Aldo Spranzi
"L'immoralità di don Abbondio"
Aldo Spranzi
In questa pagina dedicata al comico curato dei "Promessi sposi", lo studioso ribalta il giudizio negativo ma sostanzialmente bonario che la critica solitamente riserva al personaggio di don Abbondio, affermando che il suo comportamento nel romanzo è in realtà immorale e addirittura criminoso, in quanto basato egoisticamente sulla difesa dei propri privilegi acquisiti attraverso l'ordinazione sacerdotale. Inoltre don Abbondio non avrebbe affatto paura di essere ucciso da don Rodrigo ma solo di mutare il tranquillo rapporto di "quieto vivere" col signorotto, basato sull'accettazione del sistema feudale che assicura al religioso una vita sicura e una posizione di rendita. Tale prospettiva è dunque molto diversa da quella tradizionale e, per esempio, antitetica rispetto a quella espressa da L. Pirandello nel saggio "L'umorismo", in cui diverse pagine sono dedicate a don Abbondio.
Aldo Spranzi è professore ordinario alla Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Milano e la sua attività di critico letterario è iniziata proprio con il saggio sul romanzo manzoniano da cui è tratto questo brano. Si tratta di una personale rilettura del capolavoro che si propone, non senza una certa tendenza al paradosso, di dimostrare la sostanziale irreligiosità di Manzoni e il giudizio negativo sulla Chiesa che egli avrebbe voluto esprimere nella narrazione. Le opinioni dello studioso, anche se sembrano molto lontane dalla critica tradizionale, trovano tuttavia una qualche affinità con le analisi più recenti di autori quali Calvino e Raimondi, che hanno sottolineato proprio il carattere aperto e problematico della religiosità di Manzoni e hanno temperato l'ottimistico giudizio della critica ottocentesca che vedeva nei "Promessi sposi" il "romanzo della Provvidenza".
Aldo Spranzi è professore ordinario alla Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Milano e la sua attività di critico letterario è iniziata proprio con il saggio sul romanzo manzoniano da cui è tratto questo brano. Si tratta di una personale rilettura del capolavoro che si propone, non senza una certa tendenza al paradosso, di dimostrare la sostanziale irreligiosità di Manzoni e il giudizio negativo sulla Chiesa che egli avrebbe voluto esprimere nella narrazione. Le opinioni dello studioso, anche se sembrano molto lontane dalla critica tradizionale, trovano tuttavia una qualche affinità con le analisi più recenti di autori quali Calvino e Raimondi, che hanno sottolineato proprio il carattere aperto e problematico della religiosità di Manzoni e hanno temperato l'ottimistico giudizio della critica ottocentesca che vedeva nei "Promessi sposi" il "romanzo della Provvidenza".
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Don Abbondio si trova ad affrontare la vita partendo da una collocazione sociale drammaticamente povera di alternative: "non nobile, non ricco, coraggioso ancor meno [...] come un vaso di terra cotta, costretto a viaggiare in compagnia di molti vasi di ferro". La sola carriera che, in quelle condizioni consentiva di uscire da una prospettiva di dura povertà e di estrema vulnerabilità, era la carriera ecclesiastica.
La selezione era durissima, e possiamo facilmente immaginare con quanti sforzi, con quanta determinazione, con quanta pazienza, con quanta inflessibile e perseverante ipocrisia, egli sia riuscito nell'intento. L'atteggiamento di soddisfatta beatitudine col quale lo incontriamo può essere inteso solo avendo presente gli sforzi con cui è giunto alla meta: comprendiamo così anche la sua costante affermazione del diritto a godere dei vantaggi di quelle fatiche, e l'ostilità feroce che egli manifesta nei confronti di chiunque, per qualsiasi ragione, si azzardi a disturbare la sua quiete e i suoi privilegi.
Don Abbondio ha fatto fin dall'inizio una scelta netta in termini di funzione-obiettivo. Il suo 'sistema' è dominato dalla minimizzazione del rischio: egli scarta ogni alternativa, pur a sua disposizione, in grado di dargli vantaggi di ricchezza, di potere, o di altra natura, che implichi un innalzamento del livello del rischio. Ciò gli consente di stabilizzare l'obiettivo raggiunto entrando nella Chiesa, e di estraniarsi dalla vita, contemplando il caos sociale da una tranquilla posizione di rendita.
Non si tratta né di debolezza, né di mansueta innocuità, come vuole la critica che lo definisce, alla luce del suo sistema, un "pover'uomo": la "neutralità disarmata" scelta da un prete, membro di una corporazione potente, riverita e temuta, è cosa ben diversa dalla neutralità disarmata di un povero diavolo privo di potere e di protezione.
L'obiettivo di quieto vivere che domina la funzione-obiettivo di don Abbondio opera nella fiaba come un potente fattore di simpatia e contribuisce in modo determinante a far perdonare al curato i suoi comportamenti criminali. Ma fuori dai meccanismi di simpatia-antipatia della fiaba non è lecito derivare dal sistema di don Abbondio, cioè dalla particolare configurazione della funzione-obiettivo, alcuna conseguenza in termini di egoismo-altruismo dei suoi comportamenti e tanto meno di moralità di questi ultimi.
Desumere dal fatto che don Abbondio è un "eroe del quieto vivere" che egli "è un debole ma non un malvagio", o che "ha rinunciato ad ogni aspirazione personale sia di vizio sia di virtù", o che il suo è un "amor proprio senza aspirazioni, senza concupiscenze, senza vanità, senz'orgoglio, destituito di quell'aggressività che sembra definirlo", è un errore.
Il suo sistema di quieto vivere non origina dalla debolezza, o dall'innocuità: gli è costato tant'anni di studio e di pazienza, seguiti a tant'anni di fatiche improbe per riuscire a entrare nella Chiesa.
Come si può affermare che "egli non ha desideri, se non quello negativo di essere lasciato in pace"? Quello di godere l'esistenza in una posizione di privilegio, senza essere coinvolto nelle rischiose contese della vita, senza dare nulla agli altri uomini se non un burocratico annuncio della parola del Cristo, non è assenza di desideri ma desiderio fra i più ambiziosi che un uomo possa coltivare, in un'epoca feudale, di miseria e violenza, come quella in cui il nostro curato vive. [...]
C'è di più: questo atteggiamento di totale chiusura nei confronti dei valori ideali si estende anche agli aspetti morali, fatto questo che va ben oltre la sua laicità e di cui occorrerà valutare attentamente i significati e le implicazioni. Non c'è solo irriverenza nei confronti dei valori, c'è un vero e proprio atteggiamento blasfemo.
Lui fa solo i conti con la forza, quella logica spietata priva di ideali che regola il mondo: "non si tratta di torto o di ragione; si tratta di forza" [II]. L'ideale è un lusso, uno sfizio che serve a ingentilire la vita e i rapporti sociali nei momenti di riposo, quando tutto va bene e non si devono fare i conti con la violenza. In questi momenti, in cui i suoi interessi non sono minacciati, don Abbondio sfodera il repertorio religioso, quello che usa nelle prediche domenicali: "vedete, figliuoli, se la Provvidenza [...]" [XXXVIII]. Si cerca di recuperare questo suo modo di essere alla logica dell'ispirazione religiosa del romanzo evitando in tal modo lo scandalo definendolo "l'uomo dei paradossi". Come dire: la conformazione della sua intelligenza, il suo humour, stimolati dalla natura paurosa, lo portano, più o meno innocentemente, a scherzare con i valori, e anche questo confluisce nella buffa comicità. [...]
Per la difesa del proprio quieto vivere, don Abbondio non esita a mettere Renzo e Lucia in una situazione di pericolo mortale. Che non rischiasse la vita, lo sappiamo di sicuro: sappiamo anche che non era convinto di rischiarla. Ciò che intende evitare non sono le schioppettate sulla schiena, ma un'alterazione del suo rapporto con don Rodrigo, che avrebbe potuto in futuro, in qualche modo vendicarsi dello sgarbo subito. Per questo dice al cardinale: "bisognerebbe che vossignoria illustrissima fosse sempre qui, o almeno vicino" [XXV]; per questo rifiuta di celebrare il matrimonio finché non è certo della morte di don Rodrigo. Ciò che vuole, insomma, è non guastare i rapporti di buon vicinato col tiranno locale, ed evitare così ogni possibile disturbo, presente o futuro, alla tranquillità del proprio vivere.
La sua agitazione, dopo l'ambasciata dei bravi, riguarda soprattutto i possibili rischi della complicità che egli è subito disposto a concedere, senza alcuna considerazione per il danno a Renzo e Lucia. Dolorosa è per lui l'incertezza nella valutazione dei due ordini di rischi: da un lato quelli connessi a uno sgarbo a don Rodrigo, dall'altro quelli che la complicità gli può procurare. Non è in grado al momento di ponderarli adeguatamente, e allora decide di prender tempo in modo formalmente pulito: si tratta di arrivare con un pretesto al tempo proibito per le nozze: poi avrà due mesi di tempo per ponderare e decidere.
Non è quindi detto che don Abbondio non avrebbe giocato, in un secondo tempo, la carta del cardinale: l'avrebbe fatto se i possibili rischi della complicità fossero risultati superiori a quelli della disubbidienza a don Rodrigo. Nessuna considerazione morale dunque, ma solo un calcolo di convenienza, in cui pone sullo stesso piano i suoi piccoli fastidi e i pericoli mortali dei due giovani: o meglio, questi non li considera neppure. [...]
Il dilemma che agita don Abbondio riguarda quindi la difficile comparazione dei rischi, in una situazione di urgenza decisionale (la minaccia giunge il giorno prima delle nozze). A questo si aggiunge la stranezza della mossa di don Rodrigo, che il curato certamente percepisce, e che accresce la sua perplessità. Ma le schioppettate nella schiena non c'entrano.
Più ancora dell'incertezza sui rischi della complicità, gioca la sorpresa per l'infrazione di una regola del gioco sempre rispettata tra "galantuomini", e ancor più il fatto che a don Abbondio una cosa del genere capita certamente per la prima volta, in quarant'anni di funzionamento del sistema.
La "moralità" di don Abbondio è eterodiretta: decide per lui chi determina l'entità dei rischi dei suoi comportamenti: se all'interno della Chiesa don Abbondio avesse dovuto fare i conti col rischio di sanzioni commisurate alla gravità dei suoi comportamenti, avrebbe sicuramente mandato al diavolo don Rodrigo e maritato, senza esitazioni, Renzo e Lucia.
Don Abbondio si trova ad affrontare la vita partendo da una collocazione sociale drammaticamente povera di alternative: "non nobile, non ricco, coraggioso ancor meno [...] come un vaso di terra cotta, costretto a viaggiare in compagnia di molti vasi di ferro". La sola carriera che, in quelle condizioni consentiva di uscire da una prospettiva di dura povertà e di estrema vulnerabilità, era la carriera ecclesiastica.
La selezione era durissima, e possiamo facilmente immaginare con quanti sforzi, con quanta determinazione, con quanta pazienza, con quanta inflessibile e perseverante ipocrisia, egli sia riuscito nell'intento. L'atteggiamento di soddisfatta beatitudine col quale lo incontriamo può essere inteso solo avendo presente gli sforzi con cui è giunto alla meta: comprendiamo così anche la sua costante affermazione del diritto a godere dei vantaggi di quelle fatiche, e l'ostilità feroce che egli manifesta nei confronti di chiunque, per qualsiasi ragione, si azzardi a disturbare la sua quiete e i suoi privilegi.
Don Abbondio ha fatto fin dall'inizio una scelta netta in termini di funzione-obiettivo. Il suo 'sistema' è dominato dalla minimizzazione del rischio: egli scarta ogni alternativa, pur a sua disposizione, in grado di dargli vantaggi di ricchezza, di potere, o di altra natura, che implichi un innalzamento del livello del rischio. Ciò gli consente di stabilizzare l'obiettivo raggiunto entrando nella Chiesa, e di estraniarsi dalla vita, contemplando il caos sociale da una tranquilla posizione di rendita.
Non si tratta né di debolezza, né di mansueta innocuità, come vuole la critica che lo definisce, alla luce del suo sistema, un "pover'uomo": la "neutralità disarmata" scelta da un prete, membro di una corporazione potente, riverita e temuta, è cosa ben diversa dalla neutralità disarmata di un povero diavolo privo di potere e di protezione.
L'obiettivo di quieto vivere che domina la funzione-obiettivo di don Abbondio opera nella fiaba come un potente fattore di simpatia e contribuisce in modo determinante a far perdonare al curato i suoi comportamenti criminali. Ma fuori dai meccanismi di simpatia-antipatia della fiaba non è lecito derivare dal sistema di don Abbondio, cioè dalla particolare configurazione della funzione-obiettivo, alcuna conseguenza in termini di egoismo-altruismo dei suoi comportamenti e tanto meno di moralità di questi ultimi.
Desumere dal fatto che don Abbondio è un "eroe del quieto vivere" che egli "è un debole ma non un malvagio", o che "ha rinunciato ad ogni aspirazione personale sia di vizio sia di virtù", o che il suo è un "amor proprio senza aspirazioni, senza concupiscenze, senza vanità, senz'orgoglio, destituito di quell'aggressività che sembra definirlo", è un errore.
Il suo sistema di quieto vivere non origina dalla debolezza, o dall'innocuità: gli è costato tant'anni di studio e di pazienza, seguiti a tant'anni di fatiche improbe per riuscire a entrare nella Chiesa.
Come si può affermare che "egli non ha desideri, se non quello negativo di essere lasciato in pace"? Quello di godere l'esistenza in una posizione di privilegio, senza essere coinvolto nelle rischiose contese della vita, senza dare nulla agli altri uomini se non un burocratico annuncio della parola del Cristo, non è assenza di desideri ma desiderio fra i più ambiziosi che un uomo possa coltivare, in un'epoca feudale, di miseria e violenza, come quella in cui il nostro curato vive. [...]
C'è di più: questo atteggiamento di totale chiusura nei confronti dei valori ideali si estende anche agli aspetti morali, fatto questo che va ben oltre la sua laicità e di cui occorrerà valutare attentamente i significati e le implicazioni. Non c'è solo irriverenza nei confronti dei valori, c'è un vero e proprio atteggiamento blasfemo.
Lui fa solo i conti con la forza, quella logica spietata priva di ideali che regola il mondo: "non si tratta di torto o di ragione; si tratta di forza" [II]. L'ideale è un lusso, uno sfizio che serve a ingentilire la vita e i rapporti sociali nei momenti di riposo, quando tutto va bene e non si devono fare i conti con la violenza. In questi momenti, in cui i suoi interessi non sono minacciati, don Abbondio sfodera il repertorio religioso, quello che usa nelle prediche domenicali: "vedete, figliuoli, se la Provvidenza [...]" [XXXVIII]. Si cerca di recuperare questo suo modo di essere alla logica dell'ispirazione religiosa del romanzo evitando in tal modo lo scandalo definendolo "l'uomo dei paradossi". Come dire: la conformazione della sua intelligenza, il suo humour, stimolati dalla natura paurosa, lo portano, più o meno innocentemente, a scherzare con i valori, e anche questo confluisce nella buffa comicità. [...]
Per la difesa del proprio quieto vivere, don Abbondio non esita a mettere Renzo e Lucia in una situazione di pericolo mortale. Che non rischiasse la vita, lo sappiamo di sicuro: sappiamo anche che non era convinto di rischiarla. Ciò che intende evitare non sono le schioppettate sulla schiena, ma un'alterazione del suo rapporto con don Rodrigo, che avrebbe potuto in futuro, in qualche modo vendicarsi dello sgarbo subito. Per questo dice al cardinale: "bisognerebbe che vossignoria illustrissima fosse sempre qui, o almeno vicino" [XXV]; per questo rifiuta di celebrare il matrimonio finché non è certo della morte di don Rodrigo. Ciò che vuole, insomma, è non guastare i rapporti di buon vicinato col tiranno locale, ed evitare così ogni possibile disturbo, presente o futuro, alla tranquillità del proprio vivere.
La sua agitazione, dopo l'ambasciata dei bravi, riguarda soprattutto i possibili rischi della complicità che egli è subito disposto a concedere, senza alcuna considerazione per il danno a Renzo e Lucia. Dolorosa è per lui l'incertezza nella valutazione dei due ordini di rischi: da un lato quelli connessi a uno sgarbo a don Rodrigo, dall'altro quelli che la complicità gli può procurare. Non è in grado al momento di ponderarli adeguatamente, e allora decide di prender tempo in modo formalmente pulito: si tratta di arrivare con un pretesto al tempo proibito per le nozze: poi avrà due mesi di tempo per ponderare e decidere.
Non è quindi detto che don Abbondio non avrebbe giocato, in un secondo tempo, la carta del cardinale: l'avrebbe fatto se i possibili rischi della complicità fossero risultati superiori a quelli della disubbidienza a don Rodrigo. Nessuna considerazione morale dunque, ma solo un calcolo di convenienza, in cui pone sullo stesso piano i suoi piccoli fastidi e i pericoli mortali dei due giovani: o meglio, questi non li considera neppure. [...]
Il dilemma che agita don Abbondio riguarda quindi la difficile comparazione dei rischi, in una situazione di urgenza decisionale (la minaccia giunge il giorno prima delle nozze). A questo si aggiunge la stranezza della mossa di don Rodrigo, che il curato certamente percepisce, e che accresce la sua perplessità. Ma le schioppettate nella schiena non c'entrano.
Più ancora dell'incertezza sui rischi della complicità, gioca la sorpresa per l'infrazione di una regola del gioco sempre rispettata tra "galantuomini", e ancor più il fatto che a don Abbondio una cosa del genere capita certamente per la prima volta, in quarant'anni di funzionamento del sistema.
La "moralità" di don Abbondio è eterodiretta: decide per lui chi determina l'entità dei rischi dei suoi comportamenti: se all'interno della Chiesa don Abbondio avesse dovuto fare i conti col rischio di sanzioni commisurate alla gravità dei suoi comportamenti, avrebbe sicuramente mandato al diavolo don Rodrigo e maritato, senza esitazioni, Renzo e Lucia.
_(da Il segreto di Alessandro Manzoni, Milano 2001)