Adelchi
R. Rocco, Adelchi morente
È la seconda delle due tragedie scritte da Manzoni, successiva al Conte di Carmagnola (1820) e risalente al periodo 1820-1822: è ambientata nell'Italia settentrionale del 772-774 d.C. e narra le vicende che portarono alla discesa dei Franchi di Carlo Magno e alla sconfitta di Desiderio, ultimo re dei Longobardi, di cui Adelchi è il figlio. Rispetto al Carmagnola, qui l'autore deforma in parte la verità storica dei fatti, facendo sì che il protagonista Adelchi muoia combattendo contro i Franchi invasori (mentre nella realtà egli fuggì a Costantinopoli da dove tentò poi di rientrare in Italia), mentre trasforma la sorella Ermengarda, ripudiata da Carlo, in una sorta di eroina romantica vittima di una travolgente passione per il marito che la porterà alla morte. Anche questa seconda tragedia non rispetta le cosiddette unità aristoteliche (la vicenda si snoda nell'arco di circa due anni, spazia fra molti luoghi dell'Italia settentrionale...) e presenta due Cori, di cui il primo chiude l'Atto III e descrive la calata dei Franchi in Italia, mentre il secondo è all'interno dell'Atto IV e racconta la morte di Ermengarda. Il testo rivela il crescente interesse dell'autore per gli studi storici, in parallelo con la stesura del Fermo e Lucia iniziato nel 1821, ed è in un certo senso accompagnato dal saggio storico Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica in Italia (1822), in cui afferma che lo storico dovrebbe interessarsi alle masse popolari oltre che ai potenti e in cui respinge la valutazione positiva della dominazione dei Longobardi in Italia, elogiando per converso il ruolo attivo del Papato nel prendersi cura delle popolazioni italiche sottomesse prima alla tirannia dei Longobardi e poi al dominio franco (è questo il cosiddetto "dramma di tre popoli", oggetto del primo Coro della tragedia e alla luce del quale Carlo è mostrato come un conquistatore cinico e calcolatore, sempre pronto ad obbedire alla ragion di Stato e all'opportunismo politico).
La trama
Il re dei Franchi Carlo Magno ripudia Ermengarda, figlia del re longobardo Desiderio e sorella di Adelchi, in quanto obbligato da ragioni di opportunità politica alla vigilia della guerra che intende portare contro suo padre a difesa del Papato, minacciato dall'espansionismo dei Longobardi. La giovane, disperata per l'abbandono del marito che lei ama follemente, giunge alla corte di Pavia dove Desiderio intende a sua volta muovere guerra a Carlo per lavare l'affronto arrecato alla sua famiglia. Adelchi è contrario e vorrebbe la pace, ma non può opporsi alla volontà del padre.
Inizia la guerra e le truppe di re Carlo sono bloccate alle Chiuse della Val di Susa, una strettoia difesa dalle soldatesche comandate da Adelchi. Al campo dei Franchi giunge il diacono Martino, inviato dal vescovo di Ravenna, il quale indica a Carlo una via per la quale è arrivato e che non è difesa dalle truppe nemiche. I Franchi possono così aggirare l'ostacolo e dilagare nella Pianura Padana.
Adelchi confessa all'amico Anfrido la propria profonda frustrazione per la situazione presente, in cui la sua aspirazione alla grandezza e alla gloria si infrange contro la concreta realtà storica a lui avversa. Intanto i Franchi sconfiggono i Longobardi e sono padroni del campo, come descritto nel I Coro.
Frattanto Ermengarda, rifugiatasi nel convento di Brescia in cui vive la sorella Ansberga, è raggiunta dalla notizia che l'amato Carlo si è risposato con Ildegarde, una donna del suo popolo: la giovane cade nel delirio e pronuncia alcune parole in cui manifesta la sua disperazione e il suo amore inconfessabile per l'ormai ex-marito. Dopo un breve ritorno alla lucidità, muore (II Coro).
In seguito la capitale del regno, Pavia, cade in mano dei Franchi e re Desiderio è prigioniero di Carlo: Adelchi tenta un'ultima, disperata resistenza a Verona, ma è ferito in combattimento e viene condotto morente al cospetto del padre e dello stesso Carlo. In un ultimo accorato discorso, Adelchi dichiara che Desiderio è fortunato a non esser più re, in quanto non sarà più costretto a commettere ingiustizie come normalmente devono fare i sovrani e i potenti; in seguito prega Carlo di risparmiare al padre una prigionia troppo umiliante, cosa il re vittorioso concede con apparente signorilità (in realtà, poco prima aveva rifiutato a Desiderio di risparmiare la vita ad Adelchi, che credeva ancora una minaccia). Adelchi muore dopo aver perdonato Carlo e confortato dalla fede religiosa.
I personaggi
La tragedia presenta migliori risultati artistici rispetto al Carmagnola, per la maggiore complessità della vicenda e per il grado di introspezione psicologica dei personaggi: tra questi spicca naturalmente il protagonista Adelchi, che da un lato appare come un personaggio anti-tragico (aspira alla pace ed è contrario alla guerra, ha un carattere remissivo e sottomesso alla volontà del padre), ma dall'altro presenta aspetti tipici dell'eroe romantico, specie per il coraggio che dimostra combattendo lealmente sino alla fine e per il contrasto che esprime fra le proprie aspirazioni alla gradezza e la misera, concreta situazione storica in cui si trova a vivere (ciò emerge specialmente nel dialogo con l'amico Anfrido, nella scena prima dell'Atto III). Desiderio è in un certo senso il suo opposto, in quanto è animato dal desiderio di rivalsa verso Carlo e da un malinteso senso dell'onore familiare, per cui appare assai più turbato dall'affronto arrecato al suo casato dal re franco che non dalle sofferenze patite dalla figlia Ermengarda, che egli non sembra neppure comprendere. Analoga sordità dimostra alla fine di fronte all'ultimo discorso di Adelchi, che lo invita a rallegrarsi del fatto di non esser più re e, dunque, non più costretto a calpestare e opprimere i suoi sudditi, mentre Desiderio chiude la tragedia disperato per la morte del figlio e, soprattutto, per essere rimasto a piangerlo "in servitude" (cioè privato del regno e del potere).
Ermengarda presenta molte analogie con Adelchi, in quanto anche lei è una sorta di eroina romantica, piegata da un destino avverso e dal suo amore disperato per il marito Carlo: questa passione inconfessabile, benché onesta e santificata dal matrimonio, la porta al delirio e infine alla morte ("Amor tremendo è il mio" dirà nella scena prima dell'Atto IV, a lei dedicato), anche se questo destino infausto è per lei ragione di salvezza in quanto, come afferma l'autore nel II Coro che descrive la sua morte, la "provida sventura" l'ha posta fra gli oppressi e non fra gli oppressori, fra cui rientra ovviamente il marito Carlo. Quest'ultimo è la figura forse più negativa dell'opera, mostrato come un cinico conquistatore che agisce per calcolo e ambizione personale, fingendo di muovere guerra col pretesto di proteggere il Papato: Manzoni interpreta il suo personaggio in chiave storica smontando l'interpretazione di certo pensiero cristiano che lo elogiava come protettore della Chiesa dal "dente longobardo" (cfr. ad es. Dante, nel Canto VI del Paradiso) e descrivendolo come un sovrano astuto e opportunista che è mosso dalla ragion di Stato e dalla logica spietata del potere. Per questo non esita a ripudiare la moglie, che pure è innamorata di lui, e in seguito rifiuta di risparmiare Adelchi che ritiene ancora una potenziale minaccia, salvo poi mostrarsi nobile e generoso quando gli viene portato di fronte morente, sino a promettergli che non riserverà a Desiderio una dura prigionia (tale promessa è fin troppo facile e non costituisce un'insidia per il consolidamento del suo potere). Alcuni critici hanno visto in Carlo un riferimento alla figura di Napoleone, anche se non ci sono elementi nel testo che consentano di avallare senza dubbi questa interpretazione.
I due Cori
Nel primo, posto alla fine dell'Atto III, è descritta la calata vittoriosa dei Franchi e la fuga disordinata dei Longobardi, cui assistono increduli e impotenti i latini che abitano le città che un tempo furono lo splendore dell'Impero romano e ora sono in decadenza; essi si illudono che i nuovi arrivati cacceranno i Longobardi per concedere loro la libertà, ma ciò è assurdo in quanto i nuovi padroni si mescoleranno agli antichi tiranni ed entrambi eserciteranno il loro dominio su quel "volgo disperso" che è formato dagli abitanti dell'Italia (è evidente il riferimento alle vicende risorgimentali degli anni 1820-21, con un'esortazione ai liberali italiani a unire le forze contro il dominio austriaco senza nutrire speranze nell'intervento delle armi francesi o di altri alleati stranieri). Il testo, formato da sfrofe di sei versi senari doppi, è interessante anche per la descrizione delle armate franche che lasciano il paese natale per marciare verso l'Italia, con un'intonazione epica che ricorda alcune ballate romantiche della poesia italiana ed europea e sembra anticipare la grandiosa rassegna delle armate germaniche che nel cap. XXX dei Promessi sposi scendono in Lombardia, seminando morte e saccheggi e diffondendo il contagio della peste.
Nel secondo Coro, che si trova dopo la scena prima dell'Atto IV, è descritta la morte di Ermengarda, finalmente rasserenata in quanto si è lasciata alle spalle le sue ansie terrene (il dolore per l'abbandono di Carlo) e può salire in Cielo come anima eletta, purificata dal suo essere stata posta dalla "provida sventura" tra gli oppressi: il testo ripercorre la vita felice della giovane alla corte del re dei Franchi e descrive la pena continua in cui Ermengarda si strugge al pensiero della felicità perduta, invano consolata dalle parole amiche delle monache. Alla fine la morte la riconcilia con Dio e con la fede nella Provvidenza, mentre l'autore sottolinea che la sua "rea progenie" (il popolo longobardo) ha esercitato violenze e sorprusi ai danni dei popoli sottomessi, anche se la sofferenza da lei patita la rende innocente e le consente di morire in grazia di Dio e certa di una ricompensa nell'Aldilà. Il testo è formato da strofe di sei versi settenari, di cui il primo, il terzo e il quinto sono sdruccioli, il secondo e il quarto piani e in rima fra loro, il sesto tronco e in rima con gli ultimi versi di altre strofe (la forma metrica è analoga a quella del Cinque maggio).
La "morale dell'inazione"
È la definizione data alle estreme parole di Adelchi morente al padre Desiderio (scena ottava dell'Atto V), quando lo invita a godere del fatto di non essere più re e di non essere più obbligato a commettere soprusi e violenze per mantenere il proprio potere: la visione di Manzoni è estremamente pessimistica e lascia intendere che il male è intimamente connesso all'esercizio del potere, per cui "loco a gentile, / ad innocente opra non v'è: non resta / che far torto o patirlo", che è lo stesso principio per cui Ermengarda è detta fortunata in quanto la "provida sventura" l'ha collocata "in fra gli oppressi" (II coro). In questa fase Manzoni sembra negare all'attività politica e di governo alcuna possibilità di compiere il bene pubblico e afferma chiaramente che la morale cristiana è inconciliabile con la ragion di Stato e la logica spietata del potere (su questa visione pesa certamente l'influenza del giansenismo e la convinzione che la divisione tra eletti e reprobi sia in qualche modo prederminata dalla volontà divina), ed anche se il pessimismo manzoniano a riguardo si attenuerà negli anni seguenti, è innegabile che una simile descrizione del mondo del potere sia presente anche nel romanzo. Ciò che soprattutto colpisce Manzoni è la scarsa considerazione che re, sovrani, uomini politici mostrano nei confronti delle masse popolari di poveri e diseredati, che non solo vengono spesso tiranneggiati e sfruttati in modo bieco (ciò vale soprattutto per le epoche più antiche, come quella della tragedia), ma sono anche abbandonati a se stessi e coinvolti in guerre inutili e dispendiose, che provocano migliaia di vittime innocenti e sconvolgono le economie di interi paesi (e ciò vale ancora pienamente per le epoche più vicine, anche per le vicende risorgimentali del XIX secolo). Ciò spiega perché l'autore si interessi alla storia e si occupi soprattutto degli eventi che riguardano i poveri e le persone umili, ovvero le "gente meccaniche e di piccol affare" che saranno poi protagonisti del romanzo (in polemica con la storiografia tradizionale che invece preferiva descrivere le gesta di "Prencipi e Potentati, e qualificati Personaggj", come detto nell'Introduzione ai Promessi sposi), ma anche perché non rinunci a mostrare le azioni e i maneggi dei protagonisti dell'agire politico, sollevando il sipario sul mondo segreto del potere e sulla logica spietata cui esso obbedisce per conservare se stesso e i suoi privilegi. Questa visione pessimistica, che si attenuerà solo in parte all'altezza del romanzo, tornerà a incupirsi negli anni seguenti quando lo scrittore, abbandonata la narrativa e le opere che mescolano storia e invenzione, tornerà a occuparsi esclusivamente di storia e dedicherà tutta la sua attenzione alle vittime dell'azione dei potenti, come gli imputati del processo agli untori che nella Storia della colonna infame vengono schiacciati da una infernale macchina giudiziaria senza possibilità di salvezza e, soprattutto, senza quel lieto fine che l'invenzione romanzesca poteva riservare ai protagonisti della vicenda narrata (il punto di vista espresso da Adelchi nel finale della tragedia, dunque, si rivela in ultima analisi coincidente con quello di Manzoni negli ultimi anni della sua attività letteraria, quando l'interesse storiografico diverrà in lui preminente).
La trama
Il re dei Franchi Carlo Magno ripudia Ermengarda, figlia del re longobardo Desiderio e sorella di Adelchi, in quanto obbligato da ragioni di opportunità politica alla vigilia della guerra che intende portare contro suo padre a difesa del Papato, minacciato dall'espansionismo dei Longobardi. La giovane, disperata per l'abbandono del marito che lei ama follemente, giunge alla corte di Pavia dove Desiderio intende a sua volta muovere guerra a Carlo per lavare l'affronto arrecato alla sua famiglia. Adelchi è contrario e vorrebbe la pace, ma non può opporsi alla volontà del padre.
Inizia la guerra e le truppe di re Carlo sono bloccate alle Chiuse della Val di Susa, una strettoia difesa dalle soldatesche comandate da Adelchi. Al campo dei Franchi giunge il diacono Martino, inviato dal vescovo di Ravenna, il quale indica a Carlo una via per la quale è arrivato e che non è difesa dalle truppe nemiche. I Franchi possono così aggirare l'ostacolo e dilagare nella Pianura Padana.
Adelchi confessa all'amico Anfrido la propria profonda frustrazione per la situazione presente, in cui la sua aspirazione alla grandezza e alla gloria si infrange contro la concreta realtà storica a lui avversa. Intanto i Franchi sconfiggono i Longobardi e sono padroni del campo, come descritto nel I Coro.
Frattanto Ermengarda, rifugiatasi nel convento di Brescia in cui vive la sorella Ansberga, è raggiunta dalla notizia che l'amato Carlo si è risposato con Ildegarde, una donna del suo popolo: la giovane cade nel delirio e pronuncia alcune parole in cui manifesta la sua disperazione e il suo amore inconfessabile per l'ormai ex-marito. Dopo un breve ritorno alla lucidità, muore (II Coro).
In seguito la capitale del regno, Pavia, cade in mano dei Franchi e re Desiderio è prigioniero di Carlo: Adelchi tenta un'ultima, disperata resistenza a Verona, ma è ferito in combattimento e viene condotto morente al cospetto del padre e dello stesso Carlo. In un ultimo accorato discorso, Adelchi dichiara che Desiderio è fortunato a non esser più re, in quanto non sarà più costretto a commettere ingiustizie come normalmente devono fare i sovrani e i potenti; in seguito prega Carlo di risparmiare al padre una prigionia troppo umiliante, cosa il re vittorioso concede con apparente signorilità (in realtà, poco prima aveva rifiutato a Desiderio di risparmiare la vita ad Adelchi, che credeva ancora una minaccia). Adelchi muore dopo aver perdonato Carlo e confortato dalla fede religiosa.
I personaggi
La tragedia presenta migliori risultati artistici rispetto al Carmagnola, per la maggiore complessità della vicenda e per il grado di introspezione psicologica dei personaggi: tra questi spicca naturalmente il protagonista Adelchi, che da un lato appare come un personaggio anti-tragico (aspira alla pace ed è contrario alla guerra, ha un carattere remissivo e sottomesso alla volontà del padre), ma dall'altro presenta aspetti tipici dell'eroe romantico, specie per il coraggio che dimostra combattendo lealmente sino alla fine e per il contrasto che esprime fra le proprie aspirazioni alla gradezza e la misera, concreta situazione storica in cui si trova a vivere (ciò emerge specialmente nel dialogo con l'amico Anfrido, nella scena prima dell'Atto III). Desiderio è in un certo senso il suo opposto, in quanto è animato dal desiderio di rivalsa verso Carlo e da un malinteso senso dell'onore familiare, per cui appare assai più turbato dall'affronto arrecato al suo casato dal re franco che non dalle sofferenze patite dalla figlia Ermengarda, che egli non sembra neppure comprendere. Analoga sordità dimostra alla fine di fronte all'ultimo discorso di Adelchi, che lo invita a rallegrarsi del fatto di non esser più re e, dunque, non più costretto a calpestare e opprimere i suoi sudditi, mentre Desiderio chiude la tragedia disperato per la morte del figlio e, soprattutto, per essere rimasto a piangerlo "in servitude" (cioè privato del regno e del potere).
Ermengarda presenta molte analogie con Adelchi, in quanto anche lei è una sorta di eroina romantica, piegata da un destino avverso e dal suo amore disperato per il marito Carlo: questa passione inconfessabile, benché onesta e santificata dal matrimonio, la porta al delirio e infine alla morte ("Amor tremendo è il mio" dirà nella scena prima dell'Atto IV, a lei dedicato), anche se questo destino infausto è per lei ragione di salvezza in quanto, come afferma l'autore nel II Coro che descrive la sua morte, la "provida sventura" l'ha posta fra gli oppressi e non fra gli oppressori, fra cui rientra ovviamente il marito Carlo. Quest'ultimo è la figura forse più negativa dell'opera, mostrato come un cinico conquistatore che agisce per calcolo e ambizione personale, fingendo di muovere guerra col pretesto di proteggere il Papato: Manzoni interpreta il suo personaggio in chiave storica smontando l'interpretazione di certo pensiero cristiano che lo elogiava come protettore della Chiesa dal "dente longobardo" (cfr. ad es. Dante, nel Canto VI del Paradiso) e descrivendolo come un sovrano astuto e opportunista che è mosso dalla ragion di Stato e dalla logica spietata del potere. Per questo non esita a ripudiare la moglie, che pure è innamorata di lui, e in seguito rifiuta di risparmiare Adelchi che ritiene ancora una potenziale minaccia, salvo poi mostrarsi nobile e generoso quando gli viene portato di fronte morente, sino a promettergli che non riserverà a Desiderio una dura prigionia (tale promessa è fin troppo facile e non costituisce un'insidia per il consolidamento del suo potere). Alcuni critici hanno visto in Carlo un riferimento alla figura di Napoleone, anche se non ci sono elementi nel testo che consentano di avallare senza dubbi questa interpretazione.
I due Cori
Nel primo, posto alla fine dell'Atto III, è descritta la calata vittoriosa dei Franchi e la fuga disordinata dei Longobardi, cui assistono increduli e impotenti i latini che abitano le città che un tempo furono lo splendore dell'Impero romano e ora sono in decadenza; essi si illudono che i nuovi arrivati cacceranno i Longobardi per concedere loro la libertà, ma ciò è assurdo in quanto i nuovi padroni si mescoleranno agli antichi tiranni ed entrambi eserciteranno il loro dominio su quel "volgo disperso" che è formato dagli abitanti dell'Italia (è evidente il riferimento alle vicende risorgimentali degli anni 1820-21, con un'esortazione ai liberali italiani a unire le forze contro il dominio austriaco senza nutrire speranze nell'intervento delle armi francesi o di altri alleati stranieri). Il testo, formato da sfrofe di sei versi senari doppi, è interessante anche per la descrizione delle armate franche che lasciano il paese natale per marciare verso l'Italia, con un'intonazione epica che ricorda alcune ballate romantiche della poesia italiana ed europea e sembra anticipare la grandiosa rassegna delle armate germaniche che nel cap. XXX dei Promessi sposi scendono in Lombardia, seminando morte e saccheggi e diffondendo il contagio della peste.
Nel secondo Coro, che si trova dopo la scena prima dell'Atto IV, è descritta la morte di Ermengarda, finalmente rasserenata in quanto si è lasciata alle spalle le sue ansie terrene (il dolore per l'abbandono di Carlo) e può salire in Cielo come anima eletta, purificata dal suo essere stata posta dalla "provida sventura" tra gli oppressi: il testo ripercorre la vita felice della giovane alla corte del re dei Franchi e descrive la pena continua in cui Ermengarda si strugge al pensiero della felicità perduta, invano consolata dalle parole amiche delle monache. Alla fine la morte la riconcilia con Dio e con la fede nella Provvidenza, mentre l'autore sottolinea che la sua "rea progenie" (il popolo longobardo) ha esercitato violenze e sorprusi ai danni dei popoli sottomessi, anche se la sofferenza da lei patita la rende innocente e le consente di morire in grazia di Dio e certa di una ricompensa nell'Aldilà. Il testo è formato da strofe di sei versi settenari, di cui il primo, il terzo e il quinto sono sdruccioli, il secondo e il quarto piani e in rima fra loro, il sesto tronco e in rima con gli ultimi versi di altre strofe (la forma metrica è analoga a quella del Cinque maggio).
La "morale dell'inazione"
È la definizione data alle estreme parole di Adelchi morente al padre Desiderio (scena ottava dell'Atto V), quando lo invita a godere del fatto di non essere più re e di non essere più obbligato a commettere soprusi e violenze per mantenere il proprio potere: la visione di Manzoni è estremamente pessimistica e lascia intendere che il male è intimamente connesso all'esercizio del potere, per cui "loco a gentile, / ad innocente opra non v'è: non resta / che far torto o patirlo", che è lo stesso principio per cui Ermengarda è detta fortunata in quanto la "provida sventura" l'ha collocata "in fra gli oppressi" (II coro). In questa fase Manzoni sembra negare all'attività politica e di governo alcuna possibilità di compiere il bene pubblico e afferma chiaramente che la morale cristiana è inconciliabile con la ragion di Stato e la logica spietata del potere (su questa visione pesa certamente l'influenza del giansenismo e la convinzione che la divisione tra eletti e reprobi sia in qualche modo prederminata dalla volontà divina), ed anche se il pessimismo manzoniano a riguardo si attenuerà negli anni seguenti, è innegabile che una simile descrizione del mondo del potere sia presente anche nel romanzo. Ciò che soprattutto colpisce Manzoni è la scarsa considerazione che re, sovrani, uomini politici mostrano nei confronti delle masse popolari di poveri e diseredati, che non solo vengono spesso tiranneggiati e sfruttati in modo bieco (ciò vale soprattutto per le epoche più antiche, come quella della tragedia), ma sono anche abbandonati a se stessi e coinvolti in guerre inutili e dispendiose, che provocano migliaia di vittime innocenti e sconvolgono le economie di interi paesi (e ciò vale ancora pienamente per le epoche più vicine, anche per le vicende risorgimentali del XIX secolo). Ciò spiega perché l'autore si interessi alla storia e si occupi soprattutto degli eventi che riguardano i poveri e le persone umili, ovvero le "gente meccaniche e di piccol affare" che saranno poi protagonisti del romanzo (in polemica con la storiografia tradizionale che invece preferiva descrivere le gesta di "Prencipi e Potentati, e qualificati Personaggj", come detto nell'Introduzione ai Promessi sposi), ma anche perché non rinunci a mostrare le azioni e i maneggi dei protagonisti dell'agire politico, sollevando il sipario sul mondo segreto del potere e sulla logica spietata cui esso obbedisce per conservare se stesso e i suoi privilegi. Questa visione pessimistica, che si attenuerà solo in parte all'altezza del romanzo, tornerà a incupirsi negli anni seguenti quando lo scrittore, abbandonata la narrativa e le opere che mescolano storia e invenzione, tornerà a occuparsi esclusivamente di storia e dedicherà tutta la sua attenzione alle vittime dell'azione dei potenti, come gli imputati del processo agli untori che nella Storia della colonna infame vengono schiacciati da una infernale macchina giudiziaria senza possibilità di salvezza e, soprattutto, senza quel lieto fine che l'invenzione romanzesca poteva riservare ai protagonisti della vicenda narrata (il punto di vista espresso da Adelchi nel finale della tragedia, dunque, si rivela in ultima analisi coincidente con quello di Manzoni negli ultimi anni della sua attività letteraria, quando l'interesse storiografico diverrà in lui preminente).