Il finale della storia
Fermo e Lucia, tomo IV, cap. 9
La conclusione della vicenda nella prima redazione presenta molti elementi di somiglianza con quella definitiva, ma anche alcune differenze sostanziali: anzitutto il viaggio di ritorno di Fermo al paese viene riassunto in poche righe ed è assente il personaggio dell'amico che lo ospita (questi avrà invece una parte consistente nel cap. XXXVII dei "Promessi sposi"); i concerti con Agnese per il futuro matrimonio e il trasferimento nel Bergamasco sono anch'essi molto frettolosi; assai deludente anche l'intermezzo con don Abbondio, ridotto a macchietta comica ma privo di quegli elementi di vivacità che animeranno invece il cap. XXXVIII (qui è appena accennato il ruolo avuto dal curato nell'offerta da parte del marchese per l'acquisto delle terre e non si fa più parola del bando contro Renzo). Dopo la partenza dei due sposi per la nuova patria, inoltre, non si accenna minimamente alle iniziali amarezze di Renzo nel paese di Bortolo, né all'acquisto del filatoio in comproprietà col cugino e dunque il giovane non diventa imprenditore, rimane un semplice salariato. La coppia avrà solo due figli (un maschio e una femmina, chiamata Agnese) e non si parla della promessa di Renzo di dare il nome Maria a una bambina, come accadrà invece nella redazione finale. Il brano riportato di seguito inizia dal momento in cui don Abbondio apprende della morte di don Rodrigo e accetta finalmente di celebrare il matrimonio.
Per ulteriori osservazioni, cfr. il terzo approfondimento del cap. XXXVIII.
Per ulteriori osservazioni, cfr. il terzo approfondimento del cap. XXXVIII.
Le accoglienze furon fredde, e imbarazzate [1]: e a dir vero faceva proprio rabbia a vedere quella faccia svogliata e soffusa per dir così d’un mal umore e d’una stizza repressa, in mezzo a tanti aspetti allegri. Ma Fermo che conosceva il male del pover uomo, gli amministrò tosto la medicina con queste parole: «Quel signore è poi morto davvero». Don Abbondio non si abbandonò alla gioja da spensierato, ma volle sapere con che fondamento si affermasse una tale... notizia. «L’ho veduto io pur troppo», disse Lucia, raccapricciando ancora al ricordarsene [2]. Don Abbondio volle sentire il racconto, si fece ripetere molte circostanze, e quando fu ben certo che Don Rodrigo era veramente passato all’altra vita, mise un gran respiro, i suoi occhi s’animarono, tutti i lineamenti del suo volto si spiegarono come un fiore che sbuccia al raggio di primavera. «È morto!» sclamò egli: «Oh provvidenza! provvidenza! Ecco se Domeneddio arriva certa gente. È morto senza successione [3], per un giusto giudizio, e anche per un gran benefizio della provvidenza; perché se colui avesse lasciato gente della sua razza, bisognerebbe dire: è morto un buon cavaliere: peccato! un degno gentiluomo. Così, si può finalmente dire il suo cuore. Ah! Non c’è più quel burbero, quel soperchiatore, quello spaventacchio [4]. Questa pestilenza è stata un flagello, figliuoli, un flagello; ma è stata anche una scopa: ha spazzato via certa gente, che, figliuoli miei, non ce ne liberavamo più: birboni, freschi, verdi, vigorosi, che sperare di far loro le esequie, sarebbe stata una prosunzione peccaminosa; si sarebbe detto che il prete destinato ad asperger loro la cassa stava ancora facendo i latinucci; e in un batter d’occhio sono iti: requiescant. Ah!... Ma, che facciamo noi qui», soggiunse poi, come ravvedendosi, «qui in piedi, in questo andito? venite figliuoli, venite nella mia saletta; venga signora mia, ben venuta in queste parti; andiamo a sedere, e a discorrere tranquillamente dei fatti nostri. Perché», continuò egli camminando, «quello che s’ha da fare voglio che lo facciamo presto; che è troppo giusto. Non mi piace, vedete, far penare la gente. E principalmente voi, figliuoli cari»,: e qui eran giunti nella sala, e fatti sedere da Don Abbondio, che proseguì: «principalmente voi, ai quali ho sempre voluto bene. Ma che volete? Alle volte bisogna far bella cera a quegli che si vorrebbero veder lontani le mille miglia, e cera brusca a quelli che si amano: si pare amici dei birboni, e nemici dei galantuomini; ma, santo cielo! bisogna vestirsi dei panni d’un povero galantuomo. Basta; è finita; veniamo a noi. Figliuoli, non bisogna perder tempo; oggi, che giorno è?... Venerdì: posdomani rinnoveremo le pubblicazioni; perché quelle altre già fatte, dopo tanto tempo, non valgono più nulla; e poi voglio avere io la consolazione di maritarvi; e subito subito, voglio darne parte [5] a Sua Eminenza». «Chi è Sua Eminenza?» domandò Agnese. «Il nostro arcivescovo», rispose Don Abbondio, «quel degno prelato: non sapete che il nostro santo padre Urbano ottavo, che Dio conservi, fino dal mese di Giugno, ha ordinato che ai cardinali si dia il titolo di Eminenza?» «Ed io», replicò Agnese, «che gli ho parlato, come parlo a Vossignoria, ho inteso che tutti gli dicevano: Monsignore illustrissimo». «E se gli aveste a parlare ora», replicò Don Abbondio, «dovreste dirgli: Eminenza, sotto pena di passare per malcreata, o per ignorante. Così ha voluto il papa: è ben vero che alcuni principi sono in collera, e non vorrebbero questa novità: ma, tra loro magnati se la strighino [6]: io povero pretazzuolo non ho di questi affanni. Torniamo al fatto nostro. Voglio che stiamo allegri: abbiamo avuto tanto tempo di malinconia. Farete un po’ di banchetto: eh?» «Da poveri figliuoli», rispose Fermo. «Ed io verrò a stare allegro con voi; verrò, vedete», disse Don Abbondio. «Oh signor curato», rispose Fermo, «intendevamo bene di pregarla...» «Ed io vi ho prevenuti», riprese Don Abbondio, «per farvi vedere che vi sono amico; che vi voglio bene, quantunque m’abbiate dato anche voi qualche travaglio: non parlo di te che sei un malandrinaccio», disse rivolto a Fermo, sorridendo, «ma anche voi con quell’aria di quietina»: e qui rivolto a Lucia, e alzata la mano con l’indice teso, e stretto il rimanente del pugno la moveva verso di essa in atto di amichevole rimbrotto; e continuò: «bricconcella, anche voi mi avete voluto fare un tiro: quella sera: quella sorpresa: quel clandestino: basta non ne parliamo più; quel ch’è stato è stato: non è colpa vostra; è un mio destino, che tutti più o meno debbano darmi qualche fastidio: tutto è finito: pensiamo a stare allegri». Lucia sorrise; Agnese stava per aprir la bocca ad argomentare contra Don Abbondio, e provargli che il torto era suo; ma Fermo le fece cenno di tacere; e rispose egli in vece con un complimento al curato; e con qualche altro complimento, il congresso finì con universale soddisfazione. Il tempo che scorse tra le pubblicazioni e le nozze, fu impiegato dagli sposi ai preparativi pel traslocamento a Bergamo, e pel trasporto colà del loro modico avere, e Agnese, la quale come il lettore se n’è avveduto, pareva sempre voler dominare nei discorsi, ma in fatto, povera donna, viveva per gli altri, e faceva a modo dei suoi figlj, anche in questo caso si arrabbattò per la causa comune: la vedova anch’essa non lasciava di dare una mano. [...] Scelta dunque un’altra patria, i nostri eroi, erano però impacciati del come convertire in danaro i pochi beni che dovevano lasciare nel paese dove erano nati: ma la fortuna — non osiamo dire la provvidenza — la fortuna che voleva favorirli in tutto, come uno scrittore che voglia terminar lietamente una storia inventata per ozio, trovò un ripiego anche a questo. I beni di Don Rodrigo erano passati per fedecommesso [7] ad un parente lontano; il quale era un uomo di ben diverso conio; un galantuomo, un amico del cardinal Federigo. Prima di andare a prender possesso di quella eredità, trovandosi egli col cardinale gliene parlò. «Avrete forse una occasione di far del bene e di riparare il male che ha fatto Don Rodrigo», gli disse il cardinale, e gli raccontò in succinto la persecuzione fatta da quello sgraziato ai nostri sposi, e il danno di ogni genere che ne avevan patito. «Se son vivi tuttora», soggiunse, «non vi prego di far loro del bene, che con voi non fa bisogno; ma di darmi notizia di loro, e di dire a quella buona giovane ch’io mi ricordo sempre di lei, e mi raccomando alle sue orazioni». Il galantuomo, appena giunto al castellotto [8], si fece indicare il villaggio degli sposi, e si presentò al curato. Don Abbondio al vedere il nuovo padrone di quella altre volte caverna di ladroni, umano, cortese, affabile, rispettoso verso i preti, voglioso di far del bene, non si può dire quanto ne fosse edificato. E quando quel signore lo richiese di Fermo e di Lucia, e gli manifestò le sue intenzioni benevole, Don Abbondio, non solo si prestò volentieri, a secondarle, ma lo fece con una ispirazione molto felice. «Signor mio», diss’egli «questa buona gente è risoluta di lasciar questo paese; e il miglior servizio ch’ella possa render loro è di comperare quei pochi fondi che tengono qui. A lei potrà convenire di aggiungerli ai suoi possessi; e quella gente si troverà fuori d’un grande impiccio». Il signore gradì la proposta, anzi con molto garbo richiese Don Abbondio se non sarebbe dispiaciuto di condurlo a vedere quei fondi, e insieme a conoscere quella brava gente. «È un onore immortale», disse Don Abbondio facendo una gran riverenza; e andò in trionfo alla casa di Lucia con quel signore, il quale fece la proposta, che fu molto gradita. Il prezzo fu rimesso a Don Abbondio, a cui il signore disse all’orecchio, che lo stabilisse molto alto. Don Abbondio così fece; ma il signore volle aggiungere qualche cosa: e per interrompere i ringraziamenti dei venditori, gli invitò a pranzo nel suo castello pel giorno dopo quello delle nozze. Quel giorno benedetto venne finalmente: gli sposi promessi, furono marito e moglie; il banchetto fu molto lieto. Il giorno seguente ognuno può immaginarsi quali fossero i sentimenti degli sposi e quelli di Don Abbondio, entrando non solo con sicurezza, ma con accoglimento ospitale ed onorevole nel castello, che era stato di Don Rodrigo: a render compiuta la festa, mancava il Padre Cristoforo: ma egli era andato a star meglio. Non possiamo però ommettere [9] una circostanza singolare di quel convito: il padrone non vi sedé; allegando che il pranzare a quell’ora non si confaceva al suo stomaco [10]. Ma la vera cagione fu (oh miseria umana!) che quel brav’uomo non aveva saputo risolversi a sedere a mensa con due artigiani: egli, che si sarebbe recato ad onore di prestar loro i più bassi servigi, in una malattia. Tanto anche a chi è esercitato a vincere le più forti passioni è difficile il vincere una picciola abitudine di pregiudizio, quando un dovere inflessibile e chiaro non comandi la vittoria. Il terzo giorno, la buona vedova con molte lagrime, e con quelle promesse di rivedersi, che si fanno anche quando s’ignora se e quando si potranno adempire, si staccò dalla sua Lucia, e tornò a Milano: e gli sposi con la buona Agnese che tutti e due ora chiamavano mamma, preso commiato da Don Abbondio, diedero un addio, che non fu senza un po’ di crepacuore ai loro monti, e s’avviarono a Bergamo. Avrebbero certamente divertito [11] dalla loro strada, per far una visita al Conte del Sagrato, ma il terribile uomo era morto di peste contratta nell’assistere ai primi appestati. [12] La picciola colonia prosperò nel suo nuovo stabilimento, col lavoro e con la buona condotta. Dopo nove mesi Agnese ebbe un bamboccio da portare attorno, e a cui dare dei baci chiamandolo «cattivaccio». Ella visse abbastanza per poter dire che la sua Lucia era stata una bella giovane e per sentir chiamare bella giovane una Agnese che Lucia le diede qualche anno dopo il primo figliuolo [13]. Fermo pigliava sovente piacere a contare le sue avventure, e aggiungeva sempre: «d’allora in poi ho imparato a non mischiarmi a quei che gridano in piazza, a non fare la tal cosa, a guardarmi dalla tal altra». Lucia però non si trovava appagata di questa morale: le pareva confusamente che qualche cosa le mancasse. A forza di sentir ripetere la stessa canzone, e di pensarvi ad ogni volta, ella disse un giorno a Fermo: «Ed io, che debbo io avere imparato? io non sono andata a cercare i guaj, e i guai sono venuti a cercarmi. Quando tu non volessi dire», aggiunse ella soavemente sorridendo, «che il mio sproposito sia stato quello di volerti bene e di promettermi a te». [14] Fermo quella volta rimase impacciato, e Lucia pensandovi ancor meglio conchiuse che le scappate attirano bensì ordinariamente de’ guai: ma che la condotta la più cauta, la più innocente non assicura da quelli; e che quando essi vengono, o per colpa, o senza colpa, la fiducia in Dio gli raddolcisce, e gli rende utili per una vita migliore. Questa conclusione benché trovata da una donnicciuola ci è sembrata così opportuna che abbiamo pensato di proporla come il costrutto morale [15] di tutti gli avvenimenti che abbiamo narrati, e di terminare con essa la nostra storia. |
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Note
- Fermo, Agnese, Lucia e la vedova del mercante si recano da don Abbondio, per sollecitare la celebrazione delle nozze.
- Il riferimento è all'episodio della morte del signorotto, descritto in questo stesso capitolo (cfr. il testo).
- In realtà più avanti giungerà in paese il marchese suo erede (nei Promessi sposi era proprio il suo arrivo a dare la conferma della morte di don Rodrigo).
- Spauracchio.
- Informare della cosa.
- Se la sbrighino, se la vedano (è voce antiquata).
- Forma di successione ereditaria che obbliga l'erede a conservare intatto il patrimonio immobiliare (cfr. cap. XXXVIII dei Promessi sposi).
- È il palazzotto di don Rodrigo.
- Omettere.
- Nella redazione finale il marchese metterà gli sposi e la mercantessa a tavola in un tinello e si ritirerà a pranzare in un'altra sala con don Abbondio.
- Deviato.
- Il particolare della morte dell'innominato è assente nei Promessi sposi.
- Nelle edizioni successive la coppia avrà invece una bambina, cui verrà dato nome Maria, e vari altri figli di entrambi i sessi.
- Nel finale dei Promessi sposi Lucia dà ancora del "voi" allo sposo.
- Il "costrutto morale" nella versione definitiva diventerà, più modestamente, il "sugo di tutta la storia".