Il sarto
F. Gonin, Il sarto e Borromeo
Fa la sua apparizione nel cap. XXIV, allorché Lucia viene liberata dall'innominato dopo la sua conversione in seguito all'incontro con il cardinal Borromeo: il prelato chiede al curato del villaggio dove si trova in visita pastorale di trovare una "buona donna" che vada al castello del bandito insieme a quest'ultimo e a don Abbondio, per confortare Lucia al momento della liberazione, e il curato pensa alla moglie del sarto, che accetta subito con l'approvazione del marito. In seguito la donna porta Lucia nella sua casa e qui, poco dopo il suo arrivo, giunge anche il sarto in compagnia dei suoi bambini, di ritorno dalla chiesa dove la funzione è stata officiata dal cardinale. Il sarto è descritto dall'autore come un uomo semplice e dal carattere aperto e gioviale, che sa leggere e possiede libri di genere agiografico e avventuroso come il Leggendario dei santi e poemi cavallereschi quali il Guerrin meschino e i Reali di Francia; gli piace vantarsi un poco di essere una sorta di "letterato" nel paese, anche se è definito come "la miglior pasta del mondo". Riserva un caloroso benvenuto a Lucia e durante il pasto a tavola si dilunga a raccontare con toni enfatici della predica del cardinale, che loda per la sua chiarezza e la commozione che ha suscitato in tutti i fedeli, mentre elogia il Borromeo per la sua vita semplice e spesa in aiuto del prossimo. Anche lui dimostra di essere caritatevole, poiché incarica una delle sue figlie di portare qualcosa da mangiare a una certa Maria vedova (probabilmente una vicina di casa povera), raccomandando alla bambina di non dare l'impressione di far l'elemosina. In seguito il cardinale si reca in visita alla sua casa e l'uomo riserva al prelato un'accoglienza piena di rispetto e deferenza, anche se risponde goffamente al Borromeo quando chiede a lui e alla moglie di ospitare per qualche giorno Lucia e la madre Agnese (il sarto vorrebbe dare una risposta adeguata alla circostanza, ma per quanto si lambicchi il cervello non riesce a dire altro che un insulso "Si figuri!"). Il curato del paese spiegherà poi al cardinale che il sarto e la sua famiglia vivono in maniera agiata e non soffrono eccessivamente per la carestia, anche se l'uomo vanta dei crediti verso persone che non possono pagare e che il Borromeo si offre di ripianare al suo posto, benché il curato si affretti a dire che si tratta certo di una cifra ragguardevole.
Il sarto compare ancora nel cap. XXIX, quando don Abbondio, Perpetua e Agnese sono in fuga dal loro paese per sfuggire ai lanzichenecchi e si dirigono al castello dell'innominato per trovarvi un sicuro rifugio; durante il tragitto fanno una sosta al villaggio e vanno a salutare il sarto e la sua famiglia, da cui sono invitati a pranzo. Anche in questa occasione il sarto vuole fare sfoggio di cultura e afferma pomposamente che i soldati tedeschi non dovrebbero venire "in ospitazione" da quelle parti, con un termine in uso nel Seicento per indicare l'alloggiamento delle milizie, mentre più avanti paragona il passaggio dei lanzichenecchi alla "storia de' mori in Francia", con riferimento ai poemi cavallereschi che ama leggere. Riferisce inoltre che dopo la conversione l'innominato ha allontanato la maggior parte dei suoi bravi, diventando un esempio di carità e giustizia dopo essere stato il flagello di quella regione, mentre mostra poi ad Agnese una stampa che raffigura il cardinal Borromeo, convenendo tuttavia con la donna che la riproduzione non somiglia molto al personaggio. Procura poi un baroccio che accompagnerà i tre viandanti alla Malanotte e offre a don Abbondio dei libri in volgare da leggere durante il soggiorno al castello, anche se il curato li rifiuta in quanto, a suo dire, non avrà molto tempo da dedicare alla lettura di altro che non sia "di precetto" (allude al breviario che porta sempre con sé).
La sua ultima apparizione nel romanzo avviene nel cap. XXX, quando i tre sono ormai di ritorno dal castello dopo un soggiorno di poco più di venti giorni e passano a fare una "fermatina" alla casa dell'uomo, in tempo per sentire il racconto delle devastazioni compiute nei dintorni dai Lanzichenecchi (il sarto osserva che "s’ha da far de’ libri in istampa, sopra un fracasso di questa sorte").
Benché sia un personaggio secondario, il sarto è una delle figure più riuscite del romanzo e viene rappresentato come esempio di carità e solidarietà verso il prossimo, mentre la sua famigliola è un perfetto esempio di concordia domestica e apertura verso i bisognosi (in questo c'è un'analogia con la famiglia di Tonio, apparsa nel cap. VI). Attraverso il sarto l'autore elogia la vita semplice e moralmente retta degli abitanti della campagna, in contrasto con quella disordinata e caotica che caratterizza la città, mentre la tavola della sua casa (povera, ma comunque agiata a dispetto della carestia, come dimostra la presenza del pregiato cappone) è l'esatto contrario di quelle riccamente imbandite degli aristocratici che appaiono nel romanzo, come nel banchetto di don Rodrigo (V) o in quello del conte zio (XIX). Il sarto, inoltre, è un popolano che sa leggere e ama un po' ingenuamente fare sfoggio di cultura, anche se in maniera spesso goffa e involontariamente comica (come nel confronto col cardinal Borromeo), per cui la sua figura entra nel complesso della rappresentazione della cultura secentesca che è largamente presente nel romanzo.
Il sarto compare ancora nel cap. XXIX, quando don Abbondio, Perpetua e Agnese sono in fuga dal loro paese per sfuggire ai lanzichenecchi e si dirigono al castello dell'innominato per trovarvi un sicuro rifugio; durante il tragitto fanno una sosta al villaggio e vanno a salutare il sarto e la sua famiglia, da cui sono invitati a pranzo. Anche in questa occasione il sarto vuole fare sfoggio di cultura e afferma pomposamente che i soldati tedeschi non dovrebbero venire "in ospitazione" da quelle parti, con un termine in uso nel Seicento per indicare l'alloggiamento delle milizie, mentre più avanti paragona il passaggio dei lanzichenecchi alla "storia de' mori in Francia", con riferimento ai poemi cavallereschi che ama leggere. Riferisce inoltre che dopo la conversione l'innominato ha allontanato la maggior parte dei suoi bravi, diventando un esempio di carità e giustizia dopo essere stato il flagello di quella regione, mentre mostra poi ad Agnese una stampa che raffigura il cardinal Borromeo, convenendo tuttavia con la donna che la riproduzione non somiglia molto al personaggio. Procura poi un baroccio che accompagnerà i tre viandanti alla Malanotte e offre a don Abbondio dei libri in volgare da leggere durante il soggiorno al castello, anche se il curato li rifiuta in quanto, a suo dire, non avrà molto tempo da dedicare alla lettura di altro che non sia "di precetto" (allude al breviario che porta sempre con sé).
La sua ultima apparizione nel romanzo avviene nel cap. XXX, quando i tre sono ormai di ritorno dal castello dopo un soggiorno di poco più di venti giorni e passano a fare una "fermatina" alla casa dell'uomo, in tempo per sentire il racconto delle devastazioni compiute nei dintorni dai Lanzichenecchi (il sarto osserva che "s’ha da far de’ libri in istampa, sopra un fracasso di questa sorte").
Benché sia un personaggio secondario, il sarto è una delle figure più riuscite del romanzo e viene rappresentato come esempio di carità e solidarietà verso il prossimo, mentre la sua famigliola è un perfetto esempio di concordia domestica e apertura verso i bisognosi (in questo c'è un'analogia con la famiglia di Tonio, apparsa nel cap. VI). Attraverso il sarto l'autore elogia la vita semplice e moralmente retta degli abitanti della campagna, in contrasto con quella disordinata e caotica che caratterizza la città, mentre la tavola della sua casa (povera, ma comunque agiata a dispetto della carestia, come dimostra la presenza del pregiato cappone) è l'esatto contrario di quelle riccamente imbandite degli aristocratici che appaiono nel romanzo, come nel banchetto di don Rodrigo (V) o in quello del conte zio (XIX). Il sarto, inoltre, è un popolano che sa leggere e ama un po' ingenuamente fare sfoggio di cultura, anche se in maniera spesso goffa e involontariamente comica (come nel confronto col cardinal Borromeo), per cui la sua figura entra nel complesso della rappresentazione della cultura secentesca che è largamente presente nel romanzo.