l'altro a un decreto precedente che fissava un tetto alle paghe degli operai, giudicato negativamente dall'autore in quanto i salari devono essere liberi di fluttuare in base alle leggi di mercato, per cui è ovvio che i pochi abili artigiani rimasti chiedano stipendi più alti, così come in maniera analoga le terre vengono pagate poco a fronte della bassa richiesta (ciò viene spiegato chiaramente nel cap. XXXVIII, quando Renzo deve vendere le sue proprietà e profitta dell'offerta generosissima dell'erede di don Rodrigo). Manzoni aveva del resto stigmatizzato duramente già l'imposizione del calmiere sul prezzo del pane in tempo di carestia (cfr. il cap. XII e il relativo approfondimento), che aveva temporaneamente attenuato le conseguenze della penuria per poi renderla ancor più cruda in seguito, e lo stesso si può dire anche riguardo al tetto sulle paghe, poiché esso certamente agevola nell'immediato i padroni quale ora è Renzo, ma a lungo andare i bassi salari terranno lontani gli emigranti da Bergamo e ciò non aiuterà la ripresa economica, provocando semmai quella stagnazione ormai in atto nel vicino Stato di Milano. La posizione dell'autore è dunque ostile a troppi interventi del potere pubblico nell'attività economica, che deve essere regolata principalmente dall'iniziativa privata, e infatti i suoi modelli sono soprattutto trattatisti del Settecento come A. Smith e gli italiani M. Gioia e P. Verri (quest'ultimo espressamente citato come fonte nel Fermo e Lucia, IV, 9), concordi sul fatto che lo sviluppo economico sia garantito dalla libera circolazione di lavoratori e merci in un "mercato globale", ricetta quanto mai attuale e oggetto anche oggi di un vivace dibattito tra gli economisti.
Il percorso di Renzo acquista allora un significato più complesso che non il semplice ravvedimento di un giovane impulsivo e un po' scapestrato che nelle sue vicende ha imparato a non cacciarsi nei guai, come la morale finale sembrerebbe suggerire, in quanto il protagonista è andato incontro a una profonda trasformazione che ha fatto di lui addirittura un "padrone", dunque un membro di quel "sistema" contro il quale in un certo senso si era mostrato ribelle (specie durante la sommossa di Milano) e in cui alla fine risulta pienamente integrato, sia pure come emigrante che ha lasciato la sua terra dove, in fin dei conti, non ha trovato giustizia. E il segno più tangibile di questa avvenuta integrazione è l'accettazione della parola scritta, da lui sempre avversata in quanto strumento di oppressione da parte dei potenti e mezzo per compiere veri e propri abusi (l'esempio del latino di don Abbondio e dei discorsi di Ferrer ne sono la dimostrazione), mentre alla fine Renzo vorrà che i figli imparino a leggere e a scrivere, per approfittare anche loro di questa "birberia"; del resto l'uso della scrittura è connesso alle attività produttive e imprenditoriali e il giovane lo ha sperimentato a sue spese non potendo aspirare a diventare factotum della fabbrica dove lavorava Bortolo, per "non saper tener la penna in mano" (lo stesso Manzoni sottolinea come l'analfabetismo sia un limite alla felicità dei poveri, tratto tipicamente illuministico del suo pensiero: cfr. soprattutto il cap. XXVII). La parabola del personaggio Renzo è dunque completa ed essa ha risvolti propriamente politici oltre che umani, dal momento che il suo ravvedimento va nel senso di una progressiva accettazione del sistema sociale che aveva pensato di abbattere con la violenza, sia pure non provandoci davvero, e di una sorta di rassegnazione all'ingiustizia che colpisce le classi subalterne, le quali tutt'al più possono aspirare a un miglioramento delle loro condizioni sociali ed economiche, senza sperare di modificare un assetto sociale che, in quanto tale, lo scrittore accetta con pochi correttivi. Renzo rappresenta l'esemplificazione perfetta di questo discorso e la sua trasformazione da operaio ad imprenditore avviene nel segno di questo pensiero conservatore, che in quanto tale è naturalmente molto lontano dal nostro modo di concepire la società attuale, anche se la posizione dell'autore (assai moderna per le sue idee in campo economico) appare molto complessa e non spiegabile semplicemente alla luce della "facile" morale finale espressa dai protagonisti, che rispecchia solo in parte la prospettiva del romanziere sulle vicende che essi hanno attraversato.
Non stupisce pertanto che alla fine del romanzo, quando pure i due sposi potrebbero restare nel loro paese dopo la morte del loro persecutore, essi preferiscano invece trasferirsi nel territorio di Bergamo dove Renzo avrà maggiori possibilità di lavoro e potrà decidere come impiegare il capitale che ha accumulato grazie alla vendita del podere, se cioè dedicarsi all'agricoltura o all'industria manifatturiera. La scelta è presentata con la consueta ironia dallo scrittore, ma è ovvio che essa sottintende un discorso più ampio e ampiamente dibattuto dagli economisti del Settecento (è il riferimento alle "accademie del secolo passato"), alludendo alle polemiche tra i fisiocratici, sostenitori della preminenza dell'attività agricola, e i seguaci del liberismo, che presentavano la manifattura come l'attività in grado di assicurare il giusto sviluppo economico a una nazione, pur essendo spesso legata alla terra come la sericoltura. Ovviamente Manzoni propende per quest'ultima tesi e non a caso la scelta di Renzo sarà per "l'industria", allorché deciderà di impegnare il suo capitale nell'acquisto in società col cugino di un filatoio: è un ulteriore passo del personaggio che da emigrante in cerca di lavoro diventa addirittura padrone e imprenditore, oltretutto agevolato in questa sua nuova attività dalla politica del governo di Venezia, ancora una volta favorevole al passaggio di capitale economico e umano dal Milanese al suo territorio. Infatti un decreto della Repubblica prevede l'esenzione per dieci anni a tutti i forestieri dal pagamento delle imposte, fatto che per Renzo si tramuta in una "cuccagna", e tale provvedimento si spiega anche in ragione dei guasti e dello spopolamento causato dalla peste, il cui superamento avviene anche grazie a interventi di politica economica in senso liberista. L'esenzione pone rimedio tra l'altro a un decreto precedente che fissava un tetto alle paghe degli operai, giudicato negativamente dall'autore in quanto i salari devono essere liberi di fluttuare in base alle leggi di mercato, per cui è ovvio che i pochi abili artigiani rimasti chiedano stipendi più alti, così come in maniera analoga le terre vengono pagate poco a fronte della bassa richiesta (ciò viene spiegato chiaramente nel cap. XXXVIII, quando Renzo deve vendere le sue proprietà e profitta dell'offerta generosissima dell'erede di don Rodrigo). Manzoni aveva del resto stigmatizzato duramente già l'imposizione del calmiere sul prezzo del pane in tempo di carestia (cfr. il cap. XII e il relativo approfondimento), che aveva temporaneamente attenuato le conseguenze della penuria per poi renderla ancor più cruda in seguito, e lo stesso si può dire anche riguardo al tetto sulle paghe, poiché esso certamente agevola nell'immediato i padroni quale ora è Renzo, ma a lungo andare i bassi salari terranno lontani gli emigranti da Bergamo e ciò non aiuterà la ripresa economica, provocando semmai quella stagnazione ormai in atto nel vicino Stato di Milano. La posizione dell'autore è dunque ostile a troppi interventi del potere pubblico nell'attività economica, che deve essere regolata principalmente dall'iniziativa privata, e infatti i suoi modelli sono soprattutto trattatisti del Settecento come A. Smith e gli italiani M. Gioia e P. Verri (quest'ultimo espressamente citato come fonte nel Fermo e Lucia, IV, 9), concordi sul fatto che lo sviluppo economico sia garantito dalla libera circolazione di lavoratori e merci in un "mercato globale", ricetta quanto mai attuale e oggetto anche oggi di un vivace dibattito tra gli economisti.
Il percorso di Renzo acquista allora un significato più complesso che non il semplice ravvedimento di un giovane impulsivo e un po' scapestrato che nelle sue vicende ha imparato a non cacciarsi nei guai, come la morale finale sembrerebbe suggerire, in quanto il protagonista è andato incontro a una profonda trasformazione che ha fatto di lui addirittura un "padrone", dunque un membro di quel "sistema" contro il quale in un certo senso si era mostrato ribelle (specie durante la sommossa di Milano) e in cui alla fine risulta pienamente integrato, sia pure come emigrante che ha lasciato la sua terra dove, in fin dei conti, non ha trovato giustizia. E il segno più tangibile di questa avvenuta integrazione è l'accettazione della parola scritta, da lui sempre avversata in quanto strumento di oppressione da parte dei potenti e mezzo per compiere veri e propri abusi (l'esempio del latino di don Abbondio e dei discorsi di Ferrer ne sono la dimostrazione), mentre alla fine Renzo vorrà che i figli imparino a leggere e a scrivere, per approfittare anche loro di questa "birberia"; del resto l'uso della scrittura è connesso alle attività produttive e imprenditoriali e il giovane lo ha sperimentato a sue spese non potendo aspirare a diventare factotum della fabbrica dove lavorava Bortolo, per "non saper tener la penna in mano" (lo stesso Manzoni sottolinea come l'analfabetismo sia un limite alla felicità dei poveri, tratto tipicamente illuministico del suo pensiero: cfr. soprattutto il cap. XXVII). La parabola del personaggio Renzo è dunque completa ed essa ha risvolti propriamente politici oltre che umani, dal momento che il suo ravvedimento va nel senso di una progressiva accettazione del sistema sociale che aveva pensato di abbattere con la violenza, sia pure non provandoci davvero, e di una sorta di rassegnazione all'ingiustizia che colpisce le classi subalterne, le quali tutt'al più possono aspirare a un miglioramento delle loro condizioni sociali ed economiche, senza sperare di modificare un assetto sociale che, in quanto tale, lo scrittore accetta con pochi correttivi. Renzo rappresenta l'esemplificazione perfetta di questo discorso e la sua trasformazione da operaio ad imprenditore avviene nel segno di questo pensiero conservatore, che in quanto tale è naturalmente molto lontano dal nostro modo di concepire la società attuale, anche se la posizione dell'autore (assai moderna per le sue idee in campo economico) appare molto complessa e non spiegabile semplicemente alla luce della "facile" morale finale espressa dai protagonisti, che rispecchia solo in parte la prospettiva del romanziere sulle vicende che essi hanno attraversato.
Il finale della storia, dal Fermo e Lucia ai Promessi sposi
È noto che Manzoni apportò notevoli cambiamenti nel passaggio dalla prima redazione del romanzo alle due edizioni successive, modificando o eliminando interi episodi in ragione di un più equilibrato sviluppo narrativo, ed è indubbio che una delle più radicali trasformazioni riguardi il finale della vicenda, che nel romanzo maggiore diventa assai più complesso e ricco di sfumature prima solo accennate. Nel Fermo e Lucia la conclusione si articolava soprattutto nei due episodi del lazzaretto e del successivo matrimonio dei due promessi (IV, 7-9: cfr. il brano Il finale della storia), dunque in uno spazio narrativo più contenuto rispetto ai Promessi sposi, e la parte relativa al lazzaretto era priva della sequenza in cui padre Cristoforo mostrava a Renzo il corpo di don Rodrigo agonizzante, suscitando il perdono del giovane verso il suo persecutore: questi entrava in scena all'inizio dell'ultimo capitolo, con un drammatico colpo di teatro che lo portava a salire su un cavallo dei monatti e spronarlo in una folle corsa, fino a stramazzare al suolo e a morire certamente senza redenzione (non senza il particolare, assai morboso, di lui che si trascinava tra le capanne in cerca di Lucia che poi vedeva in compagnia di Fermo e del frate, perdendo il lume della ragione; cfr. il brano La morte di don Rodrigo). Tutto questo nell'edizione definitiva del romanzo viene eliminato e la scelta dell'autore sembra orientata verso un intreccio meno drammatico, privo degli elementi più marcatamente "romanzeschi" e vicini alla narrativa di consumo del primo Ottocento, in cui colpi di scena e apparizioni a sorpresa erano all'ordine del giorno. Questo spiega anche perché nel primo romanzo si passasse in maniera alquanto brusca dall'ambiente del lazzaretto a quello del paese, in cui Fermo ritornava con un viaggio sotto la pioggia che viene riassunto in poche righe dall'autore, a fronte di una narrazione assai più ampia nei Promessi sposi che si distende per tutto l'inizio del cap. XXXVII e si concentra sullo stato d'animo del giovane che si rallegra per aver trovato Lucia e fa progetti per il futuro. Altrettanto ampio il racconto di Renzo al paese e le accoglienze dell'amico e poi di Agnese, mentre nel Fermo il tutto veniva racchiuso in una piccola parte del cap. 9 in cui il giovane comunicava a don Abbondio la morte di don Rodrigo cui lui stesso aveva assistito (particolare poi confermato da Lucia) e ciò bastava a convincere il curato a celebrare le nozze, senza l'intervento dell'erede del signorotto che entrava in scena più avanti e in modo assai più marginale. Drasticamente ridimensionato nel Fermo anche il ruolo di don Abbondio, ridotto a poco più che una macchietta comica nel momento in cui si rallegrava per la morte di don Rodrigo e senza la sua intercessione in favore di Fermo con il marchese erede del signorotto, mentre assai frettolosi erano i preparativi della partenza degli sposi per il Bergamasco, in cui trovava spazio anche la notizia della morte per la peste del Conte del Sagrato (l'innominato dei Promessi sposi), particolare invece omesso nella redazione successiva del romanzo.
È tuttavia nel racconto della vita di Renzo e Lucia nella loro nuova patria che l'autore opera i cambiamenti più vistosi, poiché nel Fermo apprendiamo solo che il trasferimento è avvenuto per ragioni economiche (la maggiore possibilità per entrambi i coniugi di trovare lavoro come operai della seta, non senza una mini-digressione storica sulle ragioni del declino di tale manifattura nel Milanese), mentre sono del tutto assenti i dettagli di vita quotidiana degli sposi nel loro nuovo paese, su cui invece nel romanzo definitivo l'autore si dilunga per una certa parte della narrazione. Ancora una volta il cambiamento è motivato dalla volontà di distaccarsi dai modelli narrativi precedenti, per cui nei Promessi sposi si racconta la nuova vita di Renzo e Lucia con il risvolto della quotidianità e delle piccole "miserie" che caratterizzano la loro permanenza iniziale nel paese di Bortolo, dunque attenuando in parte il lieto fine che nel primo romanzo era invece completo, ma è anche l'occasione di spiegare come le amarezze provate da Renzo coi suoi nuovi compaesani lo spingano a un nuovo trasferimento che lo porta all'acquisto del filatoio in società col cugino e a una promozione sociale da semplice salariato a imprenditore, dettaglio del tutto assente nel Fermo e Lucia. A ben guardare è proprio questa la differenza più marcata tra i due finali, più ancora della morte di don Rodrigo o di altri dettagli meno importanti come i figli avuti dalla coppia, poiché la trasformazione professionale di Renzo sottintende un discorso assai complesso circa il "modello sociale" che Manzoni intende proporre nel secondo romanzo attraverso la sua figura e che invece non trovava praticamente spazio nel Fermo, dove anzi il protagonista era un personaggio molto più statico e privo di quelle interessanti sfumature che lo caratterizzano nelle redazioni successive. Per semplificare, si potrebbe dire che il Fermo era, sì, un romanzo storico, ma solo nel senso che le vicende di fantasia dei protagonisti si snodavano su uno scenario precisamente ricostruito attraverso le pagine di digressione, senza però che la storia dei personaggi diventasse parte integrante del discorso storico come invece nei Promessi sposi. Nel secondo romanzo il piano individuale dei protagonisti è maggiormente intrecciato a quello più generale della storia e tale procedimento viene attuato soprattutto con Renzo, che prende parte ad alcuni eventi fondamentali (tra cui specialmente il tumulto di S. Martino, ma anche la peste e la caccia agli untori) e reagisce ad essi interpretandoli alla sua maniera, fino ad una parziale accettazione dell'assetto sociale esistente e delle sue storture di cui, nella redazione ultima dell'opera, la sua evoluzione in "padrone" rappresenta l'esempio più concreto. Nel primo romanzo Fermo è un personaggio decisamente meno interessante e per certi aspetti ancora irrisolto, una via di mezzo tra eroe tragico in panni popolari e "picaro" simile ai protagonisti di tanti romanzi europei del XVIII sec. (il protagonista originario non ha quasi nulla del personaggio schietto e vivace che vediamo in tante pagine dei Promessi sposi), tuttavia il fine dell'autore è più che altro quello di intrattenere il pubblico con intermezzi narrativi tra una digressione e l'altra, il che è forse una delle maggiori ragioni di debolezza della prima stesura e tra quelle che spinsero l'autore a rimaneggiare profondamente il romanzo. La trasformazione di Renzo in autentico personaggio popolare già nell'edizione del '27 si spiega anche alla luce di questi cambiamenti e dunque non dobbiamo stupirci se il finale dei Promessi sposi diventi più ampio e articolato, né che Manzoni abbia dedicato ben due capitoli alle vicende conclusive dei due promessi, dal momento che tale scioglimento è fondamentale per capire la natura di certi processi storici, che qui non sono semplicemente confinati nei fin troppo ampi excursus della prima redazione. In questa prospettiva diventa tutt'altro che superflua la narrazione quotidiana e persino banale della vita dei due sposi, perché ormai il fine del romanziere non è più il semplice intrattenimento del pubblico, ma la proposta di contenuti di storia sociale (in certa misura anche pedagogici, per quanto non in modo dichiarato) che non vengono affrontati solo nelle digressioni ma soprattutto con il racconto della vita dei protagonisti, quindi tutto ciò che si allontana dalla narrativa "avventurosa" è bene accetto e funzionale all'obiettivo dell'autore, che è quello di proporre modelli di comportamento, di educare. Se Renzo nella prima parte del romanzo maggiore è un "eroe cercatore" a caccia soprattutto di giustizia, alla fine la sua ricerca si conclude con l'acquisizione di uno status lavorativo e sociale migliore, che lo porta a rinunciare ai suoi propositi ribelli e violenti delle vicende iniziali e lo integra in una realtà in parte diversa da quella conosciuta negli anni giovanili, procedimento in cui Manzoni inserisce gran parte del messaggio educativo del romanzo: tutto questo nel Fermo e Lucia non era possibile per l'immaturità dell'autore nel padroneggiare la materia narrativa, allora così nuova in Italia e povera di modelli di riferimento, dunque i Promessi sposi si presentano come punto di arrivo di una riflessione complessa intorno al romanzo che sfocia in un maggiore equilibrio tra parti storiche e narrative, nonché in un deciso allontanamento dalla narrativa di consumo che, da un lato, spiega l'immediato successo di pubblico del romanzo, dall'altro rende l'opera assai più complessa e meno banalmente edificante come tanti critici l'hanno dipinta in passato, meritevole senza dubbio di un'attenta analisi che ne porti alla luce i significati profondi, spesso di comprensione tutt'altro che immediata.
È tuttavia nel racconto della vita di Renzo e Lucia nella loro nuova patria che l'autore opera i cambiamenti più vistosi, poiché nel Fermo apprendiamo solo che il trasferimento è avvenuto per ragioni economiche (la maggiore possibilità per entrambi i coniugi di trovare lavoro come operai della seta, non senza una mini-digressione storica sulle ragioni del declino di tale manifattura nel Milanese), mentre sono del tutto assenti i dettagli di vita quotidiana degli sposi nel loro nuovo paese, su cui invece nel romanzo definitivo l'autore si dilunga per una certa parte della narrazione. Ancora una volta il cambiamento è motivato dalla volontà di distaccarsi dai modelli narrativi precedenti, per cui nei Promessi sposi si racconta la nuova vita di Renzo e Lucia con il risvolto della quotidianità e delle piccole "miserie" che caratterizzano la loro permanenza iniziale nel paese di Bortolo, dunque attenuando in parte il lieto fine che nel primo romanzo era invece completo, ma è anche l'occasione di spiegare come le amarezze provate da Renzo coi suoi nuovi compaesani lo spingano a un nuovo trasferimento che lo porta all'acquisto del filatoio in società col cugino e a una promozione sociale da semplice salariato a imprenditore, dettaglio del tutto assente nel Fermo e Lucia. A ben guardare è proprio questa la differenza più marcata tra i due finali, più ancora della morte di don Rodrigo o di altri dettagli meno importanti come i figli avuti dalla coppia, poiché la trasformazione professionale di Renzo sottintende un discorso assai complesso circa il "modello sociale" che Manzoni intende proporre nel secondo romanzo attraverso la sua figura e che invece non trovava praticamente spazio nel Fermo, dove anzi il protagonista era un personaggio molto più statico e privo di quelle interessanti sfumature che lo caratterizzano nelle redazioni successive. Per semplificare, si potrebbe dire che il Fermo era, sì, un romanzo storico, ma solo nel senso che le vicende di fantasia dei protagonisti si snodavano su uno scenario precisamente ricostruito attraverso le pagine di digressione, senza però che la storia dei personaggi diventasse parte integrante del discorso storico come invece nei Promessi sposi. Nel secondo romanzo il piano individuale dei protagonisti è maggiormente intrecciato a quello più generale della storia e tale procedimento viene attuato soprattutto con Renzo, che prende parte ad alcuni eventi fondamentali (tra cui specialmente il tumulto di S. Martino, ma anche la peste e la caccia agli untori) e reagisce ad essi interpretandoli alla sua maniera, fino ad una parziale accettazione dell'assetto sociale esistente e delle sue storture di cui, nella redazione ultima dell'opera, la sua evoluzione in "padrone" rappresenta l'esempio più concreto. Nel primo romanzo Fermo è un personaggio decisamente meno interessante e per certi aspetti ancora irrisolto, una via di mezzo tra eroe tragico in panni popolari e "picaro" simile ai protagonisti di tanti romanzi europei del XVIII sec. (il protagonista originario non ha quasi nulla del personaggio schietto e vivace che vediamo in tante pagine dei Promessi sposi), tuttavia il fine dell'autore è più che altro quello di intrattenere il pubblico con intermezzi narrativi tra una digressione e l'altra, il che è forse una delle maggiori ragioni di debolezza della prima stesura e tra quelle che spinsero l'autore a rimaneggiare profondamente il romanzo. La trasformazione di Renzo in autentico personaggio popolare già nell'edizione del '27 si spiega anche alla luce di questi cambiamenti e dunque non dobbiamo stupirci se il finale dei Promessi sposi diventi più ampio e articolato, né che Manzoni abbia dedicato ben due capitoli alle vicende conclusive dei due promessi, dal momento che tale scioglimento è fondamentale per capire la natura di certi processi storici, che qui non sono semplicemente confinati nei fin troppo ampi excursus della prima redazione. In questa prospettiva diventa tutt'altro che superflua la narrazione quotidiana e persino banale della vita dei due sposi, perché ormai il fine del romanziere non è più il semplice intrattenimento del pubblico, ma la proposta di contenuti di storia sociale (in certa misura anche pedagogici, per quanto non in modo dichiarato) che non vengono affrontati solo nelle digressioni ma soprattutto con il racconto della vita dei protagonisti, quindi tutto ciò che si allontana dalla narrativa "avventurosa" è bene accetto e funzionale all'obiettivo dell'autore, che è quello di proporre modelli di comportamento, di educare. Se Renzo nella prima parte del romanzo maggiore è un "eroe cercatore" a caccia soprattutto di giustizia, alla fine la sua ricerca si conclude con l'acquisizione di uno status lavorativo e sociale migliore, che lo porta a rinunciare ai suoi propositi ribelli e violenti delle vicende iniziali e lo integra in una realtà in parte diversa da quella conosciuta negli anni giovanili, procedimento in cui Manzoni inserisce gran parte del messaggio educativo del romanzo: tutto questo nel Fermo e Lucia non era possibile per l'immaturità dell'autore nel padroneggiare la materia narrativa, allora così nuova in Italia e povera di modelli di riferimento, dunque i Promessi sposi si presentano come punto di arrivo di una riflessione complessa intorno al romanzo che sfocia in un maggiore equilibrio tra parti storiche e narrative, nonché in un deciso allontanamento dalla narrativa di consumo che, da un lato, spiega l'immediato successo di pubblico del romanzo, dall'altro rende l'opera assai più complessa e meno banalmente edificante come tanti critici l'hanno dipinta in passato, meritevole senza dubbio di un'attenta analisi che ne porti alla luce i significati profondi, spesso di comprensione tutt'altro che immediata.
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(voce narrante di Silvia Cecchini).
Capitolo XXXVIII
Una sera, Agnese sente fermarsi un legno [1] all’uscio. - È lei, di certo! - Era proprio lei, con la buona vedova. L’accoglienze vicendevoli se le immagini il lettore.
La mattina seguente, di buon’ora, capita Renzo che non sa nulla, e vien solamente per isfogarsi un po’ con Agnese su quel gran tardare di Lucia. Gli atti che fece, e le cose che disse, al trovarsela davanti, si rimettono anche quelli all’immaginazion del lettore. Le dimostrazioni di Lucia in vece furon tali, che non ci vuol molto a descriverle. - Vi saluto: come state? - disse, a occhi bassi, e senza scomporsi. E non crediate che Renzo trovasse quel fare troppo asciutto, e se l’avesse per male. Prese benissimo la cosa per il suo verso; e, come, tra gente educata, si sa far la tara ai complimenti, così lui intendeva bene che quelle parole non esprimevan tutto ciò che passava nel cuore di Lucia. Del resto, era facile accorgersi che aveva due maniere di pronunziarle: una per Renzo, e un’altra per tutta la gente che potesse conoscere. - Sto bene quando vi vedo, - rispose il giovine, con una frase vecchia, ma che avrebbe inventata lui, in quel momento. - Il nostro povero padre Cristoforo...! - disse Lucia: - pregate per l’anima sua: benché si può esser quasi sicuri che a quest’ora prega lui per noi lassù. - Me l’aspettavo, pur troppo, - disse Renzo. E non fu questa la sola trista corda che si toccasse in quel colloquio. Ma che? di qualunque cosa si parlasse, il colloquio gli riusciva sempre delizioso. Come que’ cavalli bisbetici che s’impuntano, e si piantan lì, e alzano una zampa e poi un’altra, e le ripiantano al medesimo posto, e fanno mille cerimonie prima di fare un passo, e poi tutto a un tratto prendon l’andare, e via, come se il vento li portasse, così era divenuto il tempo per lui: prima i minuti gli parevan ore; poi l’ore gli parevan minuti. La vedova, non solo non guastava la compagnia, ma ci faceva dentro molto bene; e certamente, Renzo, quando la vide in quel lettuccio, non se la sarebbe potuta immaginare d’un umore così socievole e gioviale. Ma il lazzeretto e la campagna, la morte e le nozze, non son tutt’uno. Con Agnese essa aveva già fatto amicizia; con Lucia poi era un piacere a vederla, tenera insieme e scherzevole, e come la stuzzicava garbatamente, e senza spinger troppo, appena quanto ci voleva per obbligarla a dimostrar tutta l’allegria che aveva in cuore. Renzo disse finalmente che andava da don Abbondio, a prendere i concerti per lo sposalizio. Ci andò, e, con un certo fare tra burlesco e rispettoso, - signor curato, - gli disse: - le è poi passato quel dolor di capo, per cui mi diceva di non poterci maritare? Ora siamo a tempo; la sposa c’è: e son qui per sentire quando le sia di comodo: ma questa volta, sarei a pregarla di far presto -. Don Abbondio non disse di no; ma cominciò a tentennare, a trovar cert’altre scuse, a far cert’altre insinuazioni: e perché mettersi in piazza, e far gridare il suo nome, con quella cattura addosso? e che la cosa potrebbe farsi ugualmente altrove; e questo e quest’altro. - Ho inteso, - disse Renzo: - lei ha ancora un po’ di quel mal di capo. Ma senta, senta -. E cominciò a descrivere in che stato aveva visto quel povero don Rodrigo; e che già a quell’ora doveva sicuramente essere andato. - Speriamo, - concluse, - che il Signore gli avrà usato misericordia. - Questo non ci ha che fare, - disse don Abbondio: - v’ho forse detto di no? Io non dico di no; parlo... parlo per delle buone ragioni. Del resto, vedete, fin che c’è fiato... Guardatemi me: sono una conca fessa [2]; sono stato anch’io, più di là che di qua: e son qui; e... se non mi vengono addosso de’ guai... basta... posso sperare di starci ancora un pochino. Figuratevi poi certi temperamenti. Ma, come dico, questo non ci ha che far nulla. Dopo qualche altra botta e risposta, né più né meno concludenti, Renzo strisciò una bella riverenza, se ne tornò alla sua compagnia, fece la sua relazione, e finì con dire: - son venuto via, che n’ero pieno, e per non risicar di perdere la pazienza, e di levargli il rispetto. In certi momenti, pareva proprio quello dell’altra volta; proprio quella mutria [3], quelle ragioni: son sicuro che, se la durava ancora un poco, mi tornava in campo con qualche parola in latino. Vedo che vuol essere un’altra lungagnata: è meglio fare addirittura come dice lui, andare a maritarsi dove andiamo a stare. - Sapete cosa faremo? - disse la vedova: - voglio che andiamo noi altre donne a fare un’altra prova, e vedere se ci riesce meglio. Così avrò anch’io il gusto di conoscerlo quest’uomo, se è proprio come dite. Dopo desinare voglio che andiamo; per non tornare a dargli addosso subito. Ora, signore sposo, menateci un po’ a spasso noi altre due, intanto che Agnese è in faccende: ché a Lucia farò io da mamma: e ho proprio voglia di vedere un po’ meglio queste montagne, questo lago, di cui ho sentito tanto parlare; e il poco che n’ho già visto, mi pare una gran bella cosa. Renzo le condusse prima di tutto alla casa del suo ospite, dove fu un’altra festa: e gli fecero promettere che, non solo quel giorno, ma tutti i giorni, se potesse, verrebbe a desinare con loro. Passeggiato, desinato, Renzo se n’andò, senza dir dove. Le donne rimasero un pezzetto a discorrere, a concertarsi sulla maniera di prender don Abbondio; e finalmente andarono all’assalto. “Son qui loro”, disse questo tra sé; ma fece faccia tosta: gran congratulazioni a Lucia, saluti ad Agnese, complimenti alla forestiera. Le fece mettere a sedere, e poi entrò subito a parlar della peste: volle sentir da Lucia come l’aveva passata in que’ guai: il lazzeretto diede opportunità di far parlare anche quella che l’era stata compagna; poi, com’era giusto, don Abbondio parlò anche della sua burrasca; poi de’ gran mirallegri [4] anche a Agnese, che l’aveva passata liscia. La cosa andava in lungo: già fin dal primo momento, le due anziane stavano alle velette, se mai venisse l’occasione d’entrar nel discorso essenziale: finalmente non so quale delle due ruppe il ghiaccio. Ma cosa volete? Don Abbondio era sordo da quell’orecchio. Non che dicesse di no; ma eccolo di nuovo a quel suo serpeggiare, volteggiare e saltar di palo in frasca. - Bisognerebbe, - diceva, - poter far levare quella catturaccia. Lei, signora, che è di Milano, conoscerà più o meno il filo delle cose, avrà delle buone protezioni, qualche cavaliere di peso: ché con questi mezzi si sana ogni piaga. Se poi si volesse andar per la più corta, senza imbarcarsi in tante storie; giacché codesti giovani, e qui la nostra Agnese, hanno già intenzione di spatriarsi [6] (e io non saprei cosa dire: la patria è dove si sta bene), mi pare che si potrebbe far tutto là, dove non c’è cattura che tenga. Non vedo proprio l’ora di saperlo concluso questo parentado, ma lo vorrei concluso bene, tranquillamente. Dico la verità: qui, con quella cattura viva, spiattellar dall’altare quel nome di Lorenzo Tramaglino, non lo farei col cuor quieto: gli voglio troppo bene; avrei paura di fargli un cattivo servizio. Veda lei; vedete voi altre. Qui, parte Agnese, parte la vedova, a ribatter quelle ragioni; don Abbondio a rimetterle in campo, sott’altra forma: s’era sempre da capo; quando entra Renzo, con un passo risoluto, e con una notizia in viso; e dice: - è arrivato il signor marchese ***. - Cosa vuol dir questo? arrivato dove? - domanda don Abbondio, alzandosi. - E arrivato nel suo palazzo, ch’era quello di don Rodrigo; perché questo signor marchese è l’erede per fide-commisso [7], come dicono; sicché non c’è più dubbio. Per me, ne sarei contento, se potessi sapere che quel pover’uomo fosse morto bene. A buon conto, finora ho detto per lui de’ paternostri, adesso gli dirò de’ De profundis. E questo signor marchese è un bravissim’uomo. - Sicuro, - disse don Abbondio: - l’ho sentito nominar più d’una volta per un bravo signore davvero, per un uomo della stampa antica. Ma che sia proprio vero...? - Al sagrestano gli crede? - Perché? - Perché lui l’ha veduto co’ suoi occhi. Io sono stato solamente lì ne’ contorni, e, per dir la verità, ci sono andato appunto perché ho pensato: qualcosa là si dovrebbe sapere. E più d’uno m’ha detto lo stesso. Ho poi incontrato Ambrogio che veniva proprio di lassu, e che l’ha veduto, come dico, far da padrone. Lo vuol sentire, Ambrogio? L’ho fatto aspettar qui fuori apposta. - Sentiamo, - disse don Abbondio. Renzo andò a chiamare il sagrestano. Questo confermò la cosa in tutto e per tutto, ci aggiunse altre circostanze, sciolse tutti i dubbi; e poi se n’andò. - Ah! è morto dunque! è proprio andato! - esclamò don Abbondio. - Vedete, figliuoli, se la Provvidenza arriva alla fine certa gente. Sapete che l’è una gran cosa! un gran respiro per questo povero paese! che non ci si poteva vivere con colui. E stata un gran flagello questa peste; ma è anche stata una scopa; ha spazzato via certi soggetti, che, figliuoli miei, non ce ne liberavamo più: verdi, freschi, prosperosi: bisognava dire che chi era destinato a far loro l’esequie, era ancora in seminario, a fare i latinucci [8]. E in un batter d’occhio, sono spariti, a cento per volta. Non lo vedremo più andare in giro con quegli sgherri dietro, con quell’albagìa [9], con quell’aria, con quel palo in corpo, con quel guardar la gente, che pareva che si stesse tutti al mondo per sua degnazione. Intanto, lui non c’è più, e noi ci siamo. Non manderà più di quell’imbasciate ai galantuomini. Ci ha dato un gran fastidio a tutti, vedete: ché adesso lo possiamo dire. - Io gli ho perdonato di cuore, - disse Renzo. - E fai il tuo dovere, - rispose don Abbondio: - ma si può anche ringraziare il cielo, che ce n’abbia liberati. Ora, tornando a noi, vi ripeto: fate voi altri quel che credete. Se volete che vi mariti io, son qui; se vi torna più comodo in altra maniera, fate voi altri. In quanto alla cattura, vedo anch’io che, non essendoci ora più nessuno che vi tenga di mira, e voglia farvi del male, non è cosa da prendersene gran pensiero: tanto più, che c’è stato di mezzo quel decreto grazioso, per la nascita del serenissimo infante [10]. E poi la peste! la peste! ha dato di bianco a di gran cose la peste! [11] Sicché, se volete... oggi è giovedì... domenica vi dico in chiesa [12]; perché quel che s’è fatto l’altra volta, non conta più niente, dopo tanto tempo; e poi ho la consolazione di maritarvi io. - Lei sa bene ch’eravamo venuti appunto per questo, - disse Renzo. - Benissimo; e io vi servirò: e voglio darne parte subito a sua eminenza. - Chi è sua eminenza? - domandò Agnese. - Sua eminenza, - rispose don Abbondio, - è il nostro cardinale arcivescovo, che Dio conservi. - Oh! in quanto a questo mi scusi, - replicò Agnese: - ché, sebbene io sia una povera ignorante, le posso accertare che non gli si dice così; perché, quando siamo state la seconda volta per parlargli, come parlo a lei, uno di que’ signori preti mi tirò da parte, e m’insegnò come si doveva trattare con quel signore, e che gli si doveva dire vossignoria illustrissima, e monsignore. - E ora, se vi dovesse tornare a insegnare, vi direbbe che gli va dato dell’eminenza: avete inteso? Perché il papa, che Dio lo conservi anche lui, ha prescritto, fin dal mese di giugno, che ai cardinali si dia questo titolo [13]. E sapete perché sarà venuto a questa risoluzione? Perché l’illustrissimo, ch’era riservato a loro e a certi principi, ora, vedete anche voi altri, cos’è diventato, a quanti si dà: e come se lo succiano volentieri! E cosa doveva fare, il papa? Levarlo a tutti? Lamenti, ricorsi, dispiaceri, guai; e per di più, continuar come prima. Dunque ha trovato un bonissimo ripiego. A poco a poco poi, si comincerà a dar dell’eminenza ai vescovi; poi lo vorranno gli abati, poi i proposti: perché gli uomini son fatti così; sempre voglion salire, sempre salire; poi i canonici... - Poi i curati, - disse la vedova. - No no, - riprese don Abbondio: - i curati a tirar la carretta: non abbiate paura che gli avvezzin male, i curati: del reverendo, fino alla fin del mondo. Piuttosto, non mi maraviglierei punto che i cavalieri, i quali sono avvezzi a sentirsi dar dell’illustrissimo, a esser trattati come i cardinali, un giorno volessero dell’eminenza anche loro. E se la vogliono, vedete, troveranno chi gliene darà. E allora, il papa che ci sarà allora, troverà qualche altra cosa per i cardinali. Orsù, ritorniamo alle nostre cose: domenica vi dirò in chiesa; e intanto, sapete cos’ho pensato per servirvi meglio? Intanto chiederemo la dispensa per l’altre due denunzie. Hanno a avere un bel da fare laggiù in curia, a dar dispense, se la va per tutto come qui. Per domenica ne ho già... uno... due... tre; senza contarvi voi altri: e ne può capitare ancora. E poi vedrete, andando avanti, che affare vuol essere: non ne deve rimanere uno scompagnato. Ha proprio fatto uno sproposito Perpetua a morire ora; ché questo era il momento che trovava l’avventore anche lei [14]. E a Milano, signora, mi figuro che sarà lo stesso. - Eccome! si figuri che, solamente nella mia cura [15], domenica passata, cinquanta denunzie. - Se lo dico; il mondo non vuol finire. E lei, signora, non hanno principiato a ronzarle intorno de’ mosconi? - No, no; io non ci penso, né ci voglio pensare. - Sì, sì, che vorrà esser lei sola. Anche Agnese, veda; anche Agnese... - Uh! ha voglia di scherzare, lei, - disse questa. - Sicuro che ho voglia di scherzare: e mi pare che sia ora finalmente. Ne abbiam passate delle brutte, n’è vero, i miei giovani? delle brutte n’abbiam passate: questi quattro giorni che dobbiamo stare in questo mondo, si può sperare che vogliano essere un po’ meglio. Ma! fortunati voi altri, che, non succedendo disgrazie, avete ancora un pezzo da parlare de’ guai passati: io in vece, sono alle ventitre e tre quarti, e... i birboni posson morire; della peste si può guarire; ma agli anni non c’è rimedio: e, come dice, senectus ipsa est morbus. [16] - Ora, - disse Renzo, - parli pur latino quanto vuole; che non me n’importa nulla. - Tu l’hai ancora col latino, tu: bene bene, t’accomoderò io: quando mi verrai davanti, con questa creatura, per sentirvi dire appunto certe paroline in latino, ti dirò: latino tu non ne vuoi: vattene in pace. Ti piacerà? - Eh! so io quel che dico, - riprese Renzo: - non è quel latino lì che mi fa paura: quello è un latino sincero, sacrosanto, come quel della messa: anche loro, lì, bisogna che leggano quel che c’è sul libro. Parlo di quel latino birbone, fuor di chiesa, che viene addosso a tradimento, nel buono d’un discorso. Per esempio, ora che siam qui, che tutto è finito; quel latino che andava cavando fuori, lì proprio, in quel canto, per darmi ad intendere che non poteva, e che ci voleva dell’altre cose, e che so io? me lo volti un po’ in volgare ora. - Sta’ zitto, buffone, sta’ zitto: non rimestar queste cose; ché, se dovessimo ora fare i conti, non so chi avanzerebbe [17]. Io ho perdonato tutto: non ne parliam più: ma me n’avete fatti de’ tiri. Di te non mi fa specie, che sei un malandrinaccio; ma dico quest’acqua cheta, questa santerella, questa madonnina infilzata [18], che si sarebbe creduto far peccato a guardarsene. Ma già, lo so io chi l’aveva ammaestrata, lo so io, lo so io -. Così dicendo, accennava Agnese col dito, che prima aveva tenuto rivolto a Lucia: e non si potrebbe spiegare con che bonarietà, con che piacevolezza facesse que’ rimproveri. Quella notizia gli aveva dato una disinvoltura, una parlantina, insolita da gran tempo; e saremmo ancor ben lontani dalla fine, se volessimo riferir tutto il rimanente di que’ discorsi, che lui tirò in lungo, ritenendo più d’una volta la compagnia che voleva andarsene, e fermandola poi ancora un pochino sull’uscio di strada, sempre a parlar di bubbole. Il giorno seguente, gli capitò una visita, quanto meno aspettata tanto più gradita: il signor marchese del quale s’era parlato: un uomo tra la virilità e la vecchiezza, il cui aspetto era come un attestato di ciò che la fama diceva di lui: aperto, cortese, placido, umile, dignitoso, e qualcosa che indicava una mestizia rassegnata. - Vengo, - disse, - a portarle i saluti del cardinale arcivescovo. - Oh che degnazione di tutt’e due! - Quando fui a prender congedo da quest’uomo incomparabile, che m’onora della sua amicizia, mi parlò di due giovani di codesta cura, ch’eran promessi sposi, e che hanno avuto de’ guai, per causa di quel povero don Rodrigo. Monsignore desidera d’averne notizia. Son vivi? E le loro cose sono accomodate? - Accomodato ogni cosa. Anzi, io m’era proposto di scriverne a sua eminenza; ma ora che ho l’onore... - Si trovan qui? - Qui; e, più presto che si potrà, saranno marito e moglie. - E io la prego di volermi dire se si possa far loro del bene, e anche d’insegnarmi la maniera più conveniente. In questa calamità, ho perduto i due soli figli che avevo, e la madre loro, e ho avute tre eredità considerabili. Del superfluo, n’avevo anche prima: sicché lei vede che il darmi una occasione d’impiegarne, e tanto più una come questa, è farmi veramente un servizio. - Il cielo la benedica! Perché non sono tutti come lei i...? Basta; la ringrazio anch’io di cuore per questi miei figliuoli. E giacché vossignoria illustrissima mi dà tanto coraggio, sì signore, che ho un espediente da suggerirle, il quale forse non le dispiacerà. Sappia dunque che questa buona gente son risoluti d’andare a metter su casa altrove, e di vender quel poco che hanno al sole qui: una vignetta il giovine, di nove o dieci pertiche [19], salvo il vero, ma trasandata affatto: bisogna far conto del terreno, nient’altro; di più una casuccia lui, e un’altra la sposa: due topaie, veda. Un signore come vossignoria non può sapere come la vada per i poveri, quando voglion disfarsi del loro. Finisce sempre a andare in bocca di qualche furbo, che forse sarà già un pezzo che fa all’amore a quelle quattro braccia di terra, e quando sa che l’altro ha bisogno di vendere, si ritira, fa lo svogliato; bisogna corrergli dietro, e dargliele per un pezzo di pane: specialmente poi in circostanze come queste [20]. Il signor marchese ha già veduto dove vada a parare il mio discorso. La carità più fiorita che vossignoria illustrissima possa fare a questa gente, è di cavarli da quest’impiccio, comprando quel poco fatto loro. Io, ner dir la verità, do un parere interessato, perché verrei ad acquistare nella mia cura un compadrone come il signor marchese; ma vossignoria deciderà secondo che le parrà meglio: io ho parlato per ubbidienza. Il marchese lodò molto il suggerimento; ringraziò don Abbondio, e lo pregò di voler esser arbitro del prezzo, e di fissarlo alto bene; e lo fece poi restar di sasso, col proporgli che s’andasse subito insieme a casa della sposa, dove sarebbe probabilmente anche lo sposo. Per la strada, don Abbondio, tutto gongolante, come vi potete immaginare, ne pensò e ne disse un’altra. - Giacché vossignoria illustrissima è tanto inclinato a far del bene a questa gente, ci sarebbe un altro servizio da render loro. Il giovine ha addosso una cattura, una specie di bando, per qualche scappatuccia che ha fatta in Milano, due anni sono, quel giorno del gran fracasso, dove s’è trovato impicciato, senza malizia, da ignorante, come un topo nella trappola: nulla di serio, veda: ragazzate, scapataggini: di far del male veramente, non è capace: e io posso dirlo, che l’ho battezzato, e l’ho veduto venir su: e poi, se vossignoria vuol prendersi il divertimento di sentir questa povera gente ragionar su alla carlona, potrà fargli raccontar la storia a lui, e sentirà. Ora, trattandosi di cose vecchie, nessuno gli dà fastidio; e, come le ho detto, lui pensa d’andarsene fuor di stato; ma, col tempo, o tornando qui, o altro, non si sa mai, lei m’insegna che è sempre meglio non esser su que’ libri. Il signor marchese, in Milano, conta, come è giusto, e per quel gran cavaliere, e per quel grand’uomo che è... No, no, mi lasci dire; ché la verità vuole avere il suo luogo. Una raccomandazione, una parolina d’un par suo, è più del bisogno per ottenere una buona assolutoria. - Non c’è impegni forti contro codesto giovine? - No, no; non crederei. Gli hanno fatto fuoco addosso nel primo momento; ma ora credo che non ci sia più altro che la semplice formalità. - Essendo così, la cosa sarà facile; e la prendo volentieri sopra di me - E poi non vorrà che si dica che è un grand’uomo. Lo dico, e lo voglio dire; a suo dispetto, lo voglio dire. E anche se io stessi zitto, già non servirebbe a nulla, perché parlan tutti; e vox populi, vox Dei. [21] Trovarono appunto le tre donne e Renzo. Come questi rimanessero, lo lascio considerare a voi: io credo che anche quelle nude e ruvide pareti, e l’impannate, e i panchetti, e le stoviglie si maravigliassero di ricever tra loro una visita così straordinaria. Avviò lui la conversazione, parlando del cardinale e dell’altre cose, con aperta cordialità, e insieme con delicati riguardi. Passò poi a far la proposta per cui era venuto. Don Abbondio, pregato da lui di fissare il prezzo, si fece avanti; e, dopo un po’ di cerimonie e di scuse, e che non era sua farina [22], e che non potrebbe altro che andare a tastoni, e che parlava per ubbidienza, e che si rimetteva, proferì, a parer suo, uno sproposito. Il compratore disse che, per la parte sua, era contentissimo, e, come se avesse franteso, ripeté il doppio; non volle sentir rettificazioni, e troncò e concluse ogni discorso invitando la compagnia a desinare per il giorno dopo le nozze, al suo palazzo, dove si farebbe l’istrumento in regola. [23] “Ah! - diceva poi tra sé don Abbondio, tornato a casa: - se la peste facesse sempre e per tutto le cose in questa maniera, sarebbe proprio peccato il dirne male: quasi quasi ce ne vorrebbe una, ogni generazione; e si potrebbe stare a patti d’averla; ma guarire, ve’ ”. Venne la dispensa, venne l’assolutoria [24], venne quel benedetto giorno: i due promessi andarono, con sicurezza trionfale, proprio a quella chiesa, dove, proprio per bocca di don Abbondio, furono sposi. Un altro trionfo, e ben più singolare, fu l’andare a quel palazzotto; e vi lascio pensare che cose dovessero passar loro per la mente, in far quella salita, all’entrare in quella porta; e che discorsi dovessero fare, ognuno secondo il suo naturale. Accennerò soltanto che, in mezzo all’allegria, ora l’uno, ora l’altro motivò più d’una volta, che, per compir la festa, ci mancava il povero padre Cristoforo. - Ma per lui, - dicevan poi, - sta meglio di noi sicuramente. Il marchese fece loro una gran festa, li condusse in un bel tinello [25], mise a tavola gli sposi, con Agnese e con la mercantessa; e prima di ritirarsi a pranzare altrove con don Abbondio, volle star lì un poco a far compagnia agl’invitati, e aiutò anzi a servirli. A nessuno verrà, spero, in testa di dire che sarebbe stata cosa più semplice fare addirittura una tavola sola. Ve l’ho dato per un brav’uomo, ma non per un originale, come si direbbe ora; v’ho detto ch’era umile, non già che fosse un portento d’umiltà. N’aveva quanta ne bisognava per mettersi al di sotto di quella buona gente, ma non per istar loro in pari. Dopo i due pranzi, fu steso il contratto per mano d’un dottore, il quale non fu l’Azzecca-garbugli. Questo, voglio dire la sua spoglia, era ed è tuttavia a Canterelli. E per chi non è di quelle parti, capisco anch’io che qui ci vuole una spiegazione. Sopra Lecco forse un mezzo miglio, e quasi sul fianco dell’altro paese chiamato Castello, c’è un luogo detto Canterelli, dove s’incrocian due strade; e da una parte del crocicchio, si vede un rialto, come un poggetto artificiale, con una croce in cima; il quale non è altro che un gran mucchio di morti in quel contagio. La tradizione, per dir la verità, dice semplicemente i morti del contagio; ma dev’esser quello senz’altro, che fu l’ultimo, e il più micidiale di cui rimanga memoria. E sapete che le tradizioni, chi non le aiuta, da sé dicon sempre troppo poco. Nel ritorno non ci fu altro inconveniente, se non che Renzo era un po’ incomodato dal peso de’ quattrini che portava via. Ma l’uomo, come sapete, aveva fatto ben altre vite. Non parlo del lavoro della mente, che non era piccolo, a pensare alla miglior maniera di farli fruttare. A vedere i progetti che passavan per quella mente, le riflessioni, l’immaginazioni; a sentire i pro e i contro, per l’agricoltura e per l’industria, era come se ci si fossero incontrate due accademie del secolo passato. E per lui l’impiccio era ben più reale; perché, essendo un uomo solo, non gli si poteva dire: che bisogno c’è di scegliere? l’uno e l’altro, alla buon’ora; ché i mezzi, in sostanza, sono i medesimi; e son due cose come le gambe, che due vanno meglio d’una sola. [26] Non si pensò più che a fare i fagotti, e a mettersi in viaggio: casa Tramaglino per la nuova patria, e la vedova per Milano. Le lacrime, i ringraziamenti, le promesse d’andarsi a trovare furon molte. Non meno tenera, eccettuate le lacrime, fu la separazione di Renzo e della famiglia dall’ospite amico: e non crediate che con don Abbondio le cose passassero freddamente. Quelle buone creature avevan sempre conservato un certo attaccamento rispettoso per il loro curato; e questo, in fondo, aveva sempre voluto bene a loro. Son que’ benedetti affari, che imbroglian gli affetti. Chi domandasse se non ci fu anche del dolore in distaccarsi dal paese nativo, da quelle montagne; ce ne fu sicuro: ché del dolore, ce n’è, sto per dire, un po’ per tutto. Bisogna però che non fosse molto forte, giacché avrebbero potuto risparmiarselo, stando a casa loro, ora che i due grand’inciampi, don Rodrigo e il bando, eran levati. Ma, già da qualche tempo, erano avvezzi tutt’e tre a riguardar come loro il paese dove andavano. Renzo l’aveva fatto entrare in grazia alle donne, raccontando l’agevolezze che ci trovavano gli operai, e cento cose della bella vita che si faceva là. Del resto, avevan tutti passato de’ momenti ben amari in quello a cui voltavan le spalle; e le memorie triste, alla lunga guastan sempre nella mente i luoghi che le richiamano. E se que’ luoghi son quelli dove siam nati, c’è forse in tali memorie qualcosa di più aspro e pungente. Anche il bambino, dice il manoscritto, riposa volentieri sul seno della balia, cerca con avidità e con fiducia la poppa che l’ha dolcemente alimentato fino allora; ma se la balia, per divezzarlo, la bagna d’assenzio, il bambino ritira la bocca, poi torna a provare, ma finalmente se ne stacca; piangendo sì, ma se ne stacca. Cosa direte ora, sentendo che, appena arrivati e accomodati nel nuovo paese, Renzo ci trovò de’ disgusti bell’e preparati? Miserie; ma ci vuol così poco a disturbare uno stato felice! Ecco, in poche parole, la cosa. Il parlare che, in quel paese, s’era fatto di Lucia, molto tempo prima che la ci arrivasse; il saper che Renzo aveva avuto a patir tanto per lei, e sempre fermo, sempre fedele; forse qualche parola di qualche amico parziale per lui e per tutte le cose sue, avevan fatto nascere una certa curiosità di veder la giovine, e una certa aspettativa della sua bellezza. Ora sapete come è l’aspettativa: immaginosa, credula, sicura; alla prova poi, difficile, schizzinosa: non trova mai tanto che le basti, perché, in sostanza, non sapeva quello che si volesse; e fa scontare senza pietà il dolce che aveva dato senza ragione. Quando comparve questa Lucia, molti i quali credevan forse che dovesse avere i capelli proprio d’oro, e le gote proprio di rosa, e due occhi l’uno più bello dell’altro, e che so io? cominciarono a alzar le spalle, ad arricciar il naso, e a dire: - eh! l’è questa? Dopo tanto tempo, dopo tanti discorsi, s’aspettava qualcosa di meglio. Cos’è poi? Una contadina come tant’altre. Eh! di queste e delle meglio, ce n’è per tutto -. Venendo poi a esaminarla in particolare, notavan chi un difetto, chi un altro: e ci furon fin di quelli che la trovavan brutta affatto. Siccome però nessuno le andava a dir sul viso a Renzo, queste cose; così non c’era gran male fin lì. Chi lo fece il male, furon certi tali che gliele rapportarono: e Renzo, che volete? ne fu tocco sul vivo. Cominciò a ruminarci sopra, a farne di gran lamenti, e con chi gliene parlava, e più a lungo tra sé. “E cosa v’importa a voi altri? E chi v’ha detto d’aspettare? Son mai venuto io a parlarvene? a dirvi che la fosse bella? E quando me lo dicevate voi altri, v’ho mai risposto altro, se non che era una buona giovine? È una contadina! V’ho detto mai che v’avrei menato qui una principessa? Non vi piace? Non la guardate. N’avete delle belle donne: guardate quelle”. E vedete un poco come alle volte una corbelleria basta a decidere dello stato d’un uomo per tutta la vita. Se Renzo avesse dovuto passar la sua in quel paese, secondo il suo primo disegno, sarebbe stata una vita poco allegra. A forza d’esser disgustato, era ormai diventato disgustoso. Era sgarbato con tutti, perché ognuno poteva essere uno de’ critici di Lucia. Non già che trattasse proprio contro il galateo; ma sapete quante belle cose si posson fare senza offender le regole della buona creanza: fino sbudellarsi. Aveva un non so che di sardonico in ogni sua parola; in tutto trovava anche lui da criticare, a segno che, se faceva cattivo tempo due giorni di seguito, subito diceva: - eh già, in questo paese! - Vi dico che non eran pochi quelli che l’avevan già preso a noia, e anche persone che prima gli volevan bene; e col tempo, d’una cosa nell’altra, si sarebbe trovato, per dir così, in guerra con quasi tutta la popolazione, senza poter forse né anche lui conoscer la prima cagione d’un così gran male. Ma si direbbe che la peste avesse preso l’impegno di raccomodar tutte le malefatte di costui [27]. Aveva essa portato via il padrone d’un altro filatoio, situato quasi sulle porte di Bergamo; e l’erede, giovine scapestrato, che in tutto quell’edifizio non trovava che ci fosse nulla di divertente, era deliberato, anzi smanioso di vendere, anche a mezzo prezzo; ma voleva i danari l’uno sopra l’altro, per poterli impiegar subito in consumazioni improduttive. Venuta la cosa agli orecchi di Bortolo, corse a vedere; trattò: patti più grassi non si sarebbero potuti sperare; ma quella condizione de’ pronti contanti guastava tutto, perché quelli che aveva messi da parte, a poco a poco, a forza di risparmi, erano ancor lontani da arrivare alla somma. Tenne l’amico in mezza parola, tornò indietro in fretta, comunicò l’affare al cugino, e gli propose di farlo a mezzo. Una così bella proposta troncò i dubbi economici di Renzo, che si risolvette subito per l’industria, e disse di sì. Andarono insieme, e si strinse il contratto. Quando poi i nuovi padroni vennero a stare sul loro, Lucia, che lì non era aspettata per nulla, non solo non andò soggetta a critiche, ma si può dire che non dispiacque; e Renzo venne a risapere che s’era detto da più d’uno: - avete veduto quella bella baggiana [28] che c’è venuta? - L’epiteto faceva passare il sostantivo. E anche del dispiacere che aveva provato nell’altro paese, gli restò un utile ammaestramento. Prima d’allora era stato un po’ lesto nel sentenziare, e si lasciava andar volentieri a criticar la donna d’altri, e ogni cosa. Allora s’accorse che le parole fanno un effetto in bocca, e un altro negli orecchi; e prese un po’ più d’abitudine d’ascoltar di dentro le sue, prima di proferirle. Non crediate però che non ci fosse qualche fastidiuccio anche lì. L’uomo (dice il nostro anonimo: e già sapete per prova che aveva un gusto un po’ strano in fatto di similitudini; ma passategli anche questa, che avrebbe a esser l’ultima), l’uomo, fin che sta in questo mondo, è un infermo che si trova sur un letto scomodo più o meno, e vede intorno a sé altri letti, ben rifatti al di fuori, piani, a livello: e si figura che ci si deve star benone. Ma se gli riesce di cambiare, appena s’è accomodato nel nuovo, comincia, pigiando, a sentire qui una lisca che lo punge, lì un bernoccolo che lo preme: siamo in somma, a un di presso, alla storia di prima. E per questo, soggiunge l’anonimo, si dovrebbe pensare più a far bene, che a star bene: e così si finirebbe anche a star meglio. È tirata un po’ con gli argani, e proprio da secentista; ma in fondo ha ragione. Per altro, prosegue, dolori e imbrogli della qualità e della forza di quelli che abbiam raccontati, non ce ne furon più per la nostra buona gente: fu, da quel punto in poi, una vita delle più tranquille, delle più felici, delle più invidiabili; di maniera che, se ve l’avessi a raccontare, vi seccherebbe a morte. Gli affari andavan d’incanto: sul principio ci fu un po’ d’incaglio per la scarsezza de’ lavoranti e per lo sviamento e le pretensioni de’ pochi ch’eran rimasti. Furon pubblicati editti che limitavano le paghe degli operai; malgrado quest’aiuto [29], le cose si rincamminarono, perché alla fine bisogna che si rincamminino. Arrivò da Venezia un altro editto, un po’ più ragionevole: esenzione, per dieci anni, da ogni carico reale e personale [30] ai forestieri che venissero a abitare in quello stato. Per i nostri fu una nuova cuccagna. Prima che finisse l’anno del matrimonio, venne alla luce una bella creatura; e, come se fosse fatto apposta per dar subito opportunità a Renzo d’adempire quella sua magnanima promessa, fu una bambina; e potete credere che le fu messo nome Maria. Ne vennero poi col tempo non so quant’altri, dell’uno e dell’altro sesso: e Agnese affaccendata a portarli in qua e in là, l’uno dopo l’altro, chiamandoli cattivacci, e stampando loro in viso de’ bacioni, che ci lasciavano il bianco per qualche tempo. E furon tutti ben inclinati; e Renzo volle che imparassero tutti a leggere e scrivere, dicendo che, giacché la c’era questa birberia, dovevano almeno profittarne anche loro. Il bello era a sentirlo raccontare le sue avventure: e finiva sempre col dire le gran cose che ci aveva imparate, per governarsi meglio in avvenire. - Ho imparato, - diceva, - a non mettermi ne’ tumulti: ho imparato a non predicare in piazza: ho imparato a guardare con chi parlo: ho imparato a non alzar troppo il gomito: ho imparato a non tenere in mano il martello delle porte, quando c’è lì d’intorno gente che ha la testa calda: ho imparato a non attaccarmi un campanello al piede, prima d’aver pensato quel che possa nascere -. E cent’altre cose. Lucia però, non che trovasse la dottrina falsa in sé, ma non n’era soddisfatta; le pareva, così in confuso, che ci mancasse qualcosa. A forza di sentir ripetere la stessa canzone, e di pensarci sopra ogni volta, - e io, - disse un giorno al suo moralista, - cosa volete che abbia imparato? Io non sono andata a cercare i guai: son loro che sono venuti a cercar me. Quando non voleste dire, - aggiunse, soavemente sorridendo, - che il mio sproposito sia stato quello di volervi bene, e di promettermi a voi. Renzo, alla prima, rimase impicciato. Dopo un lungo dibattere e cercare insieme, conclusero che i guai vengono bensì spesso, perché ci si è dato cagione; ma che la condotta più cauta e più innocente non basta a tenerli lontani; e che quando vengono, o per colpa o senza colpa, la fiducia in Dio li raddolcisce, e li rende utili per una vita migliore. Questa conclusione, benché trovata da povera gente, c’è parsa così giusta, che abbiam pensato di metterla qui, come il sugo di tutta la storia. La quale, se non v’è dispiaciuta affatto, vogliatene bene a chi l’ha scritta, e anche un pochino a chi l’ha raccomodata. Ma se in vece fossimo riusciti ad annoiarvi, credete che non s’è fatto apposta. |
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Note
- Un calesse.
- Un vaso rotto (il curato allude alle sue precarie condizioni fisiche).
- Quel viso lungo, quella faccia tosta.
- Rallegramenti.
- Stavano in guardia (cfr. il discorso del cardinale a don Abbondio, nel cap. XXVI: "state alle velette").
- Espatriare.
- Il fide-commisso (fedecommesso) era una disposizione testamentaria in vigore sino alla Rivoluzione francese, che obbligava l'erede a conservare intatti i patrimoni immobiliari ricevuti per trasmetterli a sua volta ai propri eredi; venne abolito in parte dal Codice Napoleonico.
- I primi esercizi di latino.
- Quell'alterigia, quella boria.
- Don Abbondio si riferisce al decreto di cui si parla al cap. XXXI, con cui si indicevano pubbliche feste nonostante il pericolo della peste e che prevedeva sgravi di pena per i condannati.
- La peste ha cancellato molte cose.
- All'epoca il matrimonio doveva essere preceduto da tre pubblici annunci in chiesa, anche se qui don Abbondio allude alla "dispensa" che potrà essere concessa per gli altri due dalla Curia (ciò avveniva per facilitare gli sposalizi, assai numerosi dopo lo spopolamento della peste).
- Si tratta del decreto del 10 giugno 1630, emanato da papa Urbano VIII (ai cardinali il titolo di "eminenza" spetta ancora oggi).
- Perpetua avrebbe trovato anche lei un pretendente.
- Parrocchia.
- "La vecchiaia è di per sé una malattia": la frase è di P. Terenzio Afro (Phormio, IV, v. 575) e testimonia una discreta cultura da parte del curato, che forse contrasta un po' con l'ignoranza dimostrata nel cap. VIII quando si chiedeva chi fosse Carneade.
- Don Abbondio si riferisce allo strategemma del "matrimonio a sorpresa" (cap. VIII).
- L'espressione significa "giovane pudica" e deriva dalle immagini popolari della Vergine dei Dolori col cuore trafitto da sette spade (Perpetua aveva detto la stessa cosa nel cap. XI, parlando proprio del tentato matrimonio).
- La pertica era un'antica misura agraria, corrispondente a circa a 600 metri quadri (dunque la vigna di Renzo si estende per circa mezzo ettaro).
- A causa dell'epidemia di peste sono rimasti pochi a lavorare la terra e dunque c'è grande offerta di proprietà fondiarie, a fronte di scarsa richiesta (questo fa naturalmente scendere i prezzi, in base alle logiche di mercato).
- La voce del popolo è voce di Dio.
- Non se ne intendeva, non era il suo mestiere.
- Il contratto di compravendita.
- La dispensa dagli ulteriori due annunci delle nozze e la revoca del bando contro Renzo.
- Il tinello non era la sala da pranzo padronale, ma il locale dove pranzava la servitù.
- Nel Settecento erano fiorite molte accademie letterarie e scientifiche, che discutevano anche di temi economici come, appunto, la preferenza da accordare all'agricoltura (sostenuta dai seguaci della fisiocrazia) o all'industria manifatturiera: Manzoni osserva con ironia che entrambe le attività economiche sono degne e utili al benessere della società, ma nel caso di Renzo, che è un singolo e non un'istituzione culturale, il problema è più pressante e riguarda la sua vita futura.
- Aggiustare tutti gli errori di Renzo.
- Nel Bergamasco i Milanesi erano detti appunto baggiani, cosa che Renzo aveva sempre accettato a malincuore (cfr. cap. XVII).
- Manzoni, seguace del liberismo economico, disapprova che il Governo di Venezia limiti per legge le paghe degli operai, che devono essere fissate secondo la legge del mercato.
- Imposte sul patrimonio e sul reddito.