Ezio Raimondi
"Renzo eroe cercatore"
Ezio Raimondi
In queste pagine lo studioso sottolinea la somiglianza tra il personaggio di Renzo e la tipologia dell'eroe "cercatore", ovvero il giovane perseguitato che viaggia in cerca di giustizia e che trova analogie in tanti romanzi di genere "picaresco" della letteratura di XVIII-XIX secolo (incluso Tom Jones, protagonista dell'omonimo romanzo di Henry Fielding del 1749). Nelle avventure milanesi di Renzo emerge soprattutto la sua estraneità di contadino ai tumultuosi avvenimenti della città, il che permette al Manzoni di correggere e puntualizzare la sua visione della rivolta, ingenua proprio perché l'eroe ha in sé una purezza e un'ingenuità sconosciute alla dimensione urbana della storia.
Ezio Raimondi (1924-2014) è stato un fine saggista e interprete di molti autori della nostra letteratura, da Dante, Machiavelli, Tasso, sino agli autori del Novecento. Il titolo del suo saggio più famoso sui "Promessi sposi" ("Il romanzo senza idillio") ha fatto scuola e ha dato luogo a una definizione comunemente accolta dai critici dell'opera manzoniana.
Ezio Raimondi (1924-2014) è stato un fine saggista e interprete di molti autori della nostra letteratura, da Dante, Machiavelli, Tasso, sino agli autori del Novecento. Il titolo del suo saggio più famoso sui "Promessi sposi" ("Il romanzo senza idillio") ha fatto scuola e ha dato luogo a una definizione comunemente accolta dai critici dell'opera manzoniana.
__Il personaggio di Renzo, nei Promessi sposi, fa del romanzo una specie di Odissea, non solo in quanto egli è il "primo uomo" dell’azione con le sue avventure di "pellegrino", di "fuggitivo" e di "viaggiatore", ma anche perché le notizie che lo riguardano, come si leggerà nel capitolo XXXVII, sono fatte risalire ai suoi colloqui, alle sue confessioni con l’Anonimo: quasi che all’origine del preteso racconto secentesco stia almeno per una grossa parte, il suo piacere di popolano che rievoca, di reduce che racconta la propria storia dopo averla persino immaginata in anticipo, mentre è ancora in corso […]. Legate fra loro da un destino comune e da un interno contrappunto di ricordi, di risonanze affettive, le due vicende di Renzo e di Lucia, dal momento in cui si disgiungono procedono a linee alterne e determinano il doppio asse lungo il quale il racconto si dilata per divenire [...] un capitolo di storia universale. La loro funzione di raccordo, però, si attua in due direzioni differenti, poiché sull’asse semico di Lucia si incontrano Gertrude, l’innominato, il cardinal Federigo, e magari donna Prassede o don Ferrante; mentre su quello di Renzo, fatta eccezione per il "vecchio" Ferrer, si dispongono gli uomini della strada e della piazza: osti, avvocati, vagabondi, mercanti, poliziotti, compagnoni, artigiani, monatti, contadini in miseria. Come si vede, tanto l’uno quanto l’altro portano a un’immagine stratificata ed esemplare della società lombarda. Ma solo Renzo si trova a compiere un’autentica esperienza pubblica, viene a contatto coi meccanismi di un sistema sociale, ne sperimenta gli assurdi al livello più basso e si sforza, come può, di capirne qualcosa. Egli è l’antieroe della tradizione picaresca, un "pover’uomo" gettato in un mondo imprevisto di insidie e costretto, nel suo viaggio fra il contado e Milano, a una sorta di paradossale Bildungsroman [romanzo di formazione] dove, sovente a sua insaputa, sembra quasi rivelarsi il mistero dell’esistenza. E tocca a lui in fondo, per adoperare di nuovo i paradigmi di Propp [il linguista russo autore del saggio La morfologia della fiaba], la parte di protagonista vittima e cercatore nei confronti di quella realtà complessa, ma insieme così terribilmente semplice, che è la giustizia [...].
Perché anche Renzo prenda a riflettere a sua volta su quanto gli è successo, occorre aspettare che egli entri a Milano e che i nuovi eventi di cui è spettatore o compartecipe lo portino ripetutamente a un confronto, a un dialogo con i propri ricordi, che poi è forse anche, sul piano dell’arte, una delle grandi scoperte manzoniane. Comincia ora la sua avventura pubblica, il suo viaggio di contadino déraciné tra i mostri di una città in disordine, nel labirinto di una folla che lo prende come in un "vortice". Insieme con la curiosità che gli viene dalla certezza di trovarsi in un "giorno di conquista", ciò che lo spinge avanti, senza sapere bene di che cosa vada in cerca, è uno sdegno segreto, quasi una protesta, si direbbe, contro la morale di don Abbondio: e a poco a poco si trasforma in speranza di giustizia per sé, per gli altri. In mezzo al tumulto i discorsi più generosi, in fondo, sono i suoi.
[…] Eppure il buon senso, la saggezza contadina di Renzo, mentre serve al narratore per ottenere straordinari effetti di straniamento dietro le sue spalle, non salva il personaggio dalle insidie del sistema, che lo afferra subito nelle sue maglie, gli impone ancora le proprie regole e le proprie parti, secondo la logica machiavellica dell’ordine pubblico. Renzo sperimenta così su se stesso il destino che tocca sempre alla giustizia quando ciascuno vuole appropriarsene: e nasce in tal modo, intorno alla sua fuga non meno che al termine di giustizia, una sorta di prospettivismo linguistico e di triste mascherata, nello stesso stile della scena di Azzecca-garbugli, ma con complicazioni più strane e beffarde sino all’avventura con lo "sconosciuto", l’agente provocatore della polizia come l’avrebbe chiamato il Fauriel, che discorre del giusto per ingannare un poveretto ancora inesperto degli strumenti del potere […]. Se a Ulisse accade di ascoltare la propria storia cantata da un aedo, il viaggiatore dei Promessi sposi invece trova solo un mercante, in mezzo a un gruppo di curiosi, che racconta la sua avventura milanese deformandola da cima a fondo con l’enfasi di una prudenza che è ancora quella, più che mai trionfante ed economica, di don Abbondio[...]. A questo punto, concluso il primo ciclo della sua odissea urbana, Renzo esce dallo spazio narrativo, sebbene poi, di fatto, la sua immagine non scompaia del tutto, chiamata in causa più volte dai dialoghi degli altri personaggi e deformata come sembra volere il suo destino di esule [...]. Tuttavia si tratta sempre di un filo indiretto, quasi di un corso sotterraneo, donde il personaggio riemerge soltanto, raccogliendo intorno a sé la trama primaria del racconto, allorquando la peste gli offre finalmente l’occasione di rimettersi in cammino, immunizzato com’è dal contagio, alla ricerca di Agnese o della propria casa. Il ruolo di Renzo coincide allora con quello di un "eroe cercatore" in un universo dominato dalla morte, insidiato dalla corruzione, dalla grande paura del disordine metafisico: e il suo viaggio assume nel contempo il carattere di una prova, di una iniziazione al livello di un’umanità spoglia, quasi elementare.
Perché anche Renzo prenda a riflettere a sua volta su quanto gli è successo, occorre aspettare che egli entri a Milano e che i nuovi eventi di cui è spettatore o compartecipe lo portino ripetutamente a un confronto, a un dialogo con i propri ricordi, che poi è forse anche, sul piano dell’arte, una delle grandi scoperte manzoniane. Comincia ora la sua avventura pubblica, il suo viaggio di contadino déraciné tra i mostri di una città in disordine, nel labirinto di una folla che lo prende come in un "vortice". Insieme con la curiosità che gli viene dalla certezza di trovarsi in un "giorno di conquista", ciò che lo spinge avanti, senza sapere bene di che cosa vada in cerca, è uno sdegno segreto, quasi una protesta, si direbbe, contro la morale di don Abbondio: e a poco a poco si trasforma in speranza di giustizia per sé, per gli altri. In mezzo al tumulto i discorsi più generosi, in fondo, sono i suoi.
[…] Eppure il buon senso, la saggezza contadina di Renzo, mentre serve al narratore per ottenere straordinari effetti di straniamento dietro le sue spalle, non salva il personaggio dalle insidie del sistema, che lo afferra subito nelle sue maglie, gli impone ancora le proprie regole e le proprie parti, secondo la logica machiavellica dell’ordine pubblico. Renzo sperimenta così su se stesso il destino che tocca sempre alla giustizia quando ciascuno vuole appropriarsene: e nasce in tal modo, intorno alla sua fuga non meno che al termine di giustizia, una sorta di prospettivismo linguistico e di triste mascherata, nello stesso stile della scena di Azzecca-garbugli, ma con complicazioni più strane e beffarde sino all’avventura con lo "sconosciuto", l’agente provocatore della polizia come l’avrebbe chiamato il Fauriel, che discorre del giusto per ingannare un poveretto ancora inesperto degli strumenti del potere […]. Se a Ulisse accade di ascoltare la propria storia cantata da un aedo, il viaggiatore dei Promessi sposi invece trova solo un mercante, in mezzo a un gruppo di curiosi, che racconta la sua avventura milanese deformandola da cima a fondo con l’enfasi di una prudenza che è ancora quella, più che mai trionfante ed economica, di don Abbondio[...]. A questo punto, concluso il primo ciclo della sua odissea urbana, Renzo esce dallo spazio narrativo, sebbene poi, di fatto, la sua immagine non scompaia del tutto, chiamata in causa più volte dai dialoghi degli altri personaggi e deformata come sembra volere il suo destino di esule [...]. Tuttavia si tratta sempre di un filo indiretto, quasi di un corso sotterraneo, donde il personaggio riemerge soltanto, raccogliendo intorno a sé la trama primaria del racconto, allorquando la peste gli offre finalmente l’occasione di rimettersi in cammino, immunizzato com’è dal contagio, alla ricerca di Agnese o della propria casa. Il ruolo di Renzo coincide allora con quello di un "eroe cercatore" in un universo dominato dalla morte, insidiato dalla corruzione, dalla grande paura del disordine metafisico: e il suo viaggio assume nel contempo il carattere di una prova, di una iniziazione al livello di un’umanità spoglia, quasi elementare.
_(da Il romanzo senza idillio, Einaudi, Torino 1975)