Il salvataggio del Vicario di Provvisione
Fermo e Lucia, tomo III, cap. 7
Il brano è inserito nel racconto della sommossa di S. Martino a Milano, l'11 novembre 1628, in cui i popolani assaltano la casa del Vicario di Provvisione per linciarlo e accolgono poi il gran cancelliere Ferrer con acclamazioni, poiché era colui che aveva posto il calmiere sul prezzo del pane. L'uomo politico conduce in salvo il Vicario con la sua carrozza, fingendo di volerlo portare in carcere e punirlo per le sue colpe, mentre in realtà è solo un trucco per ingannare la folla: l'episodio è assai simile nella struttura al cap. XIII del romanzo maggiore, con la differenza che Ferrer non alterna italiano e spagnolo per confondere i rivoltosi e, soprattutto, alla fine è presente una breve digressione con cui l'autore si domanda se il comportamento del gran cancelliere sia stato corretto o meno. La conclusione cui giunge è che l'intento era buono (trarre in salvo il Vicario e sottrarlo a morte certa), tuttavia sarebbe stato assai meglio persuadere la folla della sua innocenza piuttosto che promettere falsamente che sarebbe stato processato, cosa che non avvenne mai. Tutta questa parte viene eliminata dalla redazione definitiva e l'intero episodio è dominato, nei "Promessi sposi", da una certa amara ironia che qui è sostanzialmente assente.
In tutto questo frattempo una parte di quelli che volevano salvo il Vicario, s’era impiegata a preparare un po’ di via alla carrozza facendo ritirare la moltitudine: il cocchiere [1] stava pronto, e si mosse cautamente però, tosto che sentì chiudere lo sportello, e dirsi: «Andiamo». Ferrer voleva raccomandare al Vicario di tenersi rincantucciato nel fondo della carrozza, ma vide che il suo consiglio era stato prevenuto: egli si affacciava ora a destra ora a sinistra, rispondendo alle mille grida, e di tempo in tempo passando colla faccia accanto all’orecchio del Vicario gli diceva qualche parolina che doveva essere intesa da lui solo. «Sì sì, lo prometto, in castello [2], in prigione! un esempio, una giustizia esemplare. Tutto questo per bene di Vossignoria. No no, non iscapperà, è in mano mia, si farà un buon processo, un processo severo, e se è reo... voglio dire... sarà castigato rigorosamente. Sì sì uno scellerato, un birbante; ma si farà giustizia. Vossignoria perdoni. Lo faremo saltar fuori il frumento, lasciate fare; a buon mercato, brava gente, fedelissimi vassalli. Il re nostro signore non vuole che si patisca la fame. Avete ragione. La passerà male, se ha fallato, la passerà male. Stia di buon animo; che siamo quasi fuori». [...] Quando la carrozza ebbe preso il largo affatto, il Vicario, riavuto un po’ il fiato, rese grazie umili, e sincere prima a Dio poi al vecchio Ferrer che lo aveva cavato d’un bel fondo. [3] «Eh! eh!» diceva Ferrer, al quale i pensieri della vanagloria erano stati interrotti dai pensieri d’una politica nella quale era incanutito. «Eh! Che dirà il re nostro signore? Che dirà il Conte Duca?» — Il Conte Duca, — soggiunse tra sé a bassa voce — che non vuol romori, che s’adombra se una foglia fa un po’ più strepito del solito. «Ah! per me», disse il Vicario: «non voglio più saperne, me ne lavo le mani, rassegnerò il mio posto, e andrò a vivere in una grotta, sur una montagna, a far l’eremita, lontano, lontano da questa gente bestiale». «Vossignoria farà quello che sarà più conveniente al servigio del re nostro signore», disse Ferrer. «Ah! il re nostro signore non mi vorrà veder morto», rispose il Vicario: «lontano, lontano da costoro: in una grotta». In pochi momenti la carrozza fu in castello, e il Vicario respirò davvero quando sentì alzarsi dietro di lui un ponte levatojo, e si trovò in luogo, dove non si vedevano che soldati. Gli storici originali contemporanei non parlano più nulla di lui; ma noi valendoci del privilegio che hanno gli storici di seconda mano, di inventare qualche cosa di verisimile per rendere compiuta la storia, e supplire alle mancanze dei primi, affermiamo sicuramente, come se ne fossimo stati testimonj, che il Vicario uscito dal castello quando la sedizione fu affatto compressa [4], continuò ad essere Vicario pel tempo che gli rimaneva a compiere la sua carica, e da poi procurò di diventare tutto quello che poté. Dobbiamo pur notare un’altra reticenza più importante e che dà luogo ad indovinare con minor timore d’ingannarsi. Non si trova scritto che il processo del Vicario, che il Ferrer aveva promesso dugento volte in quel giorno, sia stato fatto; e si può scommettere che non sia stato fatto. Su di che non possiamo lasciare di dire il nostro parere, perché avendo noi accompagnato il Ferrer coi nostri voti e coi nostri applausi in quella spedizione, non intendiamo per nulla di aver lodata una gherminella, un raggiro. Ferrer fece molto bene a promettere che il Vicario sarebbe giudicato, perché quella era una promessa ragionevole, e che poteva impedire un delitto. Ma fece molto male o Ferrer o chiunque si fosse quegli o queglino che non si curarono di fare o impedirono che si facesse una cosa la quale era stata promessa solennemente, e avrebbe pure dovuto esser fatta quand’anche non si fosse promessa. Poiché, o il Vicario era reo, non dico delle pazzie che gli venivano apposte, ma di qualche cosa, ed era bene punirlo: o egli era del tutto innocente, ed era cosa ottima mettere in chiaro la sua innocenza, convincere la moltitudine della sua spaventosa credulità, e farle sentire, farle confessare che le era stato risparmiato una stolida atrocità. Invece si mentì, le prevenzioni della moltitudine non furono tolte, le fu dato per sopra più [5] il rancore d’essere stata ingannata, e col fare di questo mezzo di salute un inganno, si tolse, per altre occasioni simili, al mezzo la sua efficacia, la quale consisteva tutta nella fede data alle parole. — Ma, sento dirmi, queste cose non vanno giudicate con questa misura: non sono come le parole che si danno tra privati: si trattava d’impedire un male, e ogni parola era buona: passato il pericolo, l’attenere quella parola [6] era cosa difficile, pericolosa, strana; si avrebbe dovuto propalare [7] molte cose che dovevano stare segrete, insomma tutto il sistema era un ostacolo. — Tanto peggio per un sistema che mette i suoi autori, e i suoi agenti in impicci, dai quali non si possono cavare che dando una parola, che il sistema poi impedisce di mantenere. Dovremmo noi dunque ammettere che i primi falli scusino, anzi santificano quelli che vengon dopo? — Eh! con questi argomenti, non si farebbe nulla. Il fondamento della vera sapienza pratica consiste nel prendere gli uomini come sono. — Queste parole proferite così spesso, e sempre così a proposito, queste parole nelle quali i sapienti devono certamente intendere un senso, poiché le pronunziano con tanta sicurezza che passando tanto per le bocche degli uomini non hanno mai perduta la loro forza, e sciolgono tutte le questioni, troncano a maraviglia anche la presente, e ci dispensano dall’internarci in una digressione la quale sa il cielo quanto avrebbe durato. Prendiamo dunque gli uomini come sono, raccontando quello che hanno fatto. |
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Note
- Il cocchiere di Ferrer diventerà lo spagnolo Pedro nella redazione finale, una delle macchiette più riuscite del romanzo.
- Il Castello Sforzesco era sede nel XVII sec. di una guarnigione militare spagnola.
- Lo aveva tratto in salvo da una situazione disperata.
- Quando la rivolta venne soffocata.
- Per sovrappiù, per aggiunta.
- Il mantenere quella promessa.
- Diffondere, rendere pubbliche.