Federigo Borromeo

Ritratto del card. Borromeo (XVII sec.)
È il cardinale arcivescovo di Milano che raccoglie la confessione dell'innominato e ne favorisce la clamorosa conversione, consentendo in tal modo la liberazione di Lucia prigioniera nel castello del bandito e una positiva svolta nella vicenda dei due promessi: la sua figura è dichiaratamente ispirata al personaggio storico di Federigo Borromeo (1564-1631), il patriarca milanese cugino di S. Carlo e venerato nel XVII secolo come un santo egli stesso, di cui Manzoni traccia una biografia nel cap. XXII che a molti interpreti è sembrata una pagina di forte sapore agiografico (è innegabile che il romanziere ne offra un ritratto positivo in cui prevalgono le luci, per quanto le ombre non vengano del tutto sottaciute). Divenuto sacerdote nel 1580, il Borromeo fu creato cardinale a Roma nel 1587 e usò i larghi proventi della sua casata per opere di elemosina, fino a diventare arcivescovo di Milano dove, peraltro, poté recarsi solo nel 1623 a causa dell'ostilità della Spagna. Difese il rito ambrosiano e promosse la riforma del Conclave, mentre coltivò vari interessi culturali e produsse molti scritti, nessuno dei quali significativo (la sua creazione più importante fu la Biblioteca Ambrosiana, con l'annessa Pinacoteca). Durante la peste del 1630 si segnalò per il suo zelo in favore dei malati, anche se credette agli untori e promosse alcuni processi per stregoneria, fatti che contribuiscono a macchiare almeno in parte la sua biografia (la sua figura è stata recentemente oggetto di nuovi studi storici).
Il personaggio è introdotto per la prima volta nel cap. XXII, quando il cardinale giunge in visita pastorale al paese presso il quale si trova il castello dell'innominato: il bandito, che ha trascorso una notte in preda alla disperazione e ai rimorsi per il male commesso (Lucia è sua prigioniera dopo che l'ha fatta rapire dal convento di Monza), sente uno scampanio e vede molti paesani che corrono per vedere il prelato, al che è preso dal fortissimo desiderio di incontrarlo. Si reca da solo a fargli visita e, dopo un intenso colloquio in cui emerge il sincero pentimento del bandito, quest'ultimo si converte ed esprime il proponimento di liberare Lucia: il cardinale fa chiamare don Abbondio, lì presente insieme a molti altri curati delle terre vicine, e lo incarica di recarsi al castello in compagnia della moglie del sarto del paese per portare via Lucia (XXIII). Nel frattempo dispone che Agnese venga condotta lì e fa in modo che le due donne possano riabbracciarsi, per poi incontrarle e raccogliere sia le lagnanze di Agnese contro don Abbondio, sia la confessione di Lucia circa il tentativo del "matrimonio a sorpresa", interessandosi anche alla sorte di Renzo che, in seguito al tumulto di S. Martino, è ricercato dalla giustizia (XXIV). In seguito si reca in visita al paese delle due donne poco prima che queste rientrino (XXV) e in tale occasione rivolge i suoi rimproveri a don Abbondio per la sua viltà, suscitando in lui un momentaneo pentimento (XXV-XXVI). Dà un parere favorevole alla proposta avanzata da donna Prassede e don Ferrante di ospitare Lucia nella loro casa a Milano, dove potrà trovare protezione da don Rodrigo, infine riceve tramite il curato del paese vicino al castello dell'innominato una lettera di quest'ultimo e cento scudi d'oro, che costituiscono una sorta di risarcimento ad Agnese e Lucia (il cardinale consegna immediatamente il denaro alla madre della giovane).
In seguito viene citato nel cap. XXVIII per sottolineare la sua opera instancabile a favore degli affamati durante la terribile carestia del 1628-1629, e nei capp. XXXI-XXXII in cui si parla del suo impegno per la cura degli ammalati in occasione dell'epidemia di peste del 1630: qui il romanziere non lesina elogi per l'assistenza caritatevole offerta dal prelato ai ricoverati nel lazzaretto, anche profondendo parte delle sue rendite personali, ma non tace il fatto che il cardinale credette alle dicerie sugli untori, tanto da scrivere un'operetta sulla peste (conservata nella Biblioteca Ambrosiana da lui fondata) in cui la loro azione non veniva né confutata né confermata. È anche per questo motivo che Borromeo si oppone inizialmente alla processione solenne con il corpo di S. Carlo chiesta dalle autorità cittadine per placare il contagio, dal momento che un simile concorso di folla darebbe troppe occasioni ai presunti untori di spargere i loro veleni; alla fine acconsente alla cerimonia, che si svolge l'11 giugno 1630 e che ha come unico risultato il propagarsi ancor più rapido della pestilenza, col crescere dei decessi fin dal giorno seguente (la cosa viene attribuita all'opera degli untori e non, com'è ovvio, alla concentrazione della folla per le strade e al moltiplicarsi dei contatti). Il cardinale si spende d'altra parte senza timori per il soccorso degli appestati e non esita, di quando in quando, a visitarli personalmente al lazzaretto, mostrando un coraggio che è testimoniato da tanti scritti di storici contemporanei: "Si cacciò insomma e visse nel mezzo della pestilenza, maravigliato anche lui alla fine, d'esserne uscito illeso". Viene citato ancora nel cap. XXXVII, quando la mercantessa informa Lucia che Gertrude è stata imprigionata in seguito ai suoi delitti proprio per ordine del cardinal Federigo (il fatto corrisponde alla verità storica, poiché il prelato scoprì la tresca della monaca di Monza e la fece internare in un convento di Milano, dove questa si ravvide fino a morire in odore di santità).
Federigo Borromeo rappresenta nel romanzo l'unica eccezione fra tanti personaggi potenti i quali, per malvagità, incuria o incompetenza, si macchiano di gravi colpe, oltre ad essere praticamente l'unico esponente dell'alto clero a comportarsi in modo schietto e a non compromettersi col potere politico e aristocratico (è dunque una figura ben diversa dalla badessa del convento di Monza che compiace i disegni perversi del principe padre di Gertrude, e del padre provinciale dei cappuccini che accetta di trasferire padre Cristoforo da Pescarenico).
Per approfondire: G. Getto, Il cardinal Borromeo.
Il personaggio è introdotto per la prima volta nel cap. XXII, quando il cardinale giunge in visita pastorale al paese presso il quale si trova il castello dell'innominato: il bandito, che ha trascorso una notte in preda alla disperazione e ai rimorsi per il male commesso (Lucia è sua prigioniera dopo che l'ha fatta rapire dal convento di Monza), sente uno scampanio e vede molti paesani che corrono per vedere il prelato, al che è preso dal fortissimo desiderio di incontrarlo. Si reca da solo a fargli visita e, dopo un intenso colloquio in cui emerge il sincero pentimento del bandito, quest'ultimo si converte ed esprime il proponimento di liberare Lucia: il cardinale fa chiamare don Abbondio, lì presente insieme a molti altri curati delle terre vicine, e lo incarica di recarsi al castello in compagnia della moglie del sarto del paese per portare via Lucia (XXIII). Nel frattempo dispone che Agnese venga condotta lì e fa in modo che le due donne possano riabbracciarsi, per poi incontrarle e raccogliere sia le lagnanze di Agnese contro don Abbondio, sia la confessione di Lucia circa il tentativo del "matrimonio a sorpresa", interessandosi anche alla sorte di Renzo che, in seguito al tumulto di S. Martino, è ricercato dalla giustizia (XXIV). In seguito si reca in visita al paese delle due donne poco prima che queste rientrino (XXV) e in tale occasione rivolge i suoi rimproveri a don Abbondio per la sua viltà, suscitando in lui un momentaneo pentimento (XXV-XXVI). Dà un parere favorevole alla proposta avanzata da donna Prassede e don Ferrante di ospitare Lucia nella loro casa a Milano, dove potrà trovare protezione da don Rodrigo, infine riceve tramite il curato del paese vicino al castello dell'innominato una lettera di quest'ultimo e cento scudi d'oro, che costituiscono una sorta di risarcimento ad Agnese e Lucia (il cardinale consegna immediatamente il denaro alla madre della giovane).
In seguito viene citato nel cap. XXVIII per sottolineare la sua opera instancabile a favore degli affamati durante la terribile carestia del 1628-1629, e nei capp. XXXI-XXXII in cui si parla del suo impegno per la cura degli ammalati in occasione dell'epidemia di peste del 1630: qui il romanziere non lesina elogi per l'assistenza caritatevole offerta dal prelato ai ricoverati nel lazzaretto, anche profondendo parte delle sue rendite personali, ma non tace il fatto che il cardinale credette alle dicerie sugli untori, tanto da scrivere un'operetta sulla peste (conservata nella Biblioteca Ambrosiana da lui fondata) in cui la loro azione non veniva né confutata né confermata. È anche per questo motivo che Borromeo si oppone inizialmente alla processione solenne con il corpo di S. Carlo chiesta dalle autorità cittadine per placare il contagio, dal momento che un simile concorso di folla darebbe troppe occasioni ai presunti untori di spargere i loro veleni; alla fine acconsente alla cerimonia, che si svolge l'11 giugno 1630 e che ha come unico risultato il propagarsi ancor più rapido della pestilenza, col crescere dei decessi fin dal giorno seguente (la cosa viene attribuita all'opera degli untori e non, com'è ovvio, alla concentrazione della folla per le strade e al moltiplicarsi dei contatti). Il cardinale si spende d'altra parte senza timori per il soccorso degli appestati e non esita, di quando in quando, a visitarli personalmente al lazzaretto, mostrando un coraggio che è testimoniato da tanti scritti di storici contemporanei: "Si cacciò insomma e visse nel mezzo della pestilenza, maravigliato anche lui alla fine, d'esserne uscito illeso". Viene citato ancora nel cap. XXXVII, quando la mercantessa informa Lucia che Gertrude è stata imprigionata in seguito ai suoi delitti proprio per ordine del cardinal Federigo (il fatto corrisponde alla verità storica, poiché il prelato scoprì la tresca della monaca di Monza e la fece internare in un convento di Milano, dove questa si ravvide fino a morire in odore di santità).
Federigo Borromeo rappresenta nel romanzo l'unica eccezione fra tanti personaggi potenti i quali, per malvagità, incuria o incompetenza, si macchiano di gravi colpe, oltre ad essere praticamente l'unico esponente dell'alto clero a comportarsi in modo schietto e a non compromettersi col potere politico e aristocratico (è dunque una figura ben diversa dalla badessa del convento di Monza che compiace i disegni perversi del principe padre di Gertrude, e del padre provinciale dei cappuccini che accetta di trasferire padre Cristoforo da Pescarenico).
Per approfondire: G. Getto, Il cardinal Borromeo.