L'innominato

F. Hayez, L'innominato
È il potente bandito cui si rivolge don Rodrigo perché faccia rapire Lucia dal convento di Monza in cui è rifugiata, cosa che l'uomo ottiene grazie all'aiuto di Egidio, suo complice e amante della monaca Gertrude: in seguito a una crisi di coscienza e all'incontro decisivo col cardinal Borromeo giunge a un clamoroso pentimento, decidendo così di liberare la ragazza prigioniera nel suo castello e di mandare a monte i piani del signorotto, che dovrà successivamente lasciare il paese e andare a Milano. L'autore non fa mai il suo nome e infatti lo indica sempre col termine "innominato", dichiarando di non aver trovato documenti dell'epoca che lo citino in maniera esplicita, tuttavia la sua figura è chiaramente ispirata al personaggio storico di Francesco Bernardino Visconti, noto bandito vissuto tra XVI e XVII secolo e passato alla storia per la sua vita turbolenta e criminosa, salvo poi convertirsi ad opera proprio del cardinal Federigo. Manzoni conferma tale identificazione in una lettera a Cesare Cantù, dove allude al feudatario di Brignano Ghiaradadda come al personaggio del romanzo (in esso finzione e realtà sono abilmente mescolati, tratto comune a tutte le figure storiche che appaiono nelle vicende).
Viene introdotto a partire dal cap. XVIII, quando don Rodrigo accarezza l'idea di rivolgersi a lui per tentare il rapimento di Lucia dal convento della "Signora" (obiettivo troppo al di fuori della sua portata), mentre la sua storia passata e un dettagliato ritratto del personaggio vengono riportati dall'autore nella seconda parte del cap. XIX, quando il signorotto parte alla volta del suo castello. Come personaggio vero e proprio entra in scena nel cap. XX, allorché accetta da don Rodrigo l'incarico di far rapire Lucia, anche se ci viene mostrato già preda di rimorsi e rimpianti sulla sua vita scellerata che preludono al pentimento e alla conversione dei capp. seguenti. Viene descritto come un uomo di alta statura, bruno, calvo, con pochi capelli ormai bianchi e il volto rugoso che dimostra più dei suoi sessant'anni, anche se il suo contegno e l'atteggiamento risoluto testimoniano una vigoria fisica e un'energia che sarebbero straordinari in un giovane. L'autore lo presenta come un bandito feroce e spietato, che accetta incarichi sanguinosi da mandanti anche prestigiosi e che per questo è circondato da una fama sinistra che incute terrore in tutti quelli che hanno a che fare con lui: i vari signori e tirannelli locali che vivono nel territorio che controlla (una zona a cavallo del confine tra Milanese e Bergamasco, dove è situato il suo castello e dove vive circondato da bravi) devono scendere a patti con l'innominato e diventare suoi amici, dal momento che i pochi che hanno cercato di opporsi sono stati uccisi o costretti ad andarsene. Spesso l'uomo accetta di aiutare degli oppressi vittime delle prepotenze dei nobili, il che lo rende esecutore di quella giustizia che lo Stato corrotto e inefficiente non è in grado di assicurare ai deboli; la sua figura acquista dunque una sorta di imponenza tragica e di grandiosa malvagità che lo rendono uno dei personaggi più interessanti del romanzo, specie se accostato a don Rodrigo che, al suo confronto, appare come un individuo ben più modesto e mediocre, anche perché l'innominato si compiace della sua reputazione famigerata e si propone come un nemico pubblico delle leggi e di ogni autorità costituita, mentre il signorotto ricerca continuamente l'appoggio della giustizia e degli amici potenti, mostrando in più di un caso il timore delle conseguenze delle sue malefatte (per approfondire: L. Russo, Don Rodrigo).
L'intervento dell'innominato nelle vicende del romanzo è del resto decisivo, poiché con la liberazione di Lucia i disegni di don Rodrigo vanno a monte e il bene inizia a prevalere sul male, mentre la sua clamorosa conversione diventa un esempio della misericordia divina che è anche tra le pagine più celebri del romanzo, nonché una vicenda umana di caduta e redenzione simile a quella di altri personaggi manzoniani, soprattutto padre Cristoforo (convertitosi anch'egli dopo essersi macchiato di un omicidio e dopo una giovinezza inquieta in parte simile a quella del bandito). In seguito alla conversione l'innominato tiene con sé solo i bravi che accettano la sua nuova vita, mentre egli va in giro senz'armi e si propone come un difensore di deboli e oppressi, non però con i metodi della violenza usati in passato; gli antichi nemici rinunciano a vendicare i torti subìti per rispetto e perché ancora intimoriti da lui, mentre la pubblica autorità non prende nei suoi riguardi alcun provvedimento, specie perché le sue parentele altolocate ora gli valgono una protezione prima solo accennata. Egli mantiene una corrispondenza col cardinal Borromeo, l'artefice in qualche modo del suo ravvedimento, e fa avere per il suo tramite cento scudi d'oro ad Agnese come risarcimento per il male fatto alla figlia, che la donna accetta e di cui manda la metà a Renzo che nel frattempo si è nascosto nel Bergamasco; in occasione poi della calata dei lanzichenecchi (capp. XXIX-XXX) il suo castello offre un sicuro rifugio alle popolazioni che hanno dovuto lasciare le loro case per evitare i saccheggi, tra cui anche don Abbondio, Perpetua e Agnese, che si trattengono presso di lui poco meno di un mese. In seguito non viene più nominato e ignoriamo dunque in quali circostanze sia avvenuta la sua morte.
Il personaggio era protagonista già del Fermo e Lucia, in cui però era chiamato Conte del Sagrato e dove la sua storia si arricchiva di particolari macabri come quello, celebre, dell'omicidio di un uomo sul sagrato di una chiesa (fatto che dava ragione del suo nome, cfr. il testo): il suo colloquio con don Rodrigo era descritto in modo stucchevole e con molti termini spagnoleggianti usati dal signorotto (cfr. il brano Il Conte del Sagrato e don Rodrigo), mentre nei Promessi sposi il colloquio tra i due è riassunto in un sintetico discorso indiretto, inoltre durante la descrizione del suo pentimento e del suo tormento interiore era inserito il ricordo di un incontro avvenuto, da adolescente, col giovane Federigo Borromeo, che risultava alquanto forzato e di sapore fin troppo "agiografico" (infatti esso è stato eliminato dalla versione definitiva del romanzo). Nella prima redazione, inoltre, la sua morte per la peste veniva ricordata nel capitolo conclusivo del romanzo, mentre nelle successive edizioni non se ne fa cenno (cfr. il brano Il finale della storia).
Questi i capitoli in cui compare:
Viene introdotto a partire dal cap. XVIII, quando don Rodrigo accarezza l'idea di rivolgersi a lui per tentare il rapimento di Lucia dal convento della "Signora" (obiettivo troppo al di fuori della sua portata), mentre la sua storia passata e un dettagliato ritratto del personaggio vengono riportati dall'autore nella seconda parte del cap. XIX, quando il signorotto parte alla volta del suo castello. Come personaggio vero e proprio entra in scena nel cap. XX, allorché accetta da don Rodrigo l'incarico di far rapire Lucia, anche se ci viene mostrato già preda di rimorsi e rimpianti sulla sua vita scellerata che preludono al pentimento e alla conversione dei capp. seguenti. Viene descritto come un uomo di alta statura, bruno, calvo, con pochi capelli ormai bianchi e il volto rugoso che dimostra più dei suoi sessant'anni, anche se il suo contegno e l'atteggiamento risoluto testimoniano una vigoria fisica e un'energia che sarebbero straordinari in un giovane. L'autore lo presenta come un bandito feroce e spietato, che accetta incarichi sanguinosi da mandanti anche prestigiosi e che per questo è circondato da una fama sinistra che incute terrore in tutti quelli che hanno a che fare con lui: i vari signori e tirannelli locali che vivono nel territorio che controlla (una zona a cavallo del confine tra Milanese e Bergamasco, dove è situato il suo castello e dove vive circondato da bravi) devono scendere a patti con l'innominato e diventare suoi amici, dal momento che i pochi che hanno cercato di opporsi sono stati uccisi o costretti ad andarsene. Spesso l'uomo accetta di aiutare degli oppressi vittime delle prepotenze dei nobili, il che lo rende esecutore di quella giustizia che lo Stato corrotto e inefficiente non è in grado di assicurare ai deboli; la sua figura acquista dunque una sorta di imponenza tragica e di grandiosa malvagità che lo rendono uno dei personaggi più interessanti del romanzo, specie se accostato a don Rodrigo che, al suo confronto, appare come un individuo ben più modesto e mediocre, anche perché l'innominato si compiace della sua reputazione famigerata e si propone come un nemico pubblico delle leggi e di ogni autorità costituita, mentre il signorotto ricerca continuamente l'appoggio della giustizia e degli amici potenti, mostrando in più di un caso il timore delle conseguenze delle sue malefatte (per approfondire: L. Russo, Don Rodrigo).
L'intervento dell'innominato nelle vicende del romanzo è del resto decisivo, poiché con la liberazione di Lucia i disegni di don Rodrigo vanno a monte e il bene inizia a prevalere sul male, mentre la sua clamorosa conversione diventa un esempio della misericordia divina che è anche tra le pagine più celebri del romanzo, nonché una vicenda umana di caduta e redenzione simile a quella di altri personaggi manzoniani, soprattutto padre Cristoforo (convertitosi anch'egli dopo essersi macchiato di un omicidio e dopo una giovinezza inquieta in parte simile a quella del bandito). In seguito alla conversione l'innominato tiene con sé solo i bravi che accettano la sua nuova vita, mentre egli va in giro senz'armi e si propone come un difensore di deboli e oppressi, non però con i metodi della violenza usati in passato; gli antichi nemici rinunciano a vendicare i torti subìti per rispetto e perché ancora intimoriti da lui, mentre la pubblica autorità non prende nei suoi riguardi alcun provvedimento, specie perché le sue parentele altolocate ora gli valgono una protezione prima solo accennata. Egli mantiene una corrispondenza col cardinal Borromeo, l'artefice in qualche modo del suo ravvedimento, e fa avere per il suo tramite cento scudi d'oro ad Agnese come risarcimento per il male fatto alla figlia, che la donna accetta e di cui manda la metà a Renzo che nel frattempo si è nascosto nel Bergamasco; in occasione poi della calata dei lanzichenecchi (capp. XXIX-XXX) il suo castello offre un sicuro rifugio alle popolazioni che hanno dovuto lasciare le loro case per evitare i saccheggi, tra cui anche don Abbondio, Perpetua e Agnese, che si trattengono presso di lui poco meno di un mese. In seguito non viene più nominato e ignoriamo dunque in quali circostanze sia avvenuta la sua morte.
Il personaggio era protagonista già del Fermo e Lucia, in cui però era chiamato Conte del Sagrato e dove la sua storia si arricchiva di particolari macabri come quello, celebre, dell'omicidio di un uomo sul sagrato di una chiesa (fatto che dava ragione del suo nome, cfr. il testo): il suo colloquio con don Rodrigo era descritto in modo stucchevole e con molti termini spagnoleggianti usati dal signorotto (cfr. il brano Il Conte del Sagrato e don Rodrigo), mentre nei Promessi sposi il colloquio tra i due è riassunto in un sintetico discorso indiretto, inoltre durante la descrizione del suo pentimento e del suo tormento interiore era inserito il ricordo di un incontro avvenuto, da adolescente, col giovane Federigo Borromeo, che risultava alquanto forzato e di sapore fin troppo "agiografico" (infatti esso è stato eliminato dalla versione definitiva del romanzo). Nella prima redazione, inoltre, la sua morte per la peste veniva ricordata nel capitolo conclusivo del romanzo, mentre nelle successive edizioni non se ne fa cenno (cfr. il brano Il finale della storia).
Questi i capitoli in cui compare:
Viene citato in modo allusivo come un personaggio sinistro a cui don Rodrigo medita di rivolgersi per riuscire nella sua impresa, anche se il signorotto ha molti dubbi a coinvolgere un uomo tanto temuto e pericoloso.
Viene narrata la sua vita passata e ne viene fatto il ritratto, come di un bandito potente e spietato che si fa esecutore di delitti su mandato altrui e vive in un castello posto al confine tra Milanese e Bergamasco: costretto in gioventù a lasciare lo Stato, vi era poi rientrato in spregio della legge e aveva iniziato una nera trama di omicidi e assassini, circondandosi di una fama sinistra. Don Rodrigo, accompagnato dal Griso e da quattro bravi, si reca al suo castello. Riceve la visita di don Rodrigo che gli chiede aiuto per rapire Lucia e accetta, benché assalito da molti dubbi. Incarica il Nibbio di recarsi a Monza per contattare Egidio e, poco tempo dopo, riceve le istruzioni su come organizzare il rapimento. Dà ordine al Nibbio di compiere il rapimento, quindi attende con crescente inquietudine l'arrivo di Lucia al castello. Ordina alla vecchia serva di accogliere la giovane e di portarla nella sua stanza, facendole coraggio. Attende l'arrivo della carrozza con Lucia, quindi si apparta col Nibbio che gli fa il suo rapporto: il bravo dice che Lucia gli ha fatto compassione, il che induce il bandito a voler vedere la prigioniera. Va nella stanza dove è custodita dalla vecchia e Lucia lo supplica di liberarla, al che lui, toccato, dice solo "domattina". Tornato nella sua stanza, trascorre una terribile notte insonne in cui è preda dei rimorsi e della disperazione, sfiorando anche l'idea del suicidio; verso l'alba, sente uno scampanio e vede da una finestra i fedeli che accorrono a frotte dal cardinal Borromeo, per cui è preso dalla curiosità di saperne di più e incarica un bravo di informarsi in proposito. Decide di recarsi dal cardinal Borromeo e, dopo aver fatto visita alla stanza in cui si trova Lucia, lascia il castello. Giunto in paese, va alla casa del curato e qui si rivolge al cappellano crocifero, per chiedere udienza dal cardinale. Ha un drammatico confronto col cardinal Borromeo, nel corso del quale prende coscienza del male commesso e si pente, abbandonandosi a un pianto disperato. È consolato dal cardinale e gli rivela il rapimento di Lucia, dicendosi pronto a liberarla. Si reca in seguito al suo castello in compagnia di don Abbondio, presente fra i parroci in visita al cardinale e a cui il prelato ha affidato il compito di consolare Lucia, e della moglie del sarto del paese. Giunge al castello con la piccola comitiva. Libera Lucia, chiedendole perdono per il male commesso. Torna al vicino paese insieme a don Abbondio e alle due donne, poi raggiunge il cardinal Borromeo alla fine delle funzioni. Pranza col prelato e si intrattiene con lui in un lungo colloquio. Torna al suo castello e comunica ai bravi l'avvenuta conversione, intimando a tutti quelli che non condividono la sua scelta di andarsene. Va nella sua stanza e prega, quindi si mette a letto e dorme profondamente. Fa avere ad Agnese, tramite il cardinal Borromeo, cento scudi d'oro come risarcimento del male compiuto a Lucia e fa sapere alla donna con una lettera che potrà recarsi al suo castello in caso di necessità. Viene descritta la sua vita dopo la conversione: tutto dedito a fare del bene al prossimo, ha messo al bando ogni forma di violenza e gira disarmato, ricevendo l'ammirazione degli umili e dei potenti, compresi gli antichi complici. All'arrivo dei lanzichenecchi ha trasformato il suo castello in un rifugio sicuro per tutti coloro che vogliono cercarvi ricovero. Accoglie al suo castello don Abbondio, Agnese e Perpetua, giunti lì dal paese in cerca di rifugio dai lanzichenecchi. Vigila incessantemente affinché la vita nella fortezza non sia turbata da incidenti ed esce sovente in perlustrazione al comando di un drappello di armati. Giunge in soccorso di un paesetto preso d'assalto dai mercenari, mettendoli in fuga. Prima della partenza di Agnese, le regala un corredo di biancheria e del denaro, quindi le chiede di ringraziare Lucia per le preghiere che la giovane certamente rivolge a Dio per la sua anima. |