Chiesa e religione nei Promessi sposi
F. Gonin, Il cardinale e don Abbondio
Le istituzioni ecclesiastiche hanno ovviamente una grande importanza nelle vicende del romanzo, insieme alla concezione della Provvidenza e dell'infallibile giustizia divina destinata a supplire alle imperfezioni di quella terrena, ma altrettanto manchevoli sono tuttavia i ministri della Chiesa chiamati a testimoniare la parola di Dio nel mondo, perciò il clero è rappresentato come una dimensione assai variegata che riproduce la diversificazione sociale (infatti vi sono al suo interno personaggi borghesi e nobili, figure positive che aiutano i protagonisti e altre negative che, per malvagità o paura, sono complici dei soprusi). La Chiesa è dunque formata da uomini e donne soggetti all'errore e vittime delle passioni mortali al pari di tutti gli altri, il che rientra nella visione religiosa dell'autore per cui la Provvidenza opera a vantaggio degli umili in base ai suoi disegni imperscrutabili, ma Dio resta invisibile agli occhi degli uomini e si manifesta agitando il dubbio nel cuore dei peccatori, come è evidente nella conversione di Lodovico-padre Cristoforo. E infatti il clero dimostra nella vicenda del romanzo molti difetti, a partire da quel don Abbondio che si è fatto prete per viltà e desiderio di quiete e, dunque, si dimostra inadatto a ricoprire l'alto ministero per cui non ha sentito una sincera vocazione: egli non è una figura del tutto negativa, dal momento che è affezionato ai due promessi e farà di tutto per aiutarli dopo la morte di don Rodrigo, tuttavia non sa opporsi alle angherie dei potenti ed è il tipico rappresentante di quel clero di campagna che spesso, nel XVII-XVIII secolo, godeva di ampi privilegi e chiudeva gli occhi di fronte alle soperchierie dei nobili (è la sostanza dei rimproveri che gli rivolgerà il cardinal Borromeo nei capp. XXV-XXVI, in cui è evidente il contrasto tra chi ha preso i voti per ricercare un'esistenza sicura e chi invece lo ha fatto per adempiere una missione, la stessa a cui il curato ha mancato in modo così vistoso). Se il clero secolare di cui don Abbondio è esponente mostrava spesso questi limiti nell'epoca storica del romanzo, non altrettanto può dirsi per quello monastico che nel libro è rappresentato soprattutto dai frati cappuccini: la loro scelta di indossare il saio equivale a un rifiuto radicale del mondo e di tutte le comodità che esso garantisce ai laici, dunque è la risposta a una vocazione seria e profonda (talvolta in seguito a drammatiche vicende personali, come nel caso di padre Cristoforo) oppure è la volontà di abbracciare una vita semplice e dedita al servizio dei bisognosi, come nel caso di fra Galdino e del padre guardiano del convento di Monza, o ancora di tutti quei cappuccini che operano al lazzaretto durante la peste. È soprattutto in questo luogo di sofferenze indicibili che risalta la grande propensione alla carità di questi straordinari personaggi, che con la loro abnegazione suppliscono alle carenze delle autorità cittadine e si prendono cura degli appestati finendo spesso per morirne, come accade appunto a fra Cristoforo che ha chiesto espressamente di essere mandato lì (e un altro grande esempio di religioso è offerto da padre Felice, il cappuccino che governa il lazzaretto e di cui l'autore fornisce un ritratto indimenticabile nel cap. XXXVI).
Neppure i cappuccini sono tuttavia esenti da macchia, dal momento che il padre provinciale subisce le pressioni politiche del conte zio e accetta di trasferire padre Cristoforo da Pescarenico, mostrandosi dunque sensibile agli argomenti di "onore" e opportunità addotti dall'importante funzionario di Stato: il padre appartiene all'alto clero e dunque parla lo stesso linguaggio del potere usato dal suo interlocutore, mostrando gli stessi difetti che caratterizzano i personaggi nobili del romanzo. Tale compiacenza degli alti prelati verso il potere dell'aristocrazia e della politica è proprio anche della badessa del monastero di Monza, fin troppo sollecita ad assecondare il principe padre di Gertrude nel suo disegno di far monacare la figlia, la quale è costretta a prendere il velo in assenza di una sincera vocazione e a trascorrere un'esistenza infelice che la porterà al peccato e al delitto (la "Signora" diventa lei pure esponente dell'alto clero in quanto appartenente a una nobile famiglia, esercitando un'influenza "politica" che, inizialmente, le servirà per offrire protezione ad Agnese e Lucia). La vicenda di Gertrude è anche esemplare dell'uso distorto della religione in nome di una malintesa concezione del decoro nobiliare, in cui sotto accusa vengono posti sia i membri dell'alto clero monastico sia gli esponenti dell'aristocrazia feudale, mentre il risultato è che la "Signora" verrà meno in modo abietto ai suoi doveri claustrali e si farà suo malgrado complice dell'innominato nel rapimento di Lucia, sia pure per motivi diversi da quelli che avevano indotto don Abbondio ad assecondare don Rodrigo (i due personaggi sono entrambi esponenti di un clero che agisce in modo sbagliato, anche se la vicenda di Gertrude si tinge di elementi tragici sconosciuti al più "comico" curato di campagna).
L'unica eccezione fra gli esponenti dell'alto clero sembra essere il cardinal Borromeo, il quale si comporta in modo impeccabile e senza venir mai meno ai suoi doveri pastorali, nonostante ricopra un'alta carica ecclesiastica e appartenga a una delle famiglie più nobili della Lombardia: egli è anzi il solo personaggio "potente" che non si macchia di gravi colpe dovute a malvagità, incuria o ignoranza, e nel ritratto che Manzoni traccia di lui nel cap. XXII vengono esaltati tutti i suoi meriti, benché lo scrittore non taccia di alcuni difetti che gli possono venire attribuiti (intentò processi per stregoneria e credette, o per lo meno non mostrò di non credere all'opera degli untori, come detto anche nel cap. XXXII). Il cardinale è tuttavia un individuo eccezionale e dalla fama riconosciuta di santo, che spicca nel suo secolo dominato da ignoranza e superstizione dimostrando una vocazione schietta e inflessibile, nonché una concezione assolutamente rigorosa dell'ufficio sacerdotale: non a caso Manzoni ricorda che si mostrò talvolta severo con quei preti "che scoprisse rei d’avarizia o di negligenza o d’altre tacce specialmente opposte allo spirito del loro nobile ministero", che è poi quanto Borromeo personaggio farà con don Abbondio rimproverandolo di non aver compiuto il suo dovere e aver così piegato il capo di fronte alle prepotenze di un nobile, venendo meno ai doveri che il suo essere pastore di anime gli imponeva. Il romanziere ricorda altresì il costante impegno del cardinale nel prendersi cura degli affamati durante la carestia del 1628 e poi degli appestati al tempo della terribile epidemia del 1630, opere che lo accostano alla carità e alla dedizione dei padri cappuccini e rappresentano l'altro volto, quello amorevole e votato al prossimo, delle gerarchie ecclesiastiche, troppo spesso conniventi con il potere politico per i motivi più diversi (il cardinale si oppone a Gertrude in quanto entrambi nobili ma con inclinazioni opposte al bene e al male, così come fra Cristoforo si oppone a don Abbondio con cui condivide l'origine borghese e l'appartenenza al clero popolare, benché il primo sia antagonista di don Rodrigo e il secondo ne diventi complice).
Neppure i cappuccini sono tuttavia esenti da macchia, dal momento che il padre provinciale subisce le pressioni politiche del conte zio e accetta di trasferire padre Cristoforo da Pescarenico, mostrandosi dunque sensibile agli argomenti di "onore" e opportunità addotti dall'importante funzionario di Stato: il padre appartiene all'alto clero e dunque parla lo stesso linguaggio del potere usato dal suo interlocutore, mostrando gli stessi difetti che caratterizzano i personaggi nobili del romanzo. Tale compiacenza degli alti prelati verso il potere dell'aristocrazia e della politica è proprio anche della badessa del monastero di Monza, fin troppo sollecita ad assecondare il principe padre di Gertrude nel suo disegno di far monacare la figlia, la quale è costretta a prendere il velo in assenza di una sincera vocazione e a trascorrere un'esistenza infelice che la porterà al peccato e al delitto (la "Signora" diventa lei pure esponente dell'alto clero in quanto appartenente a una nobile famiglia, esercitando un'influenza "politica" che, inizialmente, le servirà per offrire protezione ad Agnese e Lucia). La vicenda di Gertrude è anche esemplare dell'uso distorto della religione in nome di una malintesa concezione del decoro nobiliare, in cui sotto accusa vengono posti sia i membri dell'alto clero monastico sia gli esponenti dell'aristocrazia feudale, mentre il risultato è che la "Signora" verrà meno in modo abietto ai suoi doveri claustrali e si farà suo malgrado complice dell'innominato nel rapimento di Lucia, sia pure per motivi diversi da quelli che avevano indotto don Abbondio ad assecondare don Rodrigo (i due personaggi sono entrambi esponenti di un clero che agisce in modo sbagliato, anche se la vicenda di Gertrude si tinge di elementi tragici sconosciuti al più "comico" curato di campagna).
L'unica eccezione fra gli esponenti dell'alto clero sembra essere il cardinal Borromeo, il quale si comporta in modo impeccabile e senza venir mai meno ai suoi doveri pastorali, nonostante ricopra un'alta carica ecclesiastica e appartenga a una delle famiglie più nobili della Lombardia: egli è anzi il solo personaggio "potente" che non si macchia di gravi colpe dovute a malvagità, incuria o ignoranza, e nel ritratto che Manzoni traccia di lui nel cap. XXII vengono esaltati tutti i suoi meriti, benché lo scrittore non taccia di alcuni difetti che gli possono venire attribuiti (intentò processi per stregoneria e credette, o per lo meno non mostrò di non credere all'opera degli untori, come detto anche nel cap. XXXII). Il cardinale è tuttavia un individuo eccezionale e dalla fama riconosciuta di santo, che spicca nel suo secolo dominato da ignoranza e superstizione dimostrando una vocazione schietta e inflessibile, nonché una concezione assolutamente rigorosa dell'ufficio sacerdotale: non a caso Manzoni ricorda che si mostrò talvolta severo con quei preti "che scoprisse rei d’avarizia o di negligenza o d’altre tacce specialmente opposte allo spirito del loro nobile ministero", che è poi quanto Borromeo personaggio farà con don Abbondio rimproverandolo di non aver compiuto il suo dovere e aver così piegato il capo di fronte alle prepotenze di un nobile, venendo meno ai doveri che il suo essere pastore di anime gli imponeva. Il romanziere ricorda altresì il costante impegno del cardinale nel prendersi cura degli affamati durante la carestia del 1628 e poi degli appestati al tempo della terribile epidemia del 1630, opere che lo accostano alla carità e alla dedizione dei padri cappuccini e rappresentano l'altro volto, quello amorevole e votato al prossimo, delle gerarchie ecclesiastiche, troppo spesso conniventi con il potere politico per i motivi più diversi (il cardinale si oppone a Gertrude in quanto entrambi nobili ma con inclinazioni opposte al bene e al male, così come fra Cristoforo si oppone a don Abbondio con cui condivide l'origine borghese e l'appartenenza al clero popolare, benché il primo sia antagonista di don Rodrigo e il secondo ne diventi complice).