Giovanni Getto
"Il cardinale, un'immagine essenziale del romanzo"
Giovanni Getto
In questa pagina il grande critico del Novecento osserva come il cardinal Borromeo svolga un ruolo significativo nelle vicende del romanzo, che va al di là del semplice ritratto agiografico e manifesta alcune luminose qualità (l'umiltà, l'ispirazione evangelica, la bontà...) che fanno contrasto con i difetti propri del suo secolo, rispetto ai quali il personaggio risalta come un fulgido esempio per la sua eccezionalità. Anche per questo l'autore sottace le manchevolezze che lo contraddistinsero, in quanto a suo dire fanno parte dello sfondo storico e caratterizzano la sua figura come particolarmente realistica e concreta.
Giovanni Getto (1913-2002) è stato professore di Letteratura Italiana all'Università di Torino e nella sua attività di critico ha sempre operato nel solco della cultura cattolica e della ricerca spirituale. Ha prodotto studi soprattutto su Dante, Boiardo, Tasso, Carducci, Pascoli ed è stato inoltre socio nazionale dei Lincei.
Giovanni Getto (1913-2002) è stato professore di Letteratura Italiana all'Università di Torino e nella sua attività di critico ha sempre operato nel solco della cultura cattolica e della ricerca spirituale. Ha prodotto studi soprattutto su Dante, Boiardo, Tasso, Carducci, Pascoli ed è stato inoltre socio nazionale dei Lincei.
_ Ogni concessione ai richiami di una agiografia pittoresca vien meno in questo capitolo [XXII] dei Promessi sposi. La figura del cardinale è interpretata su linee severe, con sobrietà di colore, in pagine inconfondibili, che mantengono un loro tono, diverso da quello delle pagine in cui Federigo interviene come personaggio fra i personaggi del romanzo. Il volto rimane sempre identico, naturalmente: quel che cambia è la luce da cui è investito, il punto di vista dell’autore, l’economia narrativa, stilistica. In questo capitolo il cardinale Borromeo è un’immagine contemplata con autonomia di interesse, un’occasione (non avulsa dal romanzo ma necessariamente inserita in esso) per scrivere un pezzo di storia religiosa milanese, una pagina agiografica. Negli altri capitoli invece Federigo è visto in funzione dei vari personaggi, dall’innominato a Lucia a don Abbondio o dei diversi avvenimenti storici, dalla carestia alla peste [...].
Quasi a volersi inibire il consenso alle seduzioni figurative emananti dallo splendore della porpora, l’autore propone fin dall’inizio quel particolare sul vestire dimesso del cardinale: "... badava di non ismettere un vestito, prima che fosse logoro affatto". E il ritratto prosegue con gli accenni alla mensa frugale [...] e con lo scorcio di Federigo tra i fanciulli cenciosi di un paese alpestre [...]. Un accento grandioso, ma di una grandiosità severa, si fa sentire soltanto nelle due pagine che presentano Federigo quale fondatore della biblioteca ambrosiana [...]. La contrapposizione dell’ordinamento dell’ambrosiana a quello delle altre biblioteche richiama un motivo polemico nei confronti del Seicento, che corre in maniera più o meno scoperta in tutte queste pagine, e che ora viene affidato indirettamente al personaggio ora viene svolto direttamente dall’autore. Questa situazione negativa si presenta non solo per quel che si riferisce all’uso e al governo delle biblioteche, ma anche (e con accentuato intervento giudicante da parte di Federigo) per quel che riguarda gli uomini di cultura: "di nove dottori, otto ne prese tra i giovani alunni del seminario, e da questo si può argomentare che giudizio facesse degli studi consumati e delle riputazioni fatte di quel tempo: giudizio conforme a quello che par che n’abbia portato la posterità, col mettere gli uni e le altre in dimenticanza". E, con più personale assunzione di responsabilità polemica, l’autore conclude sulla biblioteca ambrosiana: "...e l’eseguì, in mezzo a quell’ignorantaggine, a quell’inerzia, a quell’antipatia generale per ogni applicazione studiosa". Così una antitesi fra il personaggio e il suo tempo è segnata anche a proposito delle abitudini di Federigo nel vestire, dove è fatto notare l’incontro del genio della semplicità e di quello d’una squisita pulizia: "due abitudini notabili infatti", osserva Manzoni, "in quell’età sudicia e sfarzosa". Allo stesso modo si apre ancora un’opposizione di sensibilità e di costume sul tema, tipicamente secentesco, delle monacazioni forzate, affiorante nell’esempio di liberalità, fatta di sapienza e di gentilezza, che vien riferito [...]; un esempio commentato come augurabile eccesso di una virtù sciolta dalle "opinioni dominanti" e indipendente dalla "tendenza generale". Se in tutto il romanzo è naturalmente implicita la "polemica del Seicento", in nessun punto come in questo essa si rende così dichiarata. La presenza del Borromeo si direbbe che provochi, per amore di contrasto, la violenta accentuazione delle tinte cupe del quadro storico, mentre, a sua volta, nei capitoli della fame e della peste, la fosca pittura del secolo sembrerà esigere uno sprazzo luminoso, alla cui funzione soddisferà appunto l’immagine del grande cardinale [...]. Eppure, nonostante questi riflessi agiografici, la figura del cardinale è sottoposta alla fine ad una limitazione. E questa si riferisce proprio a quella realtà degli studi e della cultura che, nel giudizio sull’opera e sulla sensibilità di Federigo fondatore della biblioteca ambrosiana, costituisce la sola eccezione registrata nel romanzo che sia in netto contrasto con la decadenza del secolo. Manzoni, dopo di avere ricordato la parte avuta dallo studio nell’attività del Borromeo ("ce n’ebbe tanta, che per un letterato di professione sarebbe bastato") e la fama goduta presso i contemporanei "d’uom dotto", aggiunge: "Non dobbiamo però dissimulare che tenne con ferma persuasione, e sostenne in pratica, con lunga costanza, opinioni, che al giorno d’oggi parrebbero a ognuno piuttosto strane che mal fondate; dico anche a coloro che avrebbero una gran voglia di trovarle giuste". Allo stesso modo, mentre a proposito della ipotetica domanda del lettore se di tanto ingegno e di tanto studio quest’uomo abbia lasciato qualche monumento", Manzoni risponde con un’enfasi un po’ sorniona ("Se n’ha lasciati! Circa cento son l’opere che rimangon di lui, tra grandi e piccole... "), alle successive domande dello stesso lettore sulla ragione dell’oblio in cui quelle opere sono cadute, si sottrae invece con reticente ironia: "La domanda è ragionevole senza dubbio, e la questione molto interessante; perché le ragioni di questo fenomeno si troverebbero con l’osservar molti fatti generali: e trovate, condurrebbero alla spiegazione di più altri fenomeni simili. Ma sarebbero molte e prolisse: e poi se non v’andassero a genio? se vi facessero arricciare il naso?". In tal maniera il ritratto del cardinale Federigo, disegnato inizialmente con netto distacco sullo sfondo negativo del Seicento, sfuma alla fine gradatamente e si perde un po’ nel grigiore di quel clima storico. Non solo per questi punti di contatto o di distacco rispetto al suo secolo, ma anche per la sua autonoma individualità, la figura del cardinale Federigo Borromeo collabora alla definizione del mondo umano su cui si apre il romanzo, ponendosi come una componente, e sia pure del tutto eccezionale, di esso. Il cardinale Federigo interviene nel romanzo non soltanto per portare a compimento, nella sua fase risolutiva, la conversione dell’innominato, ma anche per istituire una trama sottile di relazioni con Lucia e Agnese e i suoi incontri con don Abbondio hanno un insostituibile valore compositivo. E la sua presenza nei capitoli XXVIII, XXXI e XXXII contribuisce a rendere un più vario paesaggio delle grandi vicende della carestia e della peste. Il capitolo XXII costituisce dunque la premessa di una funzione figurativa che si estende per tutta una zona del romanzo. Federigo, anche se nella vicenda dei protagonisti non rappresenta come fra Cristoforo una presenza costante ma una semplice apparizione momentanea, entra tuttavia nel romanzo come una immagine essenziale, e proprio per questo il capitolo XXII spalanca una prospettiva non oziosa, ma necessaria, ampliando le dimensioni ideali del romanzo, il suo spazio ideale e il suo tempo ideale. D’altra parte, in rapporto alla conversione dell’innominato, la vasta pausa creata dalla biografia prolunga la durata dell’evoluzione spirituale, il senso del lento processo interiore su cui tanto ama insistere Manzoni, e reca ad essa un elemento nuovo, ponendo tra le forze che vi concorrono dall’esterno, accanto alla santità umile di Lucia, la santità eminente di Federigo, sommando all’esperienza della fede semplice, tutta innocenza e sofferenza, della povera contadina, l’esperienza della fede complessa, nutrita di dottrina teologica e profana, sostenuta da una vita esemplare di virtù personali e sociali, del grande cardinale.
Quasi a volersi inibire il consenso alle seduzioni figurative emananti dallo splendore della porpora, l’autore propone fin dall’inizio quel particolare sul vestire dimesso del cardinale: "... badava di non ismettere un vestito, prima che fosse logoro affatto". E il ritratto prosegue con gli accenni alla mensa frugale [...] e con lo scorcio di Federigo tra i fanciulli cenciosi di un paese alpestre [...]. Un accento grandioso, ma di una grandiosità severa, si fa sentire soltanto nelle due pagine che presentano Federigo quale fondatore della biblioteca ambrosiana [...]. La contrapposizione dell’ordinamento dell’ambrosiana a quello delle altre biblioteche richiama un motivo polemico nei confronti del Seicento, che corre in maniera più o meno scoperta in tutte queste pagine, e che ora viene affidato indirettamente al personaggio ora viene svolto direttamente dall’autore. Questa situazione negativa si presenta non solo per quel che si riferisce all’uso e al governo delle biblioteche, ma anche (e con accentuato intervento giudicante da parte di Federigo) per quel che riguarda gli uomini di cultura: "di nove dottori, otto ne prese tra i giovani alunni del seminario, e da questo si può argomentare che giudizio facesse degli studi consumati e delle riputazioni fatte di quel tempo: giudizio conforme a quello che par che n’abbia portato la posterità, col mettere gli uni e le altre in dimenticanza". E, con più personale assunzione di responsabilità polemica, l’autore conclude sulla biblioteca ambrosiana: "...e l’eseguì, in mezzo a quell’ignorantaggine, a quell’inerzia, a quell’antipatia generale per ogni applicazione studiosa". Così una antitesi fra il personaggio e il suo tempo è segnata anche a proposito delle abitudini di Federigo nel vestire, dove è fatto notare l’incontro del genio della semplicità e di quello d’una squisita pulizia: "due abitudini notabili infatti", osserva Manzoni, "in quell’età sudicia e sfarzosa". Allo stesso modo si apre ancora un’opposizione di sensibilità e di costume sul tema, tipicamente secentesco, delle monacazioni forzate, affiorante nell’esempio di liberalità, fatta di sapienza e di gentilezza, che vien riferito [...]; un esempio commentato come augurabile eccesso di una virtù sciolta dalle "opinioni dominanti" e indipendente dalla "tendenza generale". Se in tutto il romanzo è naturalmente implicita la "polemica del Seicento", in nessun punto come in questo essa si rende così dichiarata. La presenza del Borromeo si direbbe che provochi, per amore di contrasto, la violenta accentuazione delle tinte cupe del quadro storico, mentre, a sua volta, nei capitoli della fame e della peste, la fosca pittura del secolo sembrerà esigere uno sprazzo luminoso, alla cui funzione soddisferà appunto l’immagine del grande cardinale [...]. Eppure, nonostante questi riflessi agiografici, la figura del cardinale è sottoposta alla fine ad una limitazione. E questa si riferisce proprio a quella realtà degli studi e della cultura che, nel giudizio sull’opera e sulla sensibilità di Federigo fondatore della biblioteca ambrosiana, costituisce la sola eccezione registrata nel romanzo che sia in netto contrasto con la decadenza del secolo. Manzoni, dopo di avere ricordato la parte avuta dallo studio nell’attività del Borromeo ("ce n’ebbe tanta, che per un letterato di professione sarebbe bastato") e la fama goduta presso i contemporanei "d’uom dotto", aggiunge: "Non dobbiamo però dissimulare che tenne con ferma persuasione, e sostenne in pratica, con lunga costanza, opinioni, che al giorno d’oggi parrebbero a ognuno piuttosto strane che mal fondate; dico anche a coloro che avrebbero una gran voglia di trovarle giuste". Allo stesso modo, mentre a proposito della ipotetica domanda del lettore se di tanto ingegno e di tanto studio quest’uomo abbia lasciato qualche monumento", Manzoni risponde con un’enfasi un po’ sorniona ("Se n’ha lasciati! Circa cento son l’opere che rimangon di lui, tra grandi e piccole... "), alle successive domande dello stesso lettore sulla ragione dell’oblio in cui quelle opere sono cadute, si sottrae invece con reticente ironia: "La domanda è ragionevole senza dubbio, e la questione molto interessante; perché le ragioni di questo fenomeno si troverebbero con l’osservar molti fatti generali: e trovate, condurrebbero alla spiegazione di più altri fenomeni simili. Ma sarebbero molte e prolisse: e poi se non v’andassero a genio? se vi facessero arricciare il naso?". In tal maniera il ritratto del cardinale Federigo, disegnato inizialmente con netto distacco sullo sfondo negativo del Seicento, sfuma alla fine gradatamente e si perde un po’ nel grigiore di quel clima storico. Non solo per questi punti di contatto o di distacco rispetto al suo secolo, ma anche per la sua autonoma individualità, la figura del cardinale Federigo Borromeo collabora alla definizione del mondo umano su cui si apre il romanzo, ponendosi come una componente, e sia pure del tutto eccezionale, di esso. Il cardinale Federigo interviene nel romanzo non soltanto per portare a compimento, nella sua fase risolutiva, la conversione dell’innominato, ma anche per istituire una trama sottile di relazioni con Lucia e Agnese e i suoi incontri con don Abbondio hanno un insostituibile valore compositivo. E la sua presenza nei capitoli XXVIII, XXXI e XXXII contribuisce a rendere un più vario paesaggio delle grandi vicende della carestia e della peste. Il capitolo XXII costituisce dunque la premessa di una funzione figurativa che si estende per tutta una zona del romanzo. Federigo, anche se nella vicenda dei protagonisti non rappresenta come fra Cristoforo una presenza costante ma una semplice apparizione momentanea, entra tuttavia nel romanzo come una immagine essenziale, e proprio per questo il capitolo XXII spalanca una prospettiva non oziosa, ma necessaria, ampliando le dimensioni ideali del romanzo, il suo spazio ideale e il suo tempo ideale. D’altra parte, in rapporto alla conversione dell’innominato, la vasta pausa creata dalla biografia prolunga la durata dell’evoluzione spirituale, il senso del lento processo interiore su cui tanto ama insistere Manzoni, e reca ad essa un elemento nuovo, ponendo tra le forze che vi concorrono dall’esterno, accanto alla santità umile di Lucia, la santità eminente di Federigo, sommando all’esperienza della fede semplice, tutta innocenza e sofferenza, della povera contadina, l’esperienza della fede complessa, nutrita di dottrina teologica e profana, sostenuta da una vita esemplare di virtù personali e sociali, del grande cardinale.
_(dalle Letture manzoniane, Firenze 1964)