Capitolo XXIII
A. Guardassoni, L'innominato e il cardinale
"A misura che queste parole uscivan dal suo labbro,
il volto, lo sguardo, ogni moto ne spirava il senso.
La faccia del suo ascoltatore, di stravolta e convulsa,
si fece da principio attonita e intenta;
poi si compose a una commozione più profonda
e meno angosciosa; i suoi occhi, che dall'infanzia
più non conoscevan le lacrime, si gonfiarono;
quando le parole furono cessate, si coprì il volto
con le mani, e diede in un dirotto pianto,
che fu come l'ultima e più chiara risposta..."
Personaggi:
Luoghi: Tempo: Temi: Trama: |
_Don Abbondio, l'innominato, il cardinal Borromeo, il cappellano crocifero, la moglie del sarto
Il castello dell'innominato, il paese vicino, la Malanotte Novembre 1628 La giustizia, Nobiltà e potere, Chiesa e religione Colloquio tra l'innominato e il cardinale. Pentimento dell'innominato, che rivela al cardinale il rapimento di Lucia. Il cardinale fa chiamare don Abbondio e gli affida il compito di andare a liberare la giovane, in compagnia di una "buona donna" (la moglie del sarto del paese) e dell'innominato. Timori e paure di don Abbondio durante il tragitto verso il castello del bandito. |
Il cappellano crocifero introduce l'innominato dal cardinale
F. Gonin, Il cappellano e il cardinale
Il cardinal Borromeo sta leggendo in attesa di recarsi in chiesa per le funzioni, come è solito fare nei rari momenti liberi, quando entra il cappellano crocifero con viso alterato a riferirgli che c'è una visita assai singolare e dicendo che l'innominato (il cui nome pronuncia con tono di deferenza e timore) chiede di essere ricevuto. Il cardinale si mostra entusiasta e ordina di farlo entrare immediatamente, al che il cappellano tenta di obiettare che si tratta di un famoso bandito e che potrebbe aver ricevuto da altri l'incarico di assassinare il prelato: il Borromeo sorride di tanta ingenuità e osserva che è ben singolare che i soldati esortino il generale ad aver paura, quindi (dopo aver ricordato che il cugino S. Carlo sarebbe addirittura andato in cerca di un tale uomo) comanda di farlo entrare senza indugio, poiché ha già aspettato troppo. Il cappellano obbedisce, pensando tra sé che i santi sono tutti ostinati, ed esce per recarsi nella stanza dove l'innominato attende, in compagnia dei curati che lo osservano intimoriti da una parte e parlano tra loro. Il cappellano si rivolge al bandito e, dopo aver rinunciato a chiedergli di deporre le armi che probabilmente porta sotto la veste, lo informa che il cardinale è pronto a riceverlo. L'innominato lo segue e i due passano attraverso quella piccola folla che osserva con grande stupore, mentre il cappellano sembra dire con lo sguardo che il comportamento del cardinale è singolare come al solito.
Il cardinale accoglie l'innominato
F. Gonin, Borromeo e l'innominato
L'innominato entra nella stanza dove si trova il cardinale, il quale lo accoglie con volto sereno e a braccia aperte, per poi comandare al cappellano crocifero di uscire (questi obbedisce immediatamente). Rimasti soli, i due uomini restano qualche attimo in silenzio e come in attesa degli eventi: l'innominato è roso da una smania interiore e da due sentimenti opposti, ovvero il desiderio di trovare sollievo al suo tormento e la vergogna di essere lì, a supplicare un uomo come un miserabile, anche se guardando il cardinale è indotto a provare una certa venerazione per lui e ciò contribuisce ad attenuare l'orgoglio del bandito. Del resto l'aspetto di Federigo ispira superiorità e, al tempo stesso, si fa amare, dal momento che il suo portamento è maestoso e composto, lo sguardo vivace, l'espressione serena e pensosa; i capelli bianchi, il pallore, i segni dell'astinenza, tutto gli conferisce una sorta di virginale freschezza, mentre una bellezza senile ha preso il posto di quella che doveva essere la sua piacevolezza giovanile, anche grazie alla pace interiore, all'amore per il prossimo, alla speranza della futura beatitudine.
Colloquio tra il cardinale e l'innominato: la disperazione del bandito
A. Birelli, Federigo e l'innominato
Anche il cardinale tiene per un po' lo sguardo sull'innominato, per scrutare qualcuno dei suoi pensieri nascosti, convincendosi infine che forse la sua speranza circa quell'incontro non è del tutto mal riposta. Si rivolge infine al bandito manifestando la sua gioia per quella visita inattesa, anche se, a suo dire, essa giunge come un rimprovero per il prelato: l'altro ne è sorpreso e il Borromeo spiega che sarebbe toccato a lui recarsi dall'innominato e da molto tempo, al che il bandito esprime tutto il suo stupore ricordando al cardinale la sua identità e chiedendogli se il suo nome gli è stato riferito a dovere. In realtà, ribatte Federigo, la consolazione che lui prova nel vederselo davanti e che esprime col suo volto non potrebbe essere causata da uno sconosciuto, in quanto egli ha spesso pregato per l'innominato, che considera come uno dei suoi figli e che avrebbe da tempo voluto abbracciare, anche se Dio è stato più sollecito e ha supplito alla lentezza del suo umile servitore.
L'innominato è sbalordito di fronte a tali parole e resta in silenzio, al che il cardinale lo esorta con premura a dargli la "buona novella" che è sicuramente venuto a recargli: il bandito ribatte che ha l'inferno nel cuore e non ha buone notizie da dare al cardinale, ma questi si dice certo che Dio gli ha toccato l'animo e vuole convertirlo. L'innominato protesta col dire che non sa dove si trova questo "Dio" di cui sente parlare, ma Federigo gli ricorda che nessuno può saperlo meglio di lui, che lo sente in cuore, ne è tormentato e stimolato e, al tempo stesso, attratto da Lui, nella speranza di una consolazione purché egli ammetta le sue colpe ne chieda perdono. L'innominato dichiara che, in effetti, c'è qualcosa di terribile che lo opprime, ma, posto che Dio esista, si chiede cosa mai potrebbe fare di lui: il cardinale spiega che Dio lo ha scelto per farne un esempio della Sua gloria, superiore a quella, misera, che gli viene dalle molte voci che nel mondo si levano contro il bandito per biasimarne i tanti delitti e soprusi, voci dettate dalla giustizia ma anche dal timore, dall'invidia per la sua sciagurata potenza che pare invincibile. Ma se l'innominato si ravvedesse e riconoscesse le sue colpe di fronte al mondo, allora questa sarebbe una gloria straordinaria per Dio e non è certo il cardinale, Suo umile servo, che possa dire cosa Dio farà del bandito e della sua eccezionale volontà, una volta che questa sia stata volta al bene e infiammata dal pentimento. L'innominato, prosegue Federigo, si è illuso di compiere grandi imprese al servizio del male, ma esse sono nulla di fronte a quelle che compirà per il bene dopo essersi convertito, mentre lui stesso è pieno della carità che Dio gli infonde e che lo spingerebbe a dare gli ultimi giorni che gli restano da vivere, pur di vedere lo spettacolo straordinario di un simile ravvedimento.
L'innominato è sbalordito di fronte a tali parole e resta in silenzio, al che il cardinale lo esorta con premura a dargli la "buona novella" che è sicuramente venuto a recargli: il bandito ribatte che ha l'inferno nel cuore e non ha buone notizie da dare al cardinale, ma questi si dice certo che Dio gli ha toccato l'animo e vuole convertirlo. L'innominato protesta col dire che non sa dove si trova questo "Dio" di cui sente parlare, ma Federigo gli ricorda che nessuno può saperlo meglio di lui, che lo sente in cuore, ne è tormentato e stimolato e, al tempo stesso, attratto da Lui, nella speranza di una consolazione purché egli ammetta le sue colpe ne chieda perdono. L'innominato dichiara che, in effetti, c'è qualcosa di terribile che lo opprime, ma, posto che Dio esista, si chiede cosa mai potrebbe fare di lui: il cardinale spiega che Dio lo ha scelto per farne un esempio della Sua gloria, superiore a quella, misera, che gli viene dalle molte voci che nel mondo si levano contro il bandito per biasimarne i tanti delitti e soprusi, voci dettate dalla giustizia ma anche dal timore, dall'invidia per la sua sciagurata potenza che pare invincibile. Ma se l'innominato si ravvedesse e riconoscesse le sue colpe di fronte al mondo, allora questa sarebbe una gloria straordinaria per Dio e non è certo il cardinale, Suo umile servo, che possa dire cosa Dio farà del bandito e della sua eccezionale volontà, una volta che questa sia stata volta al bene e infiammata dal pentimento. L'innominato, prosegue Federigo, si è illuso di compiere grandi imprese al servizio del male, ma esse sono nulla di fronte a quelle che compirà per il bene dopo essersi convertito, mentre lui stesso è pieno della carità che Dio gli infonde e che lo spingerebbe a dare gli ultimi giorni che gli restano da vivere, pur di vedere lo spettacolo straordinario di un simile ravvedimento.
Il pianto dell'innominato
G. Mantegazza, Borromeo e l'innominato
Il discorso appassionato e vibrante del cardinale commuove profondamente l'innominato, il quale sente salire le lacrime agli occhi che, pure, non sono abituati a piangere sin dalla fanciullezza: alla fine delle parole di Federigo il bandito si copre il volto con le mani e scoppia in un pianto dirotto, che rappresenta la risposta più eloquente alle sollecitazioni del prelato. Il Borromeo ringrazia la bontà divina e alza le mani e gli occhi al cielo, facendo poi per prendere la mano dell'innominato il quale, tuttavia, lo esorta a stare lontano per non contaminare la propria mano pura e benefica con la sua macchiata del sangue di tanti innocenti; il cardinale vuole invece stringerla, certo che in futuro essa riparerà i torti compiuti, solleverà gli afflitti e si stenderà disarmata verso gli antichi nemici.
L'innominato esorta ancora Federigo a non trattenersi lì con lui, lasciando il popolo che è venuto in folla a vederlo, ma il cardinale ribatte di volere assistere la pecorella smarrita e afferma che, forse, Dio diffonde tra la gente la gioia per la conversione di cui ancora non sa nulla, aprendo poi le braccia e pregando l'innominato di accettare il suo abbraccio. Il bandito ha un attimo di esitazione, quindi abbraccia il cardinale e appoggia il volto in lacrime sulla spalla del prelato, bagnando la sua porpora mentre Federigo stringe la casacca di quell'uomo che si è macchiato di tanti atroci delitti.
L'innominato esorta ancora Federigo a non trattenersi lì con lui, lasciando il popolo che è venuto in folla a vederlo, ma il cardinale ribatte di volere assistere la pecorella smarrita e afferma che, forse, Dio diffonde tra la gente la gioia per la conversione di cui ancora non sa nulla, aprendo poi le braccia e pregando l'innominato di accettare il suo abbraccio. Il bandito ha un attimo di esitazione, quindi abbraccia il cardinale e appoggia il volto in lacrime sulla spalla del prelato, bagnando la sua porpora mentre Federigo stringe la casacca di quell'uomo che si è macchiato di tanti atroci delitti.
L'innominato rivela il rapimento di Lucia
Gustavino, L'innominato e il cardinale
L'innominato si stacca dall'abbraccio del cardinale e ringrazia Dio per la grazia ricevuta, affermando di comprendere pienamente tutta l'iniquità delle malefatte commesse e, pure, di provare una gioia e un sollievo indicibili, cosa che Federigo attribuisce alla volontà divina di favorire la sua conversione e spingerlo a riparare almeno in parte al male compiuto. Il bandito dichiara che, purtroppo, potrà solo rimpiangere molti delitti perpetrati, anche se c'è un'impresa scellerata che ha appena intrapreso e che è ancora in tempo per troncare: egli rivela al cardinale il rapimento di Lucia, descrivendo con parole di orrore tutti i patimenti della giovane e aggiungendo che è ancora prigioniera al suo castello. Il Borromeo afferma che questo è un segno del favore divino, poiché l'innominato è in grado di fare subito una buona azione, quindi domanda al bandito quale sia il paese da cui proviene la ragazza. L'innominato glielo indica e Federigo si affretta a chiamare con un campanello il cappellano crocifero, che rientra in ansia e si stupisce vedendo l'innominato con gli occhi rossi di pianto, mentre sul volto del cardinale c'è un'espressione che esprime sollecitudine e contentezza. Borromeo gli chiede se tra i parroci riuniti nella sala accanto vi sia quello del paese di Lucia e il cappellano risponde di sì, al che il prelato gli ordina di farlo venire immediatamente da loro insieme al curato del paese dove si trovano.
Il cappellano chiama don Abbondio
Il cappellano e don Abbondio (ed. 1840)
Il cappellano esce e raggiunge i curati radunati nella sala contigua, dove tutti lo guardano stupiti: egli alza le mani al cielo e afferma che c'è stato un prodigio reso possibile dall'intervento divino, quindi, dopo un attimo di silenzio, chiede che si facciano avanti il curato di quella parrocchia e quello del paese di Lucia, ovvero don Abbondio. Il primo si fa avanti senza esitazioni, mentre il secondo si limita a chiedere stupito se è stato chiamato proprio lui, al che il cappellano gli ribadisce che il cardinale vuole parlargli subito. Don Abbondio si fa avanti con passo incerto e con volto stupito e indispettito, quindi segue insieme all'altro sacerdote il cappellano che mostra una certa impazienza per tante resistenze. I tre rientrano nella sala dove si trovano l'innominato e il Borromeo, il quale si rivolge al parroco della chiesa e gli chiede di indicargli una donna assennata perché vada al castello con una lettiga a prendere Lucia, in grado di consolarla e tranquillizzarla dopo i terrori patiti. Il curato riflette un momento e poi esce, dicendo di aver trovato la persona adatta, quindi il cardinale ordina al cappellano di allestire una lettiga per il trasporto di Lucia e di far sellare due mule, al che l'uomo esce a sua volta.
Il cardinale manda don Abbondio al castello dell'innominato
L'uscita del cardinale e dell'innominato (ed. 1840)
Il cardinale si rivolge a don Abbondio, il quale gli si avvicina per deferenza e per timore dell'innominato, manifestando il suo stupore per essere stato chiamato dal prelato. Federigo lo informa che una sua parrocchiana, Lucia Mondella, si trova al castello del bandito e incarica il curato di recarsi lì insieme alla donna che il parroco del paese è andato a chiamare, per liberarla e portarla subito in salvo. Don Abbondio cerca di mascherare il disappunto per quel comando e si inchina profondamente a entrambi i presenti, quindi il Borromeo gli chiede se Lucia abbia dei parenti e il curato risponde che ha solo la madre Agnese, che si trova al loro paese. Il cardinale incarica don Abbondio di provvedere a far portare subito la donna lì con un calesse e il curato ne approfitta per proporre di andare lui stesso al paese, adducendo come pretesto la sensibilità di Agnese che, dice, potrebbe impressionarsi con un estraneo. Il cardinale ribatte che don Abbondio è più utile altrove, ovvero al castello ove dovrà consolare Lucia, anche se non scende in dettagli per non urtare l'animo dell'innominato lì presente: il prelato intuisce facilmente che don Abbondio è spaventato all'idea di viaggiare solo con il bandito, e per evitare di parlare col curato in disparte si rivolge all'innominato per mostrare l'avvenuta conversione, chiedendogli di tornare a trovarlo presto in compagnia dello stesso curato, al che l'altro promette che lo farà senz'altro in quanto bisognoso dell'assistenza spirituale del cardinale.
Don Abbondio osserva i due come uno che guardi un cane famoso per la sua ferocia, che il padrone mostra come una bestia del tutto mansueta e al quale non osa avvicinarsi, mentre rimpiange di non essere a casa propria. Il cardinale si appresta a uscire insieme al bandito e si rivolge al curato temendo che si senta trascurato, sottolineando la straordinaria conversione dell'innominato: don Abbondio ostenta la sua approvazione e fa un profondo inchino a entrambi, quindi il cardinale esce e tutti gli sguardi si concentrano su quella incredibile coppia, con Federigo che esprime gioia e compostezza, l'innominato che lascia trasparire il pentimento, la confusione e la sua indole ancora selvaggia. Don Abbondio segue i due con fare modesto, senza che nessuno noti la sua presenza.
Don Abbondio osserva i due come uno che guardi un cane famoso per la sua ferocia, che il padrone mostra come una bestia del tutto mansueta e al quale non osa avvicinarsi, mentre rimpiange di non essere a casa propria. Il cardinale si appresta a uscire insieme al bandito e si rivolge al curato temendo che si senta trascurato, sottolineando la straordinaria conversione dell'innominato: don Abbondio ostenta la sua approvazione e fa un profondo inchino a entrambi, quindi il cardinale esce e tutti gli sguardi si concentrano su quella incredibile coppia, con Federigo che esprime gioia e compostezza, l'innominato che lascia trasparire il pentimento, la confusione e la sua indole ancora selvaggia. Don Abbondio segue i due con fare modesto, senza che nessuno noti la sua presenza.
Don Abbondio e l'innominato lasciano il paese
F. Gonin, Don Abbondio e la mula
Il primo servitore del cardinale gli si avvicina e lo informa che la lettiga e le mule sono pronte, mentre il curato del paese è in arrivo con la donna che dovrà recarsi al castello con don Abbondio e l'innominato. Federigo si accommiata dal bandito con una stretta di mano e gli dice che lo aspetta di lì a poco, quindi esce per recarsi in chiesa accompagnato da tutti i parroci presenti. Don Abbondio resta solo con l'innominato, che ha il volto corrucciato al pensiero che presto potrà liberare Lucia, anche se la sua espressione riempie di paura il curato: questi si limita a guardarlo e a chiedersi cosa mai possa dirgli senza apparire villano, dubitando in cuor suo della veridicità di quella conversione incredibile. Don Abbondio pensa tra sé che avrebbe potuto evitare di recarsi lì a omaggiare il cardinale e se la prende con Perpetua che quella mattina lo ha spinto ad andare, mentre ora potrebbe essere al sicuro nella sua casa. Finalmente giungono il curato del paese e il servitore del cardinale, che informano che tutto è pronto per la partenza, al che don Abbondio incarica il parroco di provvedere a far venire lì Agnese e poi chiede all'altro di procurargli una mula quieta visto che è un cavaliere inesperto (gli viene detto che è la mula del segretario del prelato, ovvero un intellettuale poco avvezzo a cavalcare).
Don Abbondio segue poi a malincuore l'innominato nel cortiletto interno, dove il bandito riprende la sua carabina: questo gesto riempie il curato di terrore, anche se egli è abile a dissimularlo e dunque il bandito non fa nulla per rassicurarlo circa le sue paure. I due raggiungono le due mule e la lettiga, quindi montano in sella (il curato ha bisogno di aiuto per riuscire nell'operazione): la lettiga si muove, portata da due mule e da un conducente, quindi la comitiva inizia ad attraversare il paese.
Don Abbondio segue poi a malincuore l'innominato nel cortiletto interno, dove il bandito riprende la sua carabina: questo gesto riempie il curato di terrore, anche se egli è abile a dissimularlo e dunque il bandito non fa nulla per rassicurarlo circa le sue paure. I due raggiungono le due mule e la lettiga, quindi montano in sella (il curato ha bisogno di aiuto per riuscire nell'operazione): la lettiga si muove, portata da due mule e da un conducente, quindi la comitiva inizia ad attraversare il paese.
Il viaggio di don Abbondio: incertezza e paura
F. Gonin, Don Abbondio inizia il viaggio
Don Abbondio, l'innominato e la lettiga passano di fronte alla chiesa gremita di folla e attraversano una piazzetta anch'essa piena di gente, che si fa largo per il desiderio di vedere il famoso bandito la cui conversione, frattanto, si è risaputa in paese. L'innominato si toglie il cappello inchinandosi di fronte al popolo, imitato dal curato che si raccomanda al cielo ed è commosso a sentire gli altri parroci che cantano in chiesa, rammaricandosi di non poter essere insieme a loro.
Poco dopo la comitiva lascia l'abitato ed entra in aperta campagna, dove il curato è preda di cupi pensieri e rivolge lo sguardo solo al conducente della lettiga, certo che si tratti di un uomo onesto in quanto al servizio del cardinale. Vorrebbe parlare con l'innominato, anche per sincerarsi dell'avvenuto ravvedimento, ma lo vede talmente assorto nei suoi pensieri che non osa aprir bocca e inizia invece a pensare tra sé agli avvenimenti di cui è protagonista. Se la prende coi santi e i malfattori, che vogliono sempre coinvolgere nelle loro imprese le persone quiete come lui, che vorrebbe solo starsene tranquillo senza far male a nessuno; maledice don Rodrigo, che essendo ricco e potente potrebbe vivere senza pensieri e invece cerca solo di molestare le donne, volendo andare all'inferno anziché in paradiso. Guarda di sottecchi l'innominato e si chiede se si sia davvero convertito, accusandolo in cuor suo di aver commesso in passato ogni genere di delitto invece di vivere quietamente, mentre ora ha coinvolto anche lui in questa sorta di penitenza che avrebbe potuto svolgere a casa sua senza tanti schiamazzi. Don Abbondio accusa anche il cardinale di aver subito accolto il bandito a braccia aperte, credendo troppo facilmente al suo pentimento, al punto di affidargli la vita di un povero curato senza alcuna garanzia: sospetta che sia tutto un inganno e non riesce a immaginare in che modo sia coinvolta Lucia, lamentando il fatto che lo abbiano tenuto all'oscuro dei dettagli. Il curato prova pena per la ragazza e si rallegra che possa esser liberata, ma accusa anche lei in cuor suo di essere l'origine di tutti i suoi guai e vorrebbe poter leggere in cuore all'innominato per sapere come stanno realmente le cose, raccomandandosi infine al cielo.
Poco dopo la comitiva lascia l'abitato ed entra in aperta campagna, dove il curato è preda di cupi pensieri e rivolge lo sguardo solo al conducente della lettiga, certo che si tratti di un uomo onesto in quanto al servizio del cardinale. Vorrebbe parlare con l'innominato, anche per sincerarsi dell'avvenuto ravvedimento, ma lo vede talmente assorto nei suoi pensieri che non osa aprir bocca e inizia invece a pensare tra sé agli avvenimenti di cui è protagonista. Se la prende coi santi e i malfattori, che vogliono sempre coinvolgere nelle loro imprese le persone quiete come lui, che vorrebbe solo starsene tranquillo senza far male a nessuno; maledice don Rodrigo, che essendo ricco e potente potrebbe vivere senza pensieri e invece cerca solo di molestare le donne, volendo andare all'inferno anziché in paradiso. Guarda di sottecchi l'innominato e si chiede se si sia davvero convertito, accusandolo in cuor suo di aver commesso in passato ogni genere di delitto invece di vivere quietamente, mentre ora ha coinvolto anche lui in questa sorta di penitenza che avrebbe potuto svolgere a casa sua senza tanti schiamazzi. Don Abbondio accusa anche il cardinale di aver subito accolto il bandito a braccia aperte, credendo troppo facilmente al suo pentimento, al punto di affidargli la vita di un povero curato senza alcuna garanzia: sospetta che sia tutto un inganno e non riesce a immaginare in che modo sia coinvolta Lucia, lamentando il fatto che lo abbiano tenuto all'oscuro dei dettagli. Il curato prova pena per la ragazza e si rallegra che possa esser liberata, ma accusa anche lei in cuor suo di essere l'origine di tutti i suoi guai e vorrebbe poter leggere in cuore all'innominato per sapere come stanno realmente le cose, raccomandandosi infine al cielo.
L'arrivo alla Malanotte e al castello
F. Gonin, Don Abbondio e l'innominato
Intanto sul volto dell'innominato si alternano espressioni affatto opposte, che passano dal pensiero della misericordia divina alla terribile memoria del passato sanguinoso, che lo spinge a pensare quali imprese iniziate sia ancora in tempo a troncare, cosa fare dei suoi complici, quali mezzi usare per riparare i torti commessi. È impaziente all'idea di andare a liberare Lucia, anche se ha ribrezzo pensando che la poverina soffre a causa sua, per cui sollecita il conducente della lettiga ad affrettare il passo e gli indica la strada da percorrere ogni volta che si trovano a un bivio.
Di lì a poco entrano nella valle che porta al castello e don Abbondio è assalito dalla paura al ricordo delle terribili storie udite su quel luogo famigerato, specie quando iniziano a incontrare i bravi che si inchinano rispettosi al loro padrone. Il povero curato rimpiange quasi di non aver sposato Renzo e Lucia, quindi la comitiva percorre un sentiero sconnesso lungo un torrente e ben presto passa davanti alla Malanotte, sotto gli sguardi sorpresi dei bravi che non si spiegano cosa sia accaduto e, pure, non osano aprir bocca per timore dell'innominato. Il gruppo raggiunge in breve la cima della salita e, dietro l'innominato che fa da guida, la lettiga e don Abbondio entrano nel castello attraverso due cortili interni, finché arrivano a un uscio e il bandito smonta dalla mula. L'uomo la lega a un'inferriata e comanda a un bravo di non far passare nessun altro, quindi si rivolge alla donna dentro la lettiga esortandola a consolare subito Lucia, facendole capire che sta per essere liberata e consegnata a persone fidate. L'innominato si rivolge poi a don Abbondio con sguardo sereno e lo rassicura accennando all'opera di misericordia che sta per compiere, per poi aiutarlo a smontare dalla mula: il curato torna finalmente a respirare per il sollievo, anche se dissimula il suo stato d'animo e si affretta a complimentarsi con il bandito, per poi seguirlo insieme alla donna dentro il castello.
Di lì a poco entrano nella valle che porta al castello e don Abbondio è assalito dalla paura al ricordo delle terribili storie udite su quel luogo famigerato, specie quando iniziano a incontrare i bravi che si inchinano rispettosi al loro padrone. Il povero curato rimpiange quasi di non aver sposato Renzo e Lucia, quindi la comitiva percorre un sentiero sconnesso lungo un torrente e ben presto passa davanti alla Malanotte, sotto gli sguardi sorpresi dei bravi che non si spiegano cosa sia accaduto e, pure, non osano aprir bocca per timore dell'innominato. Il gruppo raggiunge in breve la cima della salita e, dietro l'innominato che fa da guida, la lettiga e don Abbondio entrano nel castello attraverso due cortili interni, finché arrivano a un uscio e il bandito smonta dalla mula. L'uomo la lega a un'inferriata e comanda a un bravo di non far passare nessun altro, quindi si rivolge alla donna dentro la lettiga esortandola a consolare subito Lucia, facendole capire che sta per essere liberata e consegnata a persone fidate. L'innominato si rivolge poi a don Abbondio con sguardo sereno e lo rassicura accennando all'opera di misericordia che sta per compiere, per poi aiutarlo a smontare dalla mula: il curato torna finalmente a respirare per il sollievo, anche se dissimula il suo stato d'animo e si affretta a complimentarsi con il bandito, per poi seguirlo insieme alla donna dentro il castello.
Temi principali e collegamenti
- Il capitolo riprende la narrazione degli eventi dopo la pausa del cap. XXII, occupato quasi interamente dalla biografia del cardinal Borromeo: l'episodio è diviso in due parti, la prima delle quali descrive il confronto tra Federigo e l'innominato che porta alla conversione del bandito, mentre la seconda ha per protagonista don Abbondio ed ha risvolti decisamente più umoristici, facendo da contrappunto ai toni drammatici di quanto narrato nei capp. precedenti. Il curato torna in scena dopo una lunga assenza, dal momento che era apparso l'ultima volta direttamente nel cap. VIII ed era stato citato nel cap. XI.
- Il drammatico confronto tra il bandito e il cardinale è il momento centrale del capitolo e, in un certo senso, dell'intero romanzo, poiché grazie alla conversione dell'innominato Lucia verrà liberata e i piani criminosi di don Rodrigo saranno sventati: il dialogo mette di fronte due personaggi di altissima statura morale, ovvero un vescovo amato dal popolo per la sua fama di santità e un malfattore famigerato per i suoi crimini, anche se in preda a una terribile crisi di coscienza e in cerca di risposte alla sua ansia interiore. L'episodio è rappresentato dall'autore con toni elevati e, tuttavia, senza eccedere nel patetico o nei risvolti stucchevoli, in quanto la conversione del bandito viene descritta come il momento finale di un percorso interiore iniziato tempo prima (lo si è visto già nel cap. XX) e giunge alla conclusione attraverso l'incontro decisivo col prelato, che qui appare come un provvidenziale inviato di Dio. Federigo assume un atteggiamento paterno e benevolo verso l'innominato, senza usare un tono predicatorio o di superiorità ma, anzi, sforzandosi di mettersi sullo stesso piano della "pecorella smarrita" con autentico spirito evangelico (Federigo appare qui non tanto come un vescovo quanto come un pastore chiamato a salvare un'anima, e in questo la sua figura è stata accostata al monsignor Myriel dei Miserabili di V. Hugo, che accoglie a braccia aperte l'ex-forzato Jean Valjean e tenta in ogni modo di redimerlo).
- Don Abbondio viene nuovamente presentato dall'autore con le consuete caratteristiche della paura e dell'egoismo, per cui il curato resta insensibile alla straordinaria conversione dell'innominato e si preoccupa solamente per se stesso, tentando anche goffamente di sottrarsi alle sue responsabilità (sul punto si veda oltre). Memorabile è il suo "monologo interiore" durante il viaggio verso il castello in compagnia del bandito, che anticipa quello di tono simile di cui sarà protagonista nel viaggio di ritorno, nel cap. XXIV. Nel Fermo e Lucia l'episodio era assai più banale e per giunta il bandito era preso da dubbi e paure circa le reazioni dei bravi, che lo inducevano a dare istruzioni al curato su come comportarsi: cfr. il brano Il soliloquio di don Abbondio.
La comicità di don Abbondio, tra egoismo e paura
F. Gonin, Don Abbondio e il cardinale
Don Abbondio ricompare nelle vicende del romanzo dopo la sequenza drammatica della conversione dell'innominato e il suo ritorno in scena avviene in un certo senso a sorpresa, con un espediente narrativo che consente all'autore, da un lato, di collegare la vicenda del rapimento di Lucia al piano dei personaggi principali della storia, dall'altro di far seguire un intermezzo "comico" a una serie di capitoli dal contenuto terribilmente serio, incentrati soprattutto sulla tragedia personale del bandito che si è infine moralmente ravveduto. Infatti il curato si ripresenta con le consuete caratteristiche di uomo pauroso e tremebondo, fin da quando risponde in modo esitante al richiamo del cappellano crocifero e lo segue con passi incerti nella stanza dove lo attende il cardinale, col quale si schermisce dicendo che, forse, hanno sbagliato a chiamare proprio lui: ci verrà poi detto che è stata Perpetua a spingerlo a venire in quel paese per rendere omaggio al prelato, cosa di cui don Abbondio si rammarica in quanto ciò ha turbato la tranquilla consuetudine della sua vita abitudinaria, oltre ad averlo messo in una situazione oggettivamente pericolosa (egli dovrà, infatti, accompagnare l'innominato al suo castello per liberare Lucia, compito al quale tenta di sottrarsi proponendo di recarsi al paese per informare Agnese dell'accaduto). Come già nei capp. precedenti emerge soprattutto il lato egoistico del personaggio, il quale vorrebbe vivere senza fastidi o eccessive responsabilità e prova astio verso tutto ciò che sembra turbare lo scorrere della sua esistenza, incurante delle sofferenze che sono spesso all'origine dei guai che capitano a lui e agli altri: lo si è già visto nel cap. I, quando il curato in seguito all'incontro coi bravi accusava tra sé Renzo e Lucia di volersi sposare ("Ragazzacci, che, per non saper che fare, s’innamorano, voglion maritarsi"), mentre a Renzo nel cap. II rimproverava di voler prendere moglie a tutti i costi ("Eh!... quando penso che stavate così bene; cosa vi mancava? V’è saltato il grillo di maritarvi..."). Atteggiamento analogo è quello che il curato mostra anche in questo capitolo, non tanto nelle deboli scuse che oppone ai comandi del cardinale, quanto nei vari "monologhi interiori" di cui è protagonista durante il viaggio al castello: già quando resta solo con l'innominato, in attesa di partire, se la prende con Perpetua accusandola di averlo messo in questa situazione imbarazzante, mentre dubita in cuor suo della sincera conversione del bandito (il suo carattere gretto gli impedisce di cogliere fino in fondo l'esperienza straordinaria della grazia che ha toccato il cuore del masnadiero, per cui resta ridicolmente attaccato al timore per la propria vita e prova fastidio per il sacrificio che gli è imposto); più avanti, lungo la strada che conduce alla fortezza, accusa fra sé il cardinale di eccessiva precipitazione nell'aver creduto al ravvedimento dell'innominato e di scarsa prudenza nell'avergli affidato la vita preziosa di un curato, dimostrando di non comprendere fino in fondo la missione sacerdotale che pure egli ha abbracciato diventando prete. Se la prende ovviamente anche con don Rodrigo, reo di non profittare della sua condizione privilegiata di nobile ma di voler "molestar le femmine" guadagnandosi la dannazione (a turbarlo non è ovviamente la salvezza del signorotto, quanto i guai che egli causa al curato con la sua condotta) e accusa in parte anche la stessa Lucia come origine delle sue traversie, benché provi una sincera pena per i patimenti della ragazza ("la compatisco; ma è nata per la mia rovina..."), arrivando poi a rimpiangere paradossalmente di non aver celebrato il matrimonio tra lei e Renzo, poiché non gli sarebbe capitato nulla di peggio rispetto al viaggio tremendo che ora deve compiere nella valle famigerata dell'innominato, in mezzo a bravi e sgherri dall'aspetto truce.
È soprattutto questo l'elemento più umoristico nel personaggio di don Abbondio, che ovviamente risalta in rapporto al cardinale, tutto pervaso di spirito evangelico e di zelo nel sollecitare la redenzione dell'innominato, ma anche in confronto con il bandito, che durante il viaggio è cupo e pensieroso all'idea di come potrà riparare il male commesso, dunque è roso da un'ansia interiore di ben diversa natura rispetto a quella, gretta ed egoistica, che prova il suo compagno di viaggio. Ciò che rende comica la figura del curato non è tanto la paura, perfettamente comprensibile e umana data la sua debolezza e l'oggettiva situazione in cui si trova (in fondo egli era giustificato anche a temere la reazione di don Rodrigo, "signore noto per non minacciare invano"), quanto la sua incapacità di provare autentica compassione per le pene altrui e il voler accampare scuse e pretesti per sfuggire le sue responsabilità, mostrando un'insincerità che contrasta con l'abito sacerdotale che indossa (la stessa attitudine lo ha portato, come si è visto, a mentire a Renzo circa i motivi per rimandare il matrimonio previsto). Sarà proprio questo il rimprovero principale che Borromeo gli rivolgerà nel colloquio dei capp. XXV-XXVI, quando il prelato metterà l'accento sulla sua vocazione non pienamente sentita e sulla sua pretesa di schivare i pericoli del mondo nascondendosi dietro l'abito religioso, cosa inaccettabile agli occhi di un uomo pieno di carità e dalla fama di santo come il cardinale: si vedrà in seguito che la responsabilità individuale di don Abbondio trova un limite in quella delle istituzioni che non lo hanno aiutato a compiere il suo dovere (la giustizia, la stessa Chiesa: cfr. l'approfondimento del cap. XXV), tuttavia è innegabile che il suo carattere gretto è l'ostacolo principale che gli impedisce di onorare fino in fondo il ruolo che ricopre ed è soprattutto questo aspetto a renderlo un uomo meschino nella sua piccolezza, una figura ridicola che fa sorridere il lettore specie quando è posto accanto a personaggi di ben più alta levatura morale, come il cardinale stesso o l'innominato. L'immagine emblematica di questa meschinità di don Abbondio è resa dalla scena a metà del cap. XXIII, quando il curato esce dalla sala dietro Borromeo e il bandito e gli occhi di tutti si concentrano sui due personaggi principali, mentre al povero don Abbondio "nessuno badò": è la condanna di un uomo moralmente insignificante che subisce gli avvenimenti del mondo e non riesce in alcun modo ad incidere su di essi, anche se ciò non sembra minimamente preoccuparlo e, anzi, la sua ambizione sarebbe proprio quella di condurre il suo "quieto vivere" lontano dai pericoli del secolo, cosa che non può fare in quanto nella visione cristiana dell'autore tutti siamo prima o poi costretti a fare i conti con le nostre responsabilità (e infatti l'egoismo di don Abbondio prende sempre il sopravvento, anche quando un'ombra di commozione o di rimorso sembra scalfirlo, come in occasione dei rimproveri che riceve dal cardinale o quando, alla fine del romanzo, potrà finalmente sposare i due promessi, dimostrando che in fin dei conti la sua indole è buona e sincero il suo affetto verso Renzo e Lucia, anche se l'attaccamento alla propria vita conserva qualcosa di istintivo e sostanzialmente insopprimibile).
Per approfondire: L. Pirandello, L'umorismo di don Abbondio; A. Spranzi, L'immoralità di don Abbondio.
È soprattutto questo l'elemento più umoristico nel personaggio di don Abbondio, che ovviamente risalta in rapporto al cardinale, tutto pervaso di spirito evangelico e di zelo nel sollecitare la redenzione dell'innominato, ma anche in confronto con il bandito, che durante il viaggio è cupo e pensieroso all'idea di come potrà riparare il male commesso, dunque è roso da un'ansia interiore di ben diversa natura rispetto a quella, gretta ed egoistica, che prova il suo compagno di viaggio. Ciò che rende comica la figura del curato non è tanto la paura, perfettamente comprensibile e umana data la sua debolezza e l'oggettiva situazione in cui si trova (in fondo egli era giustificato anche a temere la reazione di don Rodrigo, "signore noto per non minacciare invano"), quanto la sua incapacità di provare autentica compassione per le pene altrui e il voler accampare scuse e pretesti per sfuggire le sue responsabilità, mostrando un'insincerità che contrasta con l'abito sacerdotale che indossa (la stessa attitudine lo ha portato, come si è visto, a mentire a Renzo circa i motivi per rimandare il matrimonio previsto). Sarà proprio questo il rimprovero principale che Borromeo gli rivolgerà nel colloquio dei capp. XXV-XXVI, quando il prelato metterà l'accento sulla sua vocazione non pienamente sentita e sulla sua pretesa di schivare i pericoli del mondo nascondendosi dietro l'abito religioso, cosa inaccettabile agli occhi di un uomo pieno di carità e dalla fama di santo come il cardinale: si vedrà in seguito che la responsabilità individuale di don Abbondio trova un limite in quella delle istituzioni che non lo hanno aiutato a compiere il suo dovere (la giustizia, la stessa Chiesa: cfr. l'approfondimento del cap. XXV), tuttavia è innegabile che il suo carattere gretto è l'ostacolo principale che gli impedisce di onorare fino in fondo il ruolo che ricopre ed è soprattutto questo aspetto a renderlo un uomo meschino nella sua piccolezza, una figura ridicola che fa sorridere il lettore specie quando è posto accanto a personaggi di ben più alta levatura morale, come il cardinale stesso o l'innominato. L'immagine emblematica di questa meschinità di don Abbondio è resa dalla scena a metà del cap. XXIII, quando il curato esce dalla sala dietro Borromeo e il bandito e gli occhi di tutti si concentrano sui due personaggi principali, mentre al povero don Abbondio "nessuno badò": è la condanna di un uomo moralmente insignificante che subisce gli avvenimenti del mondo e non riesce in alcun modo ad incidere su di essi, anche se ciò non sembra minimamente preoccuparlo e, anzi, la sua ambizione sarebbe proprio quella di condurre il suo "quieto vivere" lontano dai pericoli del secolo, cosa che non può fare in quanto nella visione cristiana dell'autore tutti siamo prima o poi costretti a fare i conti con le nostre responsabilità (e infatti l'egoismo di don Abbondio prende sempre il sopravvento, anche quando un'ombra di commozione o di rimorso sembra scalfirlo, come in occasione dei rimproveri che riceve dal cardinale o quando, alla fine del romanzo, potrà finalmente sposare i due promessi, dimostrando che in fin dei conti la sua indole è buona e sincero il suo affetto verso Renzo e Lucia, anche se l'attaccamento alla propria vita conserva qualcosa di istintivo e sostanzialmente insopprimibile).
Per approfondire: L. Pirandello, L'umorismo di don Abbondio; A. Spranzi, L'immoralità di don Abbondio.
Clicca qui per ascoltare l'audio del capitolo dal sito www.liberliber.it
(voce narrante di Silvia Cecchini).
Capitolo XXIII
Il cardinal Federigo, intanto che aspettava l’ora d’andar in chiesa a celebrar gli ufizi divini [1], stava studiando, com’era solito di fare in tutti i ritagli di tempo; quando entrò il cappellano crocifero, con un viso alterato.
- Una strana visita, strana davvero, monsignore illustrissimo! - Chi è? - domandò il cardinale. - Niente meno che il signor... - riprese il cappellano- e spiccando le sillabe con una gran significazione, proferì quel nome che noi non possiamo scrivere ai nostri lettori. Poi soggiunse: - è qui fuori in persona; e chiede nient’altro che d’esser introdotto da vossignoria illustrissima. - Lui! - disse il cardinale, con un viso animato, chiudendo il libro, e alzandosi da sedere: - venga! venga subito! - Ma... - replicò il cappellano, senza moversi: - vossignoria illustrissima deve sapere chi è costui: quel bandito, quel famoso... - E non è una fortuna per un vescovo, che a un tal uomo sia nata la volontà di venirlo a trovare? - Ma... - insistette il cappellano: - noi non possiamo mai parlare di certe cose, perché monsignore dice che le son ciance: però quando viene il caso, mi pare che sia un dovere... Lo zelo fa de’ nemici, monsignore; e noi sappiamo positivamente che più d’un ribaldo ha osato vantarsi che, un giorno o l’altro... [2] - E che hanno fatto? - interruppe il cardinale. - Dico che costui è un appaltatore di delitti, un disperato, che tiene corrispondenza co’ disperati più furiosi, e che può esser mandato... - Oh, che disciplina è codesta, - interruppe ancora sorridendo Federigo, - che i soldati esortino il generale ad aver paura? - Poi, divenuto serio e pensieroso, riprese: - san Carlo non si sarebbe trovato nel caso di dibattere se dovesse ricevere un tal uomo: sarebbe andato a cercarlo. Fatelo entrar subito: ha già aspettato troppo. Il cappellano si mosse, dicendo tra sé: “non c’è rimedio: tutti questi santi sono ostinati”. Aperto l’uscio, e affacciatosi alla stanza dov’era il signore e la brigata, vide questa ristretta in una parte, a bisbigliare e a guardar di sott’occhio quello, lasciato solo in un canto. S’avviò verso di lui; e intanto squadrandolo, come poteva, con la coda dell’occhio, andava pensando che diavolo d’armeria poteva esser nascosta sotto quella casacca; e che, veramente, prima d’introdurlo, avrebbe dovuto proporgli almeno... [3] ma non si seppe risolvere. Gli s’accostò, e disse: - monsignore aspetta vossignoria. Si contenti di venir con me -. E precedendolo in quella piccola folla, che subito fece ala, dava a destra e a sinistra occhiate, le quali significavano: cosa volete? non lo sapete anche voi altri, che fa sempre a modo suo? Appena introdotto l’innominato, Federigo gli andò incontro, con un volto premuroso e sereno, e con le braccia aperte, come a una persona desiderata, e fece subito cenno al cappellano che uscisse: il quale ubbidì. I due rimasti stettero alquanto senza parlare, e diversamente sospesi. L’innominato, ch’era stato come portato lì per forza da una smania inesplicabile, piuttosto che condotto da un determinato disegno, ci stava anche come per forza, straziato da due passioni opposte, quel desiderio e quella speranza confusa di trovare un refrigerio al tormento interno, e dall’altra parte una stizza, una vergogna di venir lì come un pentito, come un sottomesso, come un miserabile, a confessarsi in colpa, a implorare un uomo: e non trovava parole, né quasi ne cercava. Però, alzando gli occhi in viso a quell’uomo, si sentiva sempre più penetrare da un sentimento di venerazione imperioso insieme e soave, che, aumentando la fiducia, mitigava il dispetto, e senza prender l’orgoglio di fronte, l’abbatteva, e, dirò così, gl’imponeva silenzio. La presenza di Federigo era infatti di quelle che annunziano una superiorità, e la fanno amare. Il portamento era naturalmente composto, e quasi involontariamente maestoso, non incurvato né impigrito punto dagli anni; l’occhio grave e vivace, la fronte serena e pensierosa; con la canizie [4], nel pallore, tra i segni dell’astinenza, della meditazione, della fatica, una specie di floridezza verginale: tutte le forme del volto indicavano che, in altre età, c’era stata quella che più propriamente si chiama bellezza; l’abitudine de’ pensieri solenni e benevoli, la pace interna d’una lunga vita, l’amore degli uomini, la gioia continua d’una speranza ineffabile, vi avevano sostituita una, direi quasi, bellezza senile, che spiccava ancor più in quella magnifica semplicità della porpora. Tenne anche lui, qualche momento, fisso nell’aspetto dell’innominato il suo sguardo penetrante, ed esercitato da lungo tempo a ritrarre dai sembianti i pensieri; e, sotto a quel fosco e a quel turbato, parendogli di scoprire sempre più qualcosa di conforme alla speranza da lui concepita al primo annunzio d’una tal visita, tutt’animato, - oh! - disse: - che preziosa visita è questa! e quanto vi devo esser grato d’una sì buona risoluzione; quantunque per me abbia un po’ del rimprovero! - Rimprovero! - esclamò il signore maravigliato, ma raddolcito da quelle parole e da quel fare, e contento che il cardinale avesse rotto il ghiaccio, e avviato un discorso qualunque. - Certo, m’è un rimprovero, - riprese questo, - ch’io mi sia lasciato prevenir da voi; quando, da tanto tempo, tante volte, avrei dovuto venir da voi io. - Da me, voi! Sapete chi sono? V’hanno detto bene il mio nome? - E questa consolazione ch’io sento, e che, certo, vi si manifesta nel mio aspetto, vi par egli ch’io dovessi provarla all’annunzio, alla vista d’uno sconosciuto? Siete voi che me la fate provare; voi, dico, che avrei dovuto cercare; voi che almeno ho tanto amato e pianto, per cui ho tanto pregato; voi, de’ miei figli, che pure amo tutti e di cuore, quello che avrei più desiderato d’accogliere e d’abbracciare, se avessi creduto di poterlo sperare. Ma Dio sa fare Egli solo le maraviglie, e supplisce alla debolezza, alla lentezza de’ suoi poveri servi. L’innominato stava attonito a quel dire così infiammato, a quelle parole, che rispondevano tanto risolutamente a ciò che non aveva ancor detto, né era ben determinato di dire; e commosso ma sbalordito, stava in silenzio. - E che? - riprese, ancor più affettuosamente, Federigo: - voi avete una buona nuova da darmi, e me la fate tanto sospirare? - Una buona nuova, io? Ho l’inferno nel cuore; e vi darò una buona nuova? Ditemi voi, se lo sapete, qual è questa buona nuova che aspettate da un par mio. - Che Dio v’ha toccato il cuore, e vuol farvi suo, - rispose pacatamente il cardinale. - Dio! Dio! Dio! Se lo vedessi! Se lo sentissi! Dov’è questo Dio? - Voi me lo domandate? voi? E chi più di voi l’ha vicino? Non ve lo sentite in cuore, che v’opprime, che v’agita, che non vi lascia stare, e nello stesso tempo v’attira, vi fa presentire una speranza di quiete, di consolazione, d’una consolazione che sarà piena, immensa, subito che voi lo riconosciate, lo confessiate, l’imploriate? - Oh, certo! ho qui qualche cosa che m’opprime, che mi rode! Ma Dio! Se c’è questo Dio, se è quello che dicono, cosa volete che faccia di me? Queste parole furon dette con un accento disperato; ma Federigo, con un tono solenne, come di placida ispirazione, rispose: - cosa può far Dio di voi? cosa vuol farne? Un segno della sua potenza e della sua bontà: vuol cavar da voi una gloria che nessun altro gli potrebbe dare. Che il mondo gridi da tanto tempo contro di voi, che mille e mille voci detestino le vostre opere... - (l’innominato si scosse, e rimase stupefatto un momento nel sentir quel linguaggio così insolito, più stupefatto ancora di non provarne sdegno, anzi quasi un sollievo); - che gloria, - proseguiva Federigo, - ne viene a Dio? Son voci di terrore, son voci d’interesse; voci forse anche di giustizia, ma d’una giustizia così facile, così naturale! alcune forse, pur troppo, d’invidia di codesta vostra sciagurata potenza, di codesta, fino ad oggi, deplorabile sicurezza d’animo. Ma quando voi stesso sorgerete a condannare la vostra vita, ad accusar voi stesso, allora! allora Dio sarà glorificato! E voi domandate cosa Dio possa far di voi? Chi son io pover’uomo, che sappia dirvi fin d’ora che profitto possa ricavar da voi un tal Signore? cosa possa fare di codesta volontà impetuosa, di codesta imperturbata costanza, quando l’abbia animata, infiammata d’amore, di speranza, di pentimento? Chi siete voi, pover’uomo, che vi pensiate d’aver saputo da voi immaginare e fare cose più grandi nel male, che Dio non possa farvene volere e operare nel bene? Cosa può Dio far di voi? E perdonarvi? e farvi salvo? e compire in voi l’opera della redenzione? Non son cose magnifiche e degne di Lui? Oh pensate! se io omiciattolo, io miserabile, e pur così pieno di me stesso, io qual mi sono, mi struggo ora tanto della vostra salute, che per essa darei con gaudio (Egli m’è testimonio) questi pochi giorni che mi rimangono; oh pensate! quanta, quale debba essere la carità di Colui che m’infonde questa [5] così imperfetta, ma così viva; come vi ami, come vi voglia Quello che mi comanda e m’ispira un amore per voi che mi divora! A misura che [6] queste parole uscivan dal suo labbro, il volto, lo sguardo, ogni moto ne spirava il senso. La faccia del suo ascoltatore, di stravolta e convulsa, si fece da principio attonita e intenta; poi si compose a una commozione più profonda e meno angosciosa; i suoi occhi, che dall’infanzia più non conoscevan le lacrime, si gonfiarono; quando le parole furon cessate, si coprì il viso con le mani, e diede in un dirotto pianto, che fu come l’ultima e più chiara risposta. - Dio grande e buono! - esclamò Federigo, alzando gli occhi e le mani al cielo: - che ho mai fatto io, servo inutile, pastore sonnolento, perche Voi mi chiamaste a questo convito di grazia [7], perche mi faceste degno d’assistere a un sì giocondo prodigio! - Così dicendo, stese la mano a prender quella dell’innominato. - No! - gridò questo, - no! lontano, lontano da me voi: non lordate quella mano innocente e benefica. Non sapete tutto ciò che ha fatto questa che volete stringere. - Lasciate, - disse Federigo, prendendola con amorevole violenza, - lasciate ch’io stringa codesta mano che riparerà tanti torti, che spargerà tante beneficenze, che solleverà tanti afflitti, che si stenderà disarmata, pacifica, umile a tanti nemici. - È troppo! - disse, singhiozzando, l’innominato. - Lasciatemi, monsignore; buon Federigo, lasciatemi. Un popolo affollato v’aspetta; tant’anime buone, tant’innocenti, tanti venuti da lontano, per vedervi una volta, per sentirvi: e voi vi trattenete... con chi! - Lasciamo le novantanove pecorelle, - rispose il cardinale: - sono in sicuro sul monte: io voglio ora stare con quella ch’era smarrita [8]. Quell’anime son forse ora ben più contente, che di vedere questo povero vescovo. Forse Dio, che ha operato in voi il prodigio della misericordia, diffonde in esse una gioia di cui non sentono ancora la cagione. Quel popolo è forse unito a noi senza saperlo: forse lo Spirito mette ne’ loro cuori un ardore indistinto di carità, una preghiera ch’esaudisce per voi, un rendimento di grazie di cui voi siete l’oggetto non ancor conosciuto -. Così dicendo, stese le braccia al collo dell’innominato; il quale, dopo aver tentato di sottrarsi, e resistito un momento, cedette, come vinto da quell’impeto di carità, abbracciò anche lui il cardinale, e abbandonò sull’omero di lui il suo volto tremante e mutato. Le sue lacrime ardenti cadevano sulla porpora incontaminata di Federigo; e le mani incolpevoli di questo stringevano affettuosamente quelle membra, premevano quella casacca, avvezza a portar l’armi della violenza e del tradimento. L’innominato, sciogliendosi da quell’abbraccio, si coprì di nuovo gli occhi con una mano, e, alzando insieme la faccia, esclamò: - Dio veramente grande! Dio veramente buono! io mi conosco ora, comprendo chi sono; le mie iniquità mi stanno davanti; ho ribrezzo di me stesso; eppure...! eppure provo un refrigerio, una gioia, sì una gioia, quale non ho provata mai in tutta questa mia orribile vita! È un saggio, - disse Federigo, - che Dio vi dà per cattivarvi al suo servizio, per animarvi ad entrar risolutamente nella nuova vita in cui avrete tanto da disfare, tanto da riparare, tanto da piangere! - Me sventurato! - esclamò il signore, - quante, quante... cose, le quali non potrò se non piangere! Ma almeno ne ho d’intraprese, d’appena avviate, che posso, se non altro, rompere a mezzo: una ne ho, che posso romper subito, disfare, riparare. Federigo si mise in attenzione; e l’innominato raccontò brevemente, ma con parole d’esecrazione anche più forti di quelle che abbiamo adoprato noi, la prepotenza fatta a Lucia, i terrori, i patimenti della poverina, e come aveva implorato, e la smania che quell’implorare aveva messa addosso a lui, e come essa era ancor nel castello... - Ah, non perdiam tempo! - esclamò Federigo, ansante di pietà e di sollecitudine. - Beato voi! Questo è pegno del perdono di Dio! far che possiate diventare strumento di salvezza a chi volevate esser di rovina. Dio vi benedica! Dio v’ha benedetto! Sapete di dove sia questa povera nostra travagliata? Il signore nominò il paese di Lucia. - Non è lontano di qui, - disse il cardinale: - lodato sia Dio; e probabilmente... - Così dicendo, corse a un tavolino, e scosse un campanello. E subito entrò con ansietà il cappellano crocifero, e per la prima cosa, guardò l’innominato; e vista quella faccia mutata, e quegli occhi rossi di pianto, guardò il cardinale; e sotto quell’inalterabile compostezza, scorgendogli in volto come un grave contento, e una premura quasi impaziente, era per rimanere estatico con la bocca aperta, se il cardinale non l’avesse subito svegliato da quella contemplazione, domandandogli se, tra i parrochi radunati lì, si trovasse quello di ***. - C’è, monsignore illustrissimo, - rispose il cappellano. - Fatelo venir subito, - disse Federigo, - e con lui il parroco qui della chiesa. Il cappellano uscì, e andò nella stanza dov’eran que’ preti riuniti: tutti gli occhi si rivolsero a lui. Lui, con la bocca tuttavia aperta, col viso ancor tutto dipinto di quell’estasi, alzando le mani, e movendole per aria, disse: - signori! signori! haec mutatio dexterae Excelsi- [9]. E stette un momento senza dir altro. Poi, ripreso il tono e la voce della carica, soggiunse: - sua signoria illustrissima e reverendissima vuole il signor curato della parrocchia, e il signor curato di ***. Il primo chiamato venne subito avanti, e nello stesso tempo, uscì di mezzo alla folla un: - io? - strascicato, con un’intonazione di maraviglia. - Non è lei il signor curato di ***? - riprese il cappellano. - Per l’appunto; ma... - Sua signoria illustrissima e reverendissima vuol lei. - Me? - disse ancora quella voce, significando chiaramente in quel monosillabo: come ci posso entrar io? Ma questa volta, insieme con la voce, venne fuori l’uomo, don Abbondio in persona, con un passo forzato, e con un viso tra l’attonito e il disgustato. Il cappellano gli fece un cenno con la mano, che voleva dire: a noi, andiamo; ci vuol tanto? E precedendo i due curati, andò all’uscio, l’aprì, e gl’introdusse. Il cardinale lasciò andar la mano dell’innominato, col quale intanto aveva concertato quello che dovevan fare; si discostò un poco, e chiamò con un cenno il curato della chiesa. Gli disse in succinto di che si trattava; e se saprebbe trovar subito una buona donna che volesse andare in una lettiga [10] al castello, a prender Lucia: una donna di cuore e di testa, da sapersi ben governare in una spedizione così nuova [11], e usar le maniere più a proposito, trovar le parole più adattate, a rincorare, a tranquillizzare quella poverina, a cui, dopo tante angosce, e in tanto turbamento, la liberazione stessa poteva metter nell’animo una nuova confusione. Pensato un momento, il curato disse che aveva la persona a proposito, e uscì. Il cardinale chiamò con un altro cenno il cappellano, al quale ordinò che facesse preparare subito la lettiga e i lettighieri, e sellare due mule. Uscito anche il cappellano, si voltò a don Abbondio. Questo, che già gli era vicino, per tenersi lontano da quell’altro signore, e che intanto dava un’occhiatina di sotto in su ora all’uno ora all’altro, seguitando a almanaccar tra sé che cosa mai potesse essere tutto quel rigirìo, s’accostò di più, fece una riverenza, e disse: - m’hanno significato che vossignoria illustrissima mi voleva me; ma io credo che abbiano sbagliato. - Non hanno sbagliato, - rispose Federigo: - ho una buona nuova da darvi, e un consolante, un soavissimo incarico. Una vostra parrocchiana, che avrete pianta per ismarrita, Lucia Mondella, è ritrovata, è qui vicino, in casa di questo mio caro amico; e voi anderete ora con lui, e con una donna che il signor curato di qui è andato a cercare, anderete, dico, a prendere quella vostra creatura, e l’accompagnerete qui. Don Abbondio fece di tutto per nascondere la noia, che dico? l’affanno e l’amaritudine [12] che gli dava una tale proposta, o comando che fosse; e non essendo più a tempo a sciogliere e a scomporre un versaccio già formato sulla sua faccia, lo nascose, chinando profondamente la testa, in segno d’ubbidienza. E non l’alzò che per fare un altro profondo inchino all’innominato, con un’occhiata pietosa che diceva: sono nelle vostre mani: abbiate misericordia: parcere subjectis [13]. Gli domandò poi il cardinale, che parenti avesse Lucia. - Di stretti, e con cui viva, o vivesse, non ha che la madre, - rispose don Abbondio. - E questa si trova al suo paese? - Monsignor, sì. - Giacché, - riprese Federigo, - quella povera giovine non potrà esser così presto restituita a casa sua, le sarà una gran consolazione di veder subito la madre: quindi, se il signor curato di qui non torna prima ch’io vada in chiesa, fatemi voi il piacere di dirgli che trovi un baroccio o una cavalcatura; e spedisca un uomo di giudizio a cercar quella donna, per condurla qui. - E se andassi io? - disse don Abbondio. - No, no, voi: v’ho già pregato d’altro, - rispose il cardinale. - Dicevo, - replicò don Abbondio, - per disporre quella povera madre. È una donna molto sensitiva [14]; e ci vuole uno che la conosca, e la sappia prendere per il suo verso, per non farle male in vece di bene. - E per questo, vi prego d’avvertire il signor curato che scelga un uomo di proposito: voi siete molto più necessario altrove, - rispose il cardinale. E avrebbe voluto dire: quella povera giovine ha molto più bisogno di veder subito una faccia conosciuta, una persona sicura, in quel castello, dopo tant’ore di spasimo, e in una terribile oscurità dell’avvenire. Ma questa non era ragione da dirsi così chiaramente davanti a quel terzo. Parve però strano al cardinale che don Abbondio non l’avesse intesa per aria, anzi pensata da sé; e così fuor di luogo gli parve la proposta e l’insistenza, che pensò doverci esser sotto qualche cosa. Lo guardò in viso, e vi scoprì facilmente la paura di viaggiare con quell’uomo tremendo, d’andare in quella casa, anche per pochi momenti. Volendo quindi dissipare affatto quell’ombre codarde, e non piacendogli di tirare in disparte il curato e di bisbigliar con lui in segreto, mentre il suo nuovo amico era lì in terzo, pensò che il mezzo più opportuno era di far ciò che avrebbe fatto anche senza questo motivo, parlare all’innominato medesimo; e dalle sue risposte don Abbondio intenderebbe finalmente che quello non era più uomo da averne paura. S’avvicinò dunque all’innominato, e con quell’aria di spontanea confidenza, che si trova in una nuova e potente affezione, come in un’antica intrinsichezza, - non crediate, - gli disse, - ch’io mi contenti di questa visita per oggi. Voi tornerete, n’è vero? in compagnia di questo ecclesiastico dabbene? - S’io tornerò? - rispose l’innominato: - quando voi mi rifiutaste, rimarrei ostinato alla vostra porta, come il povero. Ho bisogno di parlarvi! ho bisogno di sentirvi, di vedervi! ho bisogno di voi! Federigo gli prese la mano, gliela strinse, e disse: - favorirete dunque di restare a desinare con noi. V’aspetto. Intanto, io vo a pregare, e a render grazie col popolo; e voi a cogliere i primi frutti della misericordia. Don Abbondio, a quelle dimostrazioni, stava come un ragazzo pauroso, che veda uno accarezzar con sicurezza un suo cagnaccio grosso, rabbuffato, con gli occhi rossi, con un nomaccio famoso per morsi e per ispaventi, e senta dire al padrone che il suo cane è un buon bestione, quieto, quieto: guarda il padrone, e non contraddice né approva; guarda il cane, e non ardisce accostarglisi, per timore che il buon bestione non gli mostri i denti, fosse anche per fargli le feste; non ardisce allontanarsi, per non farsi scorgere; e dice in cuor suo: oh se fossi a casa mia! Al cardinale, che s’era mosso per uscire, tenendo sempre per la mano e conducendo seco l’innominato, diede di nuovo nell’occhio il pover’uomo, che rimaneva indietro, mortificato, malcontento, facendo il muso senza volerlo. E pensando che forse quel dispiacere gli potesse anche venire dal parergli d’esser trascurato, e come lasciato in un canto, tanto più in paragone d’un facinoroso così ben accolto, così accarezzato, se gli voltò nel passare, si fermò un momento, e con un sorriso amorevole, gli disse: - signor curato, voi siete sempre con me nella casa del nostro buon Padre; ma questo... questo perierat, et inventus est [15]. - Oh quanto me ne rallegro! - disse don Abbondio, facendo una gran riverenza a tutt’e due in comune. L’arcivescovo andò avanti, spinse l’uscio, che fu subito spalancato di fuori da due servitori, che stavano uno di qua e uno di là: e la mirabile coppia apparve agli sguardi bramosi del clero raccolto nella stanza. Si videro que’ due volti sui quali era dipinta una commozione diversa, ma ugualmente profonda; una tenerezza riconoscente, un’umile gioia nell’aspetto venerabile di Federigo; in quello dell’innominato, una confusione temperata di conforto, un nuovo pudore, una compunzione, dalla quale però traspariva tuttavia il vigore di quella selvaggia e risentita natura. E si seppe poi, che a più d’uno de’ riguardanti era allora venuto in mente quel detto d’Isaia: il lupo e l’agnello andranno ad un pascolo; il leone e il bue mangeranno insieme lo strame [16]. Dietro veniva don Abbondio, a cui nessuno badò. Quando furono nel mezzo della stanza, entrò dall’altra parte l’aiutante di camera [17] del cardinale, e gli s’accostò, per dirgli che aveva eseguiti gli ordini comunicatigli dal cappellano; che la lettiga e le due mule eran preparate, e s’aspettava soltanto la donna che il curato avrebbe condotta. Il cardinale gli disse che, appena arrivato questo, lo facesse parlar subito con don Abbondio: e tutto poi fosse agli ordini di questo e dell’innominato; al quale strinse di nuovo la mano, in atto di commiato, dicendo: - v’aspetto -. Si voltò a salutar don Abbondio, e s’avviò dalla parte che conduceva alla chiesa. Il clero gli andò dietro, tra in folla e in processione: i due compagni di viaggio rimasero soli nella stanza. Stava l’innominato tutto raccolto in sé, pensieroso, impaziente che venisse il momento d’andare a levar di pene e di carcere la sua Lucia: sua ora in un senso così diverso da quello che lo fosse il giorno avanti: e il suo viso esprimeva un’agitazione concentrata, che all’occhio ombroso di don Abbondio poteva facilmente parere qualcosa di peggio. Lo sogguardava, avrebbe voluto attaccare un discorso amichevole; ma, “cosa devo dirgli? - pensava: - devo dirgli ancora: mi rallegro? Mi rallegro di che? che essendo stato finora un demonio, vi siate finalmente risoluto di diventare un galantuomo come gli altri? Bel complimento! Eh eh eh! in qualunque maniera io le rigiri, le congratulazioni non vorrebbero dir altro che questo. E se sarà poi vero che sia diventato galantuomo: così a un tratto! Delle dimostrazioni se ne fanno tante a questo mondo, e per tante cagioni! Che so io, alle volte? E intanto mi tocca a andar con lui! in quel castello! Oh che storia! che storia! che storia! Chi me l’avesse detto stamattina! Ah, se posso uscirne a salvamento, m’ha da sentire la signora Perpetua, d’avermi cacciato qui per forza, quando non c’era necessità, fuor della mia pieve [18]: e che tutti i parrochi d’intorno accorrevano, anche più da lontano; e che non bisognava stare indietro; e che questo, e che quest’altro; e imbarcarmi in un affare di questa sorte! Oh povero me! Eppure qualcosa bisognerà dirgli a costui”. E pensa e ripensa, aveva trovato che gli avrebbe potuto dire: non mi sarei mai aspettato questa fortuna d’incontrarmi in una così rispettabile compagnia; e stava per aprir bocca, quando entrò l’aiutante di camera, col curato del paese, il quale annunziò che la donna era pronta nella lettiga; e poi si voltò a don Abbondio, per ricevere da lui l’altra commissione del cardinale. Don Abbondio se ne sbrigò come poté, in quella confusione di mente; e accostatosi poi all’aiutante, gli disse: - mi dia almeno una bestia quieta; perché, dico la verità, sono un povero cavalcatore. - Si figuri, - rispose l’aiutante, con un mezzo sogghigno: - è la mula del segretario, che è un letterato. - Basta... - replicò don Abbondio, e continuò pensando: “il cielo me la mandi buona”. Il signore s’era incamminato di corsa, al primo avviso: arrivato all’uscio, s’accorse di don Abbondio, ch’era rimasto indietro. Si fermò ad aspettarlo; e quando questo arrivò frettoloso, in aria di chieder perdono, l’inchinò, e lo fece passare avanti, con un atto cortese e umile: cosa che raccomodò alquanto lo stomaco al povero tribolato. Ma appena messo piede nel cortiletto, vide un’altra novità che gli guastò quella poca consolazione; vide l’innominato andar verso un canto, prender per la canna, con una mano, la sua carabina, poi per la cigna con l’altra, e, con un movimento spedito, come se facesse l’esercizio, mettersela ad armacollo. “Ohi! ohi! ohi! - pensò don Abbondio: - cosa vuol farne di quell’ordigno, costui? Bel cilizio [19], bella disciplina da convertito! E se gli salta qualche grillo? Oh che spedizione! oh che spedizione!” Se quel signore avesse potuto appena sospettare che razza di pensieri passavano per la testa al suo compagno, non si può dire cosa avrebbe fatto per rassicurarlo; ma era lontano le mille miglia da un tal sospetto; e don Abbondio stava attento a non far nessun atto che significasse chiaramente: non mi fido di vossignoria. Arrivati all’uscio di strada, trovarono le due cavalcature in ordine: l’innominato saltò su quella che gli fu presentata da un palafreniere. - Vizi non ne ha? - disse all’aiutante di camera don Abbondio, rimettendo in terra il piede, che aveva già alzato verso la staffa. - Vada pur su di buon animo: è un agnello -. Don Abbondio, arrampicandosi alla sella, sorretto dall’aiutante, su, su, su, è a cavallo. La lettiga, ch’era innanzi qualche passo, portata da due mule, si mosse, a una voce del lettighiero; e la comitiva partì. Si doveva passar davanti alla chiesa piena zeppa di popolo, per una piazzetta piena anch’essa d’altro popolo del paese e forestieri, che non avevan potuto entrare in quella. Già la gran nuova era corsa; e all’apparir della comitiva, all’apparir di quell’uomo, oggetto ancor poche ore prima di terrore e d’esecrazione, ora di lieta maraviglia, s’alzò nella folla un mormorìo quasi d’applauso; e facendo largo, si faceva insieme alle spinte, per vederlo da vicino. La lettiga passò, l’innominato passò; e davanti alla porta spalancata della chiesa, si levò il cappello, e chinò quella fronte tanto temuta, fin sulla criniera della mula, tra il susurro di cento voci che dicevano: Dio la benedica! Don Abbondio si levò anche lui il cappello, si chinò, si raccomandò al cielo; ma sentendo il concerto solenne de’ suoi confratelli che cantavano a distesa, provò un’invidia, una mesta tenerezza, un accoramento tale, che durò fatica a tener le lacrime. Fuori poi dell’abitato, nell’aperta campagna, negli andirivieni talvolta affatto deserti della strada, un velo più nero si stese sui suoi pensieri. Altro oggetto non aveva su cui riposar con fiducia lo sguardo, che il lettighiero, il quale, essendo al servizio del cardinale, doveva essere certamente un uomo dabbene, e insieme non aveva aria d’imbelle. Ogni tanto, comparivano viandanti, anche a comitive, che accorrevano per vedere il cardinale; ed era un ristoro per don Abbondio; ma passeggiero, ma s’andava verso quella valle tremenda, dove non s’incontrerebbe che sudditi dell’amico: e che sudditi! Con l’amico avrebbe desiderato ora più che mai d’entrare in discorso, tanto per tastarlo sempre più, come per tenerlo in buona; ma vedendolo così soprappensiero, gliene passava la voglia. Dovette dunque parlar con se stesso; ed ecco una parte di ciò che il pover’uomo si disse in quel tragitto: ché, a scriver tutto, ci sarebbe da farne un libro. “È un gran dire che tanto i santi come i birboni gli abbiano a aver l’argento vivo addosso, e non si contentino d’esser sempre in moto loro, ma voglian tirare in ballo, se potessero, tutto il genere umano; e che i più faccendoni mi devan proprio venire a cercar me, che non cerco nessuno, e tirarmi per i capelli ne’ loro affari: io che non chiedo altro che d’esser lasciato vivere! Quel matto birbone di don Rodrigo! Cosa gli mancherebbe per esser l’uomo il più felice di questo mondo, se avesse appena un pochino di giudizio? Lui ricco, lui giovine, lui rispettato, lui corteggiato: gli dà noia il bene stare; e bisogna che vada accattando guai per sé e per gli altri. Potrebbe far l’arte di Michelaccio [20]; no signore: vuol fare il mestiere di molestar le femmine: il più pazzo, il più ladro, il più arrabbiato mestiere di questo mondo; potrebbe andare in paradiso in carrozza, e vuol andare a casa del diavolo a piè zoppo. E costui...!” E qui lo guardava, come se avesse sospetto che quel costui sentisse i suoi pensieri, “costui, dopo aver messo sottosopra il mondo con le scelleratezze, ora lo mette sottosopra con la conversione... se sarà vero. Intanto tocca a me a farne l’esperienza!... È finita: quando son nati con quella smania in corpo, bisogna che faccian sempre fracasso. Ci vuol tanto a fare il galantuomo tutta la vita, com’ho fatt’io? No signore: si deve squartare, ammazzare, fare il diavolo... oh povero me!... e poi uno scompiglio, anche per far penitenza. La penitenza, quando s’ha buona volontà, si può farla a casa sua, quietamente, senza tant’apparato, senza dar tant’incomodo al prossimo. E sua signoria illustrissima, subito subito, a braccia aperte, caro amico, amico caro; stare a tutto quel che gli dice costui, come se l’avesse visto far miracoli; e prendere addirittura una risoluzione, mettercisi dentro con le mani e co’ piedi, presto di qua, presto di là: a casa mia si chiama precipitazione. E senza avere una minima caparra, dargli in mano un povero curato! questo si chiama giocare un uomo a pari e caffo [21]. Un vescovo santo, com’è lui, de’ curati dovrebbe esserne geloso, come della pupilla degli occhi suoi. Un pochino di flemma, un pochino di prudenza, un pochino di carità, mi pare che possa stare anche con la santità... E se fosse tutto un’apparenza? Chi può conoscer tutti i fini degli uomini? e dico degli uomini come costui? A pensare che mi tocca a andar con lui, a casa sua! Ci può esser sotto qualche diavolo: oh povero me! è meglio non ci pensare. Che imbroglio è questo di Lucia? Che ci fosse un’intesa con don Rodrigo? che gente! ma almeno la cosa sarebbe chiara. Ma come l’ha avuta nell’unghie costui? Chi lo sa? È tutto un segreto con monsignore: e a me che mi fanno trottare in questa maniera, non si dice nulla. Io non mi curo di sapere i fatti degli altri; ma quando uno ci ha a metter la pelle, ha anche ragione di sapere. Se fosse proprio per andare a prendere quella povera creatura, pazienza! Benché, poteva ben condurla con sé addirittura. E poi, se è così convertito, se è diventato un santo padre, che bisogno c’era di me? Oh che caos! Basta; voglia il cielo che la sia così: sarà stato un incomodo grosso, ma pazienza! Sarò contento anche per quella povera Lucia: anche lei deve averla scampata grossa; sa il cielo cos’ha patito: la compatisco; ma è nata per la mia rovina... Almeno potessi vedergli proprio in cuore a costui, come la pensa. Chi lo può conoscere? Ecco lì, ora pare sant’Antonio nel deserto; ora pare Oloferne [22] in persona. Oh povero me! povero me! Basta: il cielo è in obbligo d’aiutarmi, perché non mi ci son messo io di mio capriccio”. Infatti, sul volto dell’innominato si vedevano, per dir così, passare i pensieri, come, in un’ora burrascosa, le nuvole trascorrono dinanzi alla faccia del sole, alternando ogni momento una luce arrabbiata e un freddo buio. L’animo, ancor tutto inebriato dalle soavi parole di Federigo, e come rifatto e ringiovanito nella nuova vita, s’elevava a quell’idee di misericordia, di perdono e d’amore; poi ricadeva sotto il peso del terribile passato. Correva con ansietà a cercare quali fossero le iniquità riparabili, cosa si potesse troncare a mezzo, quali i rimedi più espedienti [23] e più sicuri, come scioglier tanti nodi, che fare di tanti complici: era uno sbalordimento a pensarci. A quella stessa spedizione, ch’era la più facile e così vicina al termine, andava con un’impazienza mista d’angoscia, pensando che intanto quella creatura pativa, Dio sa quanto, e che lui, il quale pure si struggeva di liberarla, era lui che la teneva intanto a patire. Dove c’eran due strade, il lettighiero si voltava, per saper quale dovesse prendere: l’innominato gliel’indicava con la mano, e insieme accennava di far presto. Entrano nella valle. Come stava allora il povero don Abbondio! Quella valle famosa, della quale aveva sentito raccontar tante storie orribili, esserci dentro: que’ famosi uomini, il fiore della braveria d’Italia, quegli uomini senza paura e senza misericordia, vederli in carne e in ossa; incontrarne uno o due o tre a ogni voltata di strada. Si chinavano sommessamente al signore; ma certi visi abbronzati! certi baffi irti! certi occhiacci, che a don Abbondio pareva che volessero dire: fargli la festa a quel prete? A segno che, in un punto di somma costernazione, gli venne detto tra sé: “gli avessi maritati! non mi poteva accader di peggio”. Intanto s’andava avanti per un sentiero sassoso, lungo il torrente: al di là quel prospetto di balze aspre, scure, disabitate; al di qua quella popolazione da far parer desiderabile ogni deserto: Dante non istava peggio nel mezzo di Malebolge [24]. Passan davanti la Malanotte; bravacci sull’uscio, inchini al signore, occhiate al suo compagno e alla lettiga. Coloro non sapevan cosa si pensare: già la partenza dell’innominato solo, la mattina, aveva dello straordinario; il ritorno non lo era meno. Era una preda che conduceva? E come l’aveva fatta da sé? E come una lettiga forestiera? E di chi poteva esser quella livrea [25]? Guardavano, guardavano, ma nessuno si moveva, perché questo era l’ordine che il padrone dava loro con dell’occhiate. Fanno la salita, sono in cima. I bravi che si trovan sulla spianata e sulla porta, si ritirano di qua e di là, per lasciare il passo libero: l’innominato fa segno che non si movan di più; sprona, e passa davanti alla lettiga; accenna al lettighiero e a don Abbondio che lo seguano; entra in un primo cortile, da quello in un secondo; va verso un usciolino, fa stare indietro con un gesto un bravo che accorreva per tenergli la staffa, e gli dice: - tu sta’ costì, e non venga nessuno -. Smonta, lega in fretta la mula a un’inferriata, va alla lettiga, s’accosta alla donna, che aveva tirata la tendina, e le dice sottovoce: - consolatela subito; fatele subito capire che è libera, in mano d’amici. Dio ve ne renderà merito -. Poi fa cenno al lettighiero, che apra; poi s’avvicina a don Abbondio, e, con un sembiante così sereno come questo non gliel aveva ancor visto, né credeva che lo potesse avere, con dipintavi la gioia dell’opera buona che finalmente stava per compire, gli dice, ancora sotto voce: - signor curato, non le chiedo scusa dell’incomodo che ha per cagion mia: lei lo fa per Uno che paga bene, e per questa sua poverina -. Ciò detto, prende con una mano il morso, con l’altra la staffa, per aiutar don Abbondio a scendere. Quel volto, quelle parole, quell’atto, gli avevan dato la vita. Mise un sospiro, che da un’ora gli s’aggirava dentro, senza mai trovar l’uscita; si chinò verso l’innominato, rispose a voce bassa bassa: - le pare? Ma, ma, ma, ma,...! - e sdrucciolò alla meglio dalla sua cavalcatura. L’innominato legò anche quella, e detto al lettighiero che stesse lì a aspettare, si levò una chiave di tasca, aprì l’uscio, entrò, fece entrare il curato e la donna, s’avviò davanti a loro alla scaletta; e tutt’e tre salirono in silenzio. |
5 10 15 20 25 30 35 40 45 50 55 60 65 70 75 80 85 90 95 100 105 110 115 120 125 130 135 140 145 150 155 160 165 170 175 180 185 190 195 200 205 210 215 220 225 230 235 240 245 250 255 260 265 270 275 280 285 290 295 300 305 310 315 320 325 330 335 340 345 350 355 |
Note
- Le funzioni sacre.
- Di uccidere il cardinale.
- Di deporle.
- I capelli bianchi.
- Questa carità.
- Mano a mano che.
- Banchetto di grazia (espressione biblica con cui si allude al ravvedimento del bandito).
- È la parabola del buon pastore, tratta dal Vangelo secondo Matteo (XVIII, 12-13).
- "Questa conversione è opera della mano dell'Altissimo" (Salmo LXXVII [LXXVI nella Vulgata], 11).
- Veicolo a due stanghe trainato solitamente da un mulo, per percorrere strade impervie impraticabili per una carrozza (simile alla bussola, ovvero una portantina retta da degli uomini).
- Una donna intelligente, che sapesse ben comportarsi di fronte a un incarico così insolito.
- Amarezza, fastidio.
- "Usare clemenza con i sottomessi" (Eneide, VI, 853), parole che suonano ironiche in quanto riferite a don Abbondio.
- Sensibile, facile a impressionarsi.
- "Era perduto, ed è stato ritrovato": sono le parole della parabola del figliuol prodigo (Luca, XV, 24).
- Isaia, XI, 6-7 (il testo biblico è lievemente adattato dall'autore).
- Il primo cameriere, il servitore particolare.
- Parrocchia.
- Cilicio (cintura irta di nodi e di materiale urticante, portata ai fianchi per auto-infliggersi punizioni corporali).
- Ovvero mangiare, bere e andare a spasso (è un noto detto popolare).
- Giocando d'azzardo (don Abbondio fa riferimento a un gioco simile alla morra).
- Sant'Antonio abate era un celebre eremita del III-IV sec., mentre Oloferne è il generale di Nabucodonosor ucciso da Giuditta (Giuditta, XIII).
- Efficaci, opportuni.
- Il riferimento è ai passi dell'Inferno dantesco (XXI-XXII) in cui Dante e Virgilio incontrano i Malebranche, i demoni alati che custodiscono la quinta bolgia dei barattieri e che tentano di ingannare i due poeti (Dante ne è terrorizzato ed esorta per la paura il suo maestro a diffidare dei diavoli). Inutile dire che il paragone suona ironico in rapporto alla situazione di don Abbondio.
- Quella del cardinal Borromeo.