La giustizia negata nei Promessi sposi

G. B. Galizzi, L'Azzecca-garbugli e Renzo
È uno dei temi portanti del romanzo, dal momento che l'intera vicenda prende avvio da un sopruso esercitato da un nobile ai danni di due poveri contadini, che saranno in seguito costretti a separarsi e a lasciare il loro paese: l'ingiustizia alla base della storia è accennata già dall'anonimo nell'Introduzione, quando preannuncia che "si vedrà in angusto Teatro luttuose Traggedie d’horrori, e Scene di malvaggità grandiosa", benché egli attribuisca questi delitti all'intervento diabolico in quanto, a suo dire, il buon governo della Lombardia del XVII secolo e del re di Spagna dovrebbero evitare simili atrocità (si tratta ovviamente di ironia da parte di Manzoni, poiché gran parte delle ingiustizie narrate nel romanzo hanno origine proprio dall'incuria o dalla corruzione degli uomini di governo). Se ne ha subito un esempio nel cap. I, quando vengono presentati i due bravi incaricati di minacciare don Abbondio e il cui aspetto è sufficiente a intimorire il povero curato: l'autore apre una lunga digressione in cui cita stralci delle gride dell'epoca, ovvero i provvedimenti di legge emanati dallo Stato di Milano che minacciavano pene severissime contro gli sgherri dei signorotti locali, ma che poi restavano inapplicate e favorivano il proliferare degli "atti tirannici" (con un'evidente sproporzione tra i titoli altisonanti dei governatori che le firmavano e la loro inutilità, poiché i bravi prosperavano indisturbati). Il numero crescente delle gride (esse, spiega l'autore, "diluviavano") e l'intensità delle pene che comminavano era inversamente proporzionale alla loro efficacia, poiché non c'era un sistema giudiziario efficiente che le mettesse in pratica, dunque un tirannello locale come don Rodrigo che avesse alle sue dipendenze un gruppo di violenti bravacci poteva farla da padrone, ed esercitare le sue angherie a danno dei contadini con la quasi certezza di passarla liscia. Lo stesso Renzo sperimenta di persona la corruzione dilagante nelle attività legali quando si reca dall'avvocato Azzecca-garbugli (cap. III), il quale gli mostra la grida del 15 ottobre 1627 che intima pene severe a chi minaccia un curato (la lettura di questo documento ha dato a Manzoni l'idea del romanzo) e, scambiandolo per un bravo che ha commesso quel reato, gli spiega in cosa consisterà la sua difesa, ovvero cercare la protezione del mandante, intimidire il curato minacciato e mettere a tacere lo "sposo" che ha subìto il sopruso, sovvertendo i termini stessi dell'idea di giustizia. Al sentire il nome di don Rodrigo, poi, l'avvocato caccia via il giovane su due piedi e nel cap. V si capirà il motivo, dal momento che il dottore è amico del signorotto e siede da commensale alla sua tavola, dove peraltro è presente anche il podestà di Lecco: costui è il magistrato che dovrebbe applicare quella grida che Renzo ha letto e "fare star a dovere" don Rodrigo, ma in realtà il podestà è amico e complice delle scelleratezze del nobile e chiude spesso un occhio sulle sue malefatte, il che fa capire che il povero Renzo non ha alcuna speranza di vedersi dare ragione dal sistema legale che dovrebbe proteggerlo (e infatti il giovane se ne ricorderà quando, arringando la folla a Milano nel cap. XIV, affermerà che c'è una "lega" di lestofanti pronti a difendersi l'uno con l'altro).
La giustizia non protegge i poveri e i contadini dalle prepotenze dei signori, ma il sistema giudiziario è fin troppo sollecito a mettersi in moto per colpire in modo cieco e spietato i personaggi umili, quando vi siano buoni motivi per mostrare quella forza e quell'efficacia di cui esso è normalmente privo: è ancora Renzo a sperimentare questo lato negativo della giustizia, diventando vittima di un procedimento sommario in seguito al tumulto di S. Martino a Milano, in cui è rimasto coinvolto a causa della sua imprudenza e ingenuità. Il giovane non ha commesso alcun delitto né ha preso parte all'assalto dei forni, tuttavia il suo discorso in piazza attira l'attenzione di un poliziotto travestito, che si finge poi suo amico e cerca di portarlo in carcere con la scusa di condurlo a una locanda: Renzo entra all'osteria della Luna Piena e lo sbirro, comportandosi in modo subdolo, lo induce a parlare e a rivelare il proprio nome, al solo fine di spiccare un mandato d'arresto contro di lui e trovare così un capro espiatorio per i disordini avvenuti a Milano in quella giornata (è evidente che alla giustizia non interessa affatto svolgere indagini per accertare la verità, ma solo trovare qualche popolano dalla testa calda da arrestare e giustiziare in modo sommario, per dissuadere la folla dal compiere altri disordini nei giorni seguenti). Renzo è appunto giudicato un "reo buon uomo", cioè un povero ignorante talmente ingenuo da cacciarsi con le sue stesse mani nella rete della giustizia, così il suo comportamento incauto diviene l'occasione per accusarlo di crimini che non ha commesso e che lo porterebbero probabilmente alla forca, anche in assenza di prove certe della sua colpevolezza: la cosa emerge già nel dialogo tra l'oste e il notaio criminale che andrà ad arrestare il giovane, il quale ha stabilito la responsabilità di Renzo sulla base del resoconto del poliziotto e senza neppure aver interrogato il sospetto (secondo lui Renzo ha portato all'osteria del pane "rubato con violenza, per via di saccheggio e di sedizione", mentre ora è intento "a metter su la gente, a preparar tumulti per domani", il tutto basato unicamente su congetture e prove indiziarie). Il notaio assumerà poi con Renzo un atteggiamento del tutto diverso, cercando di rabbonirlo e di convincerlo che si tratta di una formalità, ma solo per il timore che il giovane possa essere liberato dall'intervento della folla che è ancora in tumulto per le strade, cosa che in effetti accadrà; i tutori della legge non esitano a mentire e ad assumere un atteggiamento subdolo pur di raggiungere i loro scopi, mentre l'uscita di scena del notaio (che sfugge alla folla intenzionata a linciarlo e cerca di farsi "piccino piccino") mostra tutta la sua piccolezza morale, la sua inadeguatezza rispetto all'idea di giustizia che dovrebbe rappresentare.
Renzo è comunque costretto alla fuga e a diventare "latitante" per evitare l'arresto, andando a rifugiarsi nel Bergamasco (allora nel territorio della Repubblica di Venezia) e a nascondersi pur non essendo colpevole di nulla, mentre il podestà di Lecco sarà fin troppo sollecito a perquisire la sua casa al paese e a farla depredare di tutto il contenuto (i birri vi si comportano "come in una città presa d'assalto" e il denaro che Renzo contava di farsi mandare nel suo nuovo asilo finisce nelle mani della legge, cioè viene rubato). Il tutto è una parodia grottesca della giustizia, poiché Renzo, che è vittima di un sopruso e dovrebbe essere protetto dal sistema legale, viene invece perseguito per qualcosa che non ha fatto, per di più ad opera di quello stesso podestà che è complice del suo persecutore don Rodrigo, il quale è ben felice degli inattesi sviluppi della vicenda e ne approfitterà per cercare di rapire Lucia. In seguito la fuga del giovane nel Bergamasco diventerà un "affare internazionale", poiché il governatore milanese don Gonzalo se ne lamenterà col residente di Venezia nell'ambito della guerra di Mantova e lo Stato veneto farà qualche indagine superficiale nel territorio di Bergamo che non darà alcun esito (nel frattempo Renzo ha però dovuto assumere un nome falso e cambiare paese, il che renderà assai difficile avere sue notizie da parte di Agnese e dello stesso cardinal Borromeo che si è interessato al suo caso). Le successive vicende della guerra e poi della peste faranno cadere il suo caso nel dimenticatoio, al punto che il giovane potrà tornare indisturbato al suo paese e persino a Milano senza subire alcuna conseguenza (il solo a preoccuparsi della "cattura" è don Abbondio, in ansia più per se stesso che non per il suo parrocchiano); in seguito sarà lo stesso curato a sollecitare l'intervento del marchese erede di don Rodrigo per fare in modo che l'ordine di cattura venga revocato e porre così fine alla paradossale vicenda giudiziaria di Renzo, il che fa capire anche la poca serietà del sistema legale allora vigente, dal momento che le accuse contro Renzo, apparentemente molto gravi, vengono lasciate cadere nel più totale disinteresse. Attraverso le vicende del romanzo l'autore critica l'arretratezza e l'inefficienza del sistema giudiziario dell'Italia del XVII secolo (anche per mezzo della vicenda storica del processo agli untori durante la peste del 1630 e a cui accenna nel cap. XXXII, per poi riprenderla nel saggio storico pubblicato in appendice al libro), ma il romanziere rivolge la sua attenzione a tutti gli abusi e le storture nell'applicazione della legge, di cui c'erano molti esempi ancora nell'Italia del XIX secolo e che erano stati oggetto della trattatistica dell'Illuminismo cui Manzoni si rifà in modo dichiarato. L'idea di fondo è che occorrono profonde riforme del sistema giudiziario che assicurino più ampie garanzie ai cittadini e consentano di perseguire nel modo dovuto i delitti, secondo la lezione di intellettuali come P. Verri e C. Beccaria, anche se alla giustizia terrena (imperfetta e sempre soggetta all'errore) viene sempre contrapposta quella divina, infallibile e inesorabile, che ripartirà equamente premi e castighi nell'Aldilà come anche nelle vicende di questo mondo, ad esempio nell'immane tragedia della peste (in cui, com'è noto, muoiono gran parte dei personaggi negativi del romanzo).
La giustizia non protegge i poveri e i contadini dalle prepotenze dei signori, ma il sistema giudiziario è fin troppo sollecito a mettersi in moto per colpire in modo cieco e spietato i personaggi umili, quando vi siano buoni motivi per mostrare quella forza e quell'efficacia di cui esso è normalmente privo: è ancora Renzo a sperimentare questo lato negativo della giustizia, diventando vittima di un procedimento sommario in seguito al tumulto di S. Martino a Milano, in cui è rimasto coinvolto a causa della sua imprudenza e ingenuità. Il giovane non ha commesso alcun delitto né ha preso parte all'assalto dei forni, tuttavia il suo discorso in piazza attira l'attenzione di un poliziotto travestito, che si finge poi suo amico e cerca di portarlo in carcere con la scusa di condurlo a una locanda: Renzo entra all'osteria della Luna Piena e lo sbirro, comportandosi in modo subdolo, lo induce a parlare e a rivelare il proprio nome, al solo fine di spiccare un mandato d'arresto contro di lui e trovare così un capro espiatorio per i disordini avvenuti a Milano in quella giornata (è evidente che alla giustizia non interessa affatto svolgere indagini per accertare la verità, ma solo trovare qualche popolano dalla testa calda da arrestare e giustiziare in modo sommario, per dissuadere la folla dal compiere altri disordini nei giorni seguenti). Renzo è appunto giudicato un "reo buon uomo", cioè un povero ignorante talmente ingenuo da cacciarsi con le sue stesse mani nella rete della giustizia, così il suo comportamento incauto diviene l'occasione per accusarlo di crimini che non ha commesso e che lo porterebbero probabilmente alla forca, anche in assenza di prove certe della sua colpevolezza: la cosa emerge già nel dialogo tra l'oste e il notaio criminale che andrà ad arrestare il giovane, il quale ha stabilito la responsabilità di Renzo sulla base del resoconto del poliziotto e senza neppure aver interrogato il sospetto (secondo lui Renzo ha portato all'osteria del pane "rubato con violenza, per via di saccheggio e di sedizione", mentre ora è intento "a metter su la gente, a preparar tumulti per domani", il tutto basato unicamente su congetture e prove indiziarie). Il notaio assumerà poi con Renzo un atteggiamento del tutto diverso, cercando di rabbonirlo e di convincerlo che si tratta di una formalità, ma solo per il timore che il giovane possa essere liberato dall'intervento della folla che è ancora in tumulto per le strade, cosa che in effetti accadrà; i tutori della legge non esitano a mentire e ad assumere un atteggiamento subdolo pur di raggiungere i loro scopi, mentre l'uscita di scena del notaio (che sfugge alla folla intenzionata a linciarlo e cerca di farsi "piccino piccino") mostra tutta la sua piccolezza morale, la sua inadeguatezza rispetto all'idea di giustizia che dovrebbe rappresentare.
Renzo è comunque costretto alla fuga e a diventare "latitante" per evitare l'arresto, andando a rifugiarsi nel Bergamasco (allora nel territorio della Repubblica di Venezia) e a nascondersi pur non essendo colpevole di nulla, mentre il podestà di Lecco sarà fin troppo sollecito a perquisire la sua casa al paese e a farla depredare di tutto il contenuto (i birri vi si comportano "come in una città presa d'assalto" e il denaro che Renzo contava di farsi mandare nel suo nuovo asilo finisce nelle mani della legge, cioè viene rubato). Il tutto è una parodia grottesca della giustizia, poiché Renzo, che è vittima di un sopruso e dovrebbe essere protetto dal sistema legale, viene invece perseguito per qualcosa che non ha fatto, per di più ad opera di quello stesso podestà che è complice del suo persecutore don Rodrigo, il quale è ben felice degli inattesi sviluppi della vicenda e ne approfitterà per cercare di rapire Lucia. In seguito la fuga del giovane nel Bergamasco diventerà un "affare internazionale", poiché il governatore milanese don Gonzalo se ne lamenterà col residente di Venezia nell'ambito della guerra di Mantova e lo Stato veneto farà qualche indagine superficiale nel territorio di Bergamo che non darà alcun esito (nel frattempo Renzo ha però dovuto assumere un nome falso e cambiare paese, il che renderà assai difficile avere sue notizie da parte di Agnese e dello stesso cardinal Borromeo che si è interessato al suo caso). Le successive vicende della guerra e poi della peste faranno cadere il suo caso nel dimenticatoio, al punto che il giovane potrà tornare indisturbato al suo paese e persino a Milano senza subire alcuna conseguenza (il solo a preoccuparsi della "cattura" è don Abbondio, in ansia più per se stesso che non per il suo parrocchiano); in seguito sarà lo stesso curato a sollecitare l'intervento del marchese erede di don Rodrigo per fare in modo che l'ordine di cattura venga revocato e porre così fine alla paradossale vicenda giudiziaria di Renzo, il che fa capire anche la poca serietà del sistema legale allora vigente, dal momento che le accuse contro Renzo, apparentemente molto gravi, vengono lasciate cadere nel più totale disinteresse. Attraverso le vicende del romanzo l'autore critica l'arretratezza e l'inefficienza del sistema giudiziario dell'Italia del XVII secolo (anche per mezzo della vicenda storica del processo agli untori durante la peste del 1630 e a cui accenna nel cap. XXXII, per poi riprenderla nel saggio storico pubblicato in appendice al libro), ma il romanziere rivolge la sua attenzione a tutti gli abusi e le storture nell'applicazione della legge, di cui c'erano molti esempi ancora nell'Italia del XIX secolo e che erano stati oggetto della trattatistica dell'Illuminismo cui Manzoni si rifà in modo dichiarato. L'idea di fondo è che occorrono profonde riforme del sistema giudiziario che assicurino più ampie garanzie ai cittadini e consentano di perseguire nel modo dovuto i delitti, secondo la lezione di intellettuali come P. Verri e C. Beccaria, anche se alla giustizia terrena (imperfetta e sempre soggetta all'errore) viene sempre contrapposta quella divina, infallibile e inesorabile, che ripartirà equamente premi e castighi nell'Aldilà come anche nelle vicende di questo mondo, ad esempio nell'immane tragedia della peste (in cui, com'è noto, muoiono gran parte dei personaggi negativi del romanzo).