Introduzione
S. Stampa, Ritratto di A. Manzoni (1848)
"Ma, quando io avrò durata l'eroica fatica
di trascriver questa storia da questo dilavato
e graffiato autografo, e l'avrò data,
come si suol dire, alla luce, si troverà poi
chi duri la fatica di leggerla?"...
Temi:
Trama: |
_La giustizia, La cultura del Seicento, Nobiltà e potere
L'autore finge di citare l'inizio di un manoscritto anonimo del Seicento, da cui avrebbe tratto la vicenda del romanzo. Considerazioni dell'autore circa la lingua in cui riscrivere l'autografo. |
Lo "scartafaccio" dell'anonimo secentista
Velazquez, Ritratto di Filippo IV
L'autore finge di citare l'inizio di un manoscritto di un anonimo autore del XVII secolo, il quale dichiara che la storiografia è una specie di guerra contro il tempo, poiché essa richiama in vita e passa in rassegna gli anni passati (paragonati a prigionieri, ovvero a caduti). Tuttavia, spiega l'anonimo, gli storici si limitano a raccontare le insigni imprese politiche e militari di personaggi altolocati, cosa che egli non intende fare non ritenendosi all'altezza: poiché è venuto a conoscenza di una vicenda che ha visto come protagonisti personaggi di umile condizione sociale, intende raccontarla in modo conforme alla verità. In questa narrazione si vedranno azioni di assoluta malvagità ed altre, opposte, di straordinaria virtù, il che può rendere perplessi se si considera che la Lombardia del '600 è sotto il governo illuminato del re di Spagna, del governatore del ducato di Milano, dei senatori dello Stato e di altri illustri magistrati che formano uno splendido cielo e dovrebbero vigilare sulle leggi e la giustizia; l'unica spiegazione, secondo l'anonimo, non può che essere l'intervento del diavolo nelle vicende umane. La vicenda narrata risale agli anni della sua gioventù e la maggior parte dei personaggi citati sono ormai passati a miglior vita, tuttavia l'anonimo non farà i nomi di alcuni di essi per rispetto e per lo stesso motivo accennerà in modo vago anche ad alcuni luoghi. Questa non deve essere considerata un'imperfezione del racconto, poiché (come ben sa chi si intende di filosofia) i nomi non sono altro che semplici accidenti...
Manzoni decide di riscrivere il manoscritto
Manzoni interrompe la citazione dello "scartafaccio", dal momento che si rende conto che la lingua in cui esso è realizzato e lo stile dell'anonimo secentista sarebbero alquanto indigesti ai lettori contemporanei. Questo è il motivo per cui, a suo tempo, aveva rinunciato a trascrivere tutto il manoscritto per darlo alle stampe: ovviamente l'anonimo non prosegue per tutta l'opera con ardite metafore, concettini barocchi e figure ampollose, in quanto lo scrittore del Seicento ha voluto dimostrare la sua abilità all'inizio del racconto, tuttavia la lingua è comunque dozzinale, sgrammaticata, per di più gonfia della retorica tipica di quel secolo e perciò poco adatta a un pubblico moderno (da qui la decisione di interrompere la trascrizione dell'autografo e di metterlo via). Gli era sembrato però un peccato non divulgare la storia raccontata nel manoscritto, ovvero quella dei due promessi sposi, che ad onta della lingua in cui è narrata gli pareva molto bella: aveva allora stabilito di riscrivere il testo in una lingua e in una forma moderna, non trascurando di compiere ricerche storiche per appurare se le cose narrate nell'autografo fossero verosimili o meno. Ha trovato nondimeno molte conferme e anche la prova che alcuni personaggi citati dall'anonimo sono realmente esistiti, il che lo ha indotto a proseguire nell'impegnativo lavoro.
La questione della lingua
Stemma dell'Accademia della Crusca
In quale lingua, tuttavia, Manzoni ha riscritto il testo del manoscritto? Si tratta di una questione assai spinosa, e l'autore si rende conto che, quando si sottopone l'opera di un altro a un rifacimento, corre l'obbligo di rendere spiegazioni al pubblico e ai lettori circa i criteri che si sono seguiti. Riguardo al problema della lingua, Manzoni aveva in effetti immaginato una serie di obiezioni che potevano essergli mosse per le sue scelte e aveva elaborato delle risposte convincenti, ma si era poi reso conto che l'insieme di queste considerazioni avrebbe costituito di per sé un libro di mole alquanto consistente. Questo lo ha indotto a rinunciare ai suoi propositi, per due ragioni che troveranno il lettore d'accordo: la prima, perché potrebbe sembrare assurdo scrivere un libro per giustificarne un altro; la seconda, perché di libri ne basta uno per volta, quando non è addirittura d'avanzo.
Temi principali e collegamenti
- La pagina iniziale, in cui Manzoni finge di citare il principio del "dilavato e graffiato autografo", è un grande pezzo di bravura e una perfetta imitazione dello stile ridondante e ampolloso degli scrittori barocchi del XVII secolo: infatti l'anonimo fa un largo uso di metafore, le figure retoriche sfruttate dai secentisti per suscitare la meraviglia del lettore (si tratta dei "concettini", che spesso proponevano immagini ardite e stravaganti). All'inizio la storiografia è paragonata a una "guerra illustre contro il Tempo", al quale essa sottrae gli anni suoi prigionieri, anzi già morti e sepolti, per passarli in rassegna; gli storici sottopongono i personaggi illustri a una imbalsamazione, preservandoli dall'oblio, e formano un ricamo di fili d'oro e di seta usando l'ago dell'ingegno (allusione alle raffinatezze stilistiche e retoriche degli scrittori). Più avanti le vicende umane vengono presentate come scene di uno spettacolo teatrale, mentre l'apparato governativo e legislativo della Lombardia del '600 è paragonato a uno splendido firmamento in cui il re di Spagna è un "Sole che mai tramonta", il governatore di Milano è una luna "giamai calante", i senatori sono le stelle fisse e i magistrati sono i pianeti che ruotano intorno alla Terra (da notare che tale sistema cosmologico è ancora quello tolemaico). I membri del governo sono poi descritti quali figure mitologiche (Argo dai cento occhi, Briareo dalle cento braccia...), mentre alla fine del brano l'anonimo si addentra in una complessa spiegazione filosofica di stampo aristotelico, accennando a "sostanze" e "accidenti" (anche don Ferrante, figura esemplare di intellettuale del tempo, ragionerà in modo simile).
- L'intento di Manzoni nella falsa citazione è ovviamente ironico: non solo contro la retorica vuota e ampollosa della letteratura secentesca, ma soprattutto contro il carattere artificioso di gran parte della cultura di quel secolo. In particolare, l'anonimo attribuisce la malvagità degli uomini all'intervento del demonio, mentre è evidente che la colpa è dei personaggi negativi che agiscono impunemente grazie all'inefficienza e alla connivenza di chi deve amministrare la giustizia: è dunque sarcastica anche l'immagine del governo milanese che l'anonimo paragona in modo pomposo a un magnifico cielo, mentre nel romanzo ne verrà spesso descritta l'incapacità e la corruzione (cfr. soprattutto i capp. XXXI-XXXII sulla peste).
- Le considerazioni finali del Manzoni circa la lingua usata per riscrivere l'immaginario "scartafaccio" suonano anch'esse ironiche, anche se la questione è assai seria: l'autore accenna alla complessa operazione di riscrittura del suo stesso romanzo, dopo la "risciacquatura dei panni in Arno" e l'edizione definitiva del 1840-42 (in cui la lingua utilizzata è il fiorentino parlato dalla borghesia colta del primo Ottocento). Con falsa modestia Manzoni finge di rinunciare ad argomentare in favore di tale scelta, che tante discussioni aveva suscitato ai suoi tempi e anche oltre, ma lo scrittore ne avrebbe trattato ampiamente in altri scritti dedicati alla questione della lingua.
- Anche se l'anonimo dichiara di aver narrato una vicenda che ha per protagonisti "gente meccaniche, e di piccol affare" (personaggi di umile condizione sociale, come Renzo e Lucia), il romanzo descriverà anche le gesta di figure illustri e offrirà uno spaccato del mondo del potere, nonché una critica spietata dei suoi difetti e delle sue storture.
Il linguaggio teatrale nei Promessi sposi
Anonimo fiammingo, Commedianti
Il '600 è il secolo che vede in Italia la grande rinascita del teatro, nei generi classici della tragedia e della commedia (soprattutto quella dell'arte) e in quelli nuovi del melodramma e dell'opera buffa: Manzoni ne è ben consapevole e nel romanzo fa spesso riferimento ad elementi propri del linguaggio teatrale, essendo stato egli stesso autore di due tragedie (il Conte di Carmagnola e l'Adelchi). La cosa è evidente sin dall'Introduzione, quando l'anonimo all'inizio dell'immaginario manoscritto dichiara che "...si vedrà in angusto Teatro luttuose Traggedie d'horrori, e Scene di malvaggità grandiosa, con intermezi d'Imprese virtuose e buontà angeliche", mentre poco oltre dirà che gran parte dei personaggi protagonisti sono ormai scomparsi "dalla Scena del Mondo" (gli intermezzi erano parte di alcuni spettacoli teatrali, mentre gli autori di commedie erano soliti considerare il mondo come il teatro da cui trarre ispirazione per le loro opere). Molti personaggi del romanzo vengono poi descritti in termini propri del linguaggio teatrale e, anche se vi sono ovviamente riferimenti al teatro tragico (la vicenda di Gertrude, ad esempio, è di fatto impostata come una tragedia priva dello scioglimento finale), sono numerosi i caratteri "da commedia" protagonisti di episodi al limite del farsesco e di situazioni tipicamente comiche. L'esempio più ovvio è naturalmente don Abbondio, la figura forse più umoristica del romanzo che spesso "duetta" con altri protagonisti della vicenda: nel cap. I c'è il vivace dialogo con Perpetua, in cui la domestica tenta in ogni modo di estorcergli il suo segreto (ad esempio negandogli il bicchiere di vino che il curato le strappa di mano), mentre il sacerdote inframmezza il discorso con dei buffi "a parte" ("Vedete che bei pareri mi sa dar costei!"); nel cap. II è altrettanto comico il primo dialogo con Renzo, quando il curato prima finge di non ricordare neppure il matrimonio, poi accampa pretesti burocratici e parla persino in latino per confondere l'interlocutore, anche qui con una specie di "a parte" (quando pensa tra sé: "Siamo a buon porto").
Decisamente comica anche la situazione del dialogo tra Renzo e l'Azzecca-garbugli del cap. III, in cui l'avvocato dall'aspetto strampalato (figure simili non erano infrequenti nelle commedie spagnoleggianti del XVII secolo) cade nel grottesco equivoco per cui crede che Renzo sia un bravo venuto da lui per chiedere assistenza legale: c'è un vero e proprio rovesciamento delle parti tipico del linguaggio comico, fino all'agnitio (riconoscimento) finale in cui non c'è però lieto fine e l'avvocato caccia via Renzo in malo modo, negandogli quella giustizia che è venuto a chiedere (l'intera scena è una sorta di bizzarra parodia della giustizia, in cui gli onesti vengono scambiati per malfattori e questi ultimi la fanno sempre franca).
Altrove il gergo teatrale è usato per descrivere più illustri personaggi politici che si presentano a un uditorio recitando una parte e indossando, per così dire, una maschera, allo scopo di prendersi gioco del popolo con un linguaggio doppio e ambiguo: è il caso soprattutto di Antonio Ferrer, il gran cancelliere spagnolo che nel cap. XIII va a salvare il vicario di Provvisione la cui casa è assediata dai popolani in rivolta (la situazione è di per sé paradossale, in quanto Ferrer, che è stato la causa della sommossa per via del calmiere sul prezzo del pane, viene accolto benevolmente dalla folla inferocita contro il vicario che è del tutto innocente). La cosa interessante è che il dignitario spagnolo si presenta ai rivoltosi sfruttando il proprio favore personale e atteggiandosi a benefattore del popolo, usando abilmente parole-chiave come "pane" e "giustizia": egli, scrive Manzoni, mostra "un viso tutto umile, tutto ridente, tutto amoroso", manda baci alla folla con le mani dalle labbra, promette cose impossibili mettendo con gesto teatrale la mano al petto; quando scende dalla carrozza è osannato come un attore di grido, compie un grande inchino e avanza trionfalmente tra due ali di folla, "tra l'acclamazioni che andavano alle stelle". La sua è tutta una recita che ha come fine quello di salvare il vicario dal linciaggio popolare, scopo per il quale Ferrer non esita a mentire ai rivoltosi parlando ora in italiano, ora in spagnolo, mentre poco dopo, quando i due funzionari saranno soli e al sicuro sulla carrozza, il gran cancelliere mostrerà il suo vero volto e tornerà ad indossare i panni dell'alto dignitario del re di Spagna, preoccupato per la sua carriera politica (come un attore che, dietro le quinte, si spoglia del suo ruolo in commedia e si riappropria della sua identità personale).
Un riferimento simile è usato da Manzoni anche nel cap. XIX, nel corso del dialogo tra il conte zio e il padre provinciale dei cappuccini, in cui è evidente che l'alto funzionario di Stato recita una parte a uso e consumo del prelato e con l'unico fine di far allontanare fra Cristoforo da Pescarenico: il conte zio usa una tecnica raffinata da consumato commediante, non diversa da quella di Ferrer nei confronti della folla (benché qui l'interlocutore sia ovviamente di livello superiore), ma c'è un momento in cui l'uomo politico quasi senza avvedersene getta la maschera e mostra il suo vero volto. Ciò avviene quando il conte zio osserva che sia lui, sia il padre provinciale sono alquanto avanti negli anni e assume un'espressione sincera di disappunto: "Chi fosse stato lì a vedere, in quel punto, fu come quando, nel mezzo d’un’opera seria, s’alza, per isbaglio, uno scenario, prima del tempo, e si vede un cantante che, non pensando, in quel momento, che ci sia un pubblico al mondo, discorre alla buona con un suo compagno. Il viso, l’atto, la voce del conte zio, nel dir quel pur troppo!, tutto fu naturale: lì non c’era politica: era proprio vero che gli dava noia d’avere i suoi anni". Il riferimento alla pratica teatrale non è casuale, naturalmente, e sta a indicare che in questa come in altre occasioni il conte zio recita una parte, non è sincero nelle sue affermazioni e indossa una maschera come la "politica" gli impone di fare quasi quotidianamente, quindi quello è stato il solo momento di schiettezza nel corso dell'intero colloquio col prelato che poi dovrà, per ragioni politiche appunto, cedere alle sue richieste. È anche una pesante critica al mondo del potere e di chi governa la cosa pubblica, che appare impegnato il più delle volte a mentire e usare la tecnica della simulazione e della dissimulazione, muovendosi come un attore sulla scena a beneficio del pubblico, si tratti di altri uomini politici o del popolo (tale ipocrisia è, per Manzoni, all'origine di tanti mali della società, nel XVII secolo come anche ai tempi in cui lui viveva).
Decisamente comica anche la situazione del dialogo tra Renzo e l'Azzecca-garbugli del cap. III, in cui l'avvocato dall'aspetto strampalato (figure simili non erano infrequenti nelle commedie spagnoleggianti del XVII secolo) cade nel grottesco equivoco per cui crede che Renzo sia un bravo venuto da lui per chiedere assistenza legale: c'è un vero e proprio rovesciamento delle parti tipico del linguaggio comico, fino all'agnitio (riconoscimento) finale in cui non c'è però lieto fine e l'avvocato caccia via Renzo in malo modo, negandogli quella giustizia che è venuto a chiedere (l'intera scena è una sorta di bizzarra parodia della giustizia, in cui gli onesti vengono scambiati per malfattori e questi ultimi la fanno sempre franca).
Altrove il gergo teatrale è usato per descrivere più illustri personaggi politici che si presentano a un uditorio recitando una parte e indossando, per così dire, una maschera, allo scopo di prendersi gioco del popolo con un linguaggio doppio e ambiguo: è il caso soprattutto di Antonio Ferrer, il gran cancelliere spagnolo che nel cap. XIII va a salvare il vicario di Provvisione la cui casa è assediata dai popolani in rivolta (la situazione è di per sé paradossale, in quanto Ferrer, che è stato la causa della sommossa per via del calmiere sul prezzo del pane, viene accolto benevolmente dalla folla inferocita contro il vicario che è del tutto innocente). La cosa interessante è che il dignitario spagnolo si presenta ai rivoltosi sfruttando il proprio favore personale e atteggiandosi a benefattore del popolo, usando abilmente parole-chiave come "pane" e "giustizia": egli, scrive Manzoni, mostra "un viso tutto umile, tutto ridente, tutto amoroso", manda baci alla folla con le mani dalle labbra, promette cose impossibili mettendo con gesto teatrale la mano al petto; quando scende dalla carrozza è osannato come un attore di grido, compie un grande inchino e avanza trionfalmente tra due ali di folla, "tra l'acclamazioni che andavano alle stelle". La sua è tutta una recita che ha come fine quello di salvare il vicario dal linciaggio popolare, scopo per il quale Ferrer non esita a mentire ai rivoltosi parlando ora in italiano, ora in spagnolo, mentre poco dopo, quando i due funzionari saranno soli e al sicuro sulla carrozza, il gran cancelliere mostrerà il suo vero volto e tornerà ad indossare i panni dell'alto dignitario del re di Spagna, preoccupato per la sua carriera politica (come un attore che, dietro le quinte, si spoglia del suo ruolo in commedia e si riappropria della sua identità personale).
Un riferimento simile è usato da Manzoni anche nel cap. XIX, nel corso del dialogo tra il conte zio e il padre provinciale dei cappuccini, in cui è evidente che l'alto funzionario di Stato recita una parte a uso e consumo del prelato e con l'unico fine di far allontanare fra Cristoforo da Pescarenico: il conte zio usa una tecnica raffinata da consumato commediante, non diversa da quella di Ferrer nei confronti della folla (benché qui l'interlocutore sia ovviamente di livello superiore), ma c'è un momento in cui l'uomo politico quasi senza avvedersene getta la maschera e mostra il suo vero volto. Ciò avviene quando il conte zio osserva che sia lui, sia il padre provinciale sono alquanto avanti negli anni e assume un'espressione sincera di disappunto: "Chi fosse stato lì a vedere, in quel punto, fu come quando, nel mezzo d’un’opera seria, s’alza, per isbaglio, uno scenario, prima del tempo, e si vede un cantante che, non pensando, in quel momento, che ci sia un pubblico al mondo, discorre alla buona con un suo compagno. Il viso, l’atto, la voce del conte zio, nel dir quel pur troppo!, tutto fu naturale: lì non c’era politica: era proprio vero che gli dava noia d’avere i suoi anni". Il riferimento alla pratica teatrale non è casuale, naturalmente, e sta a indicare che in questa come in altre occasioni il conte zio recita una parte, non è sincero nelle sue affermazioni e indossa una maschera come la "politica" gli impone di fare quasi quotidianamente, quindi quello è stato il solo momento di schiettezza nel corso dell'intero colloquio col prelato che poi dovrà, per ragioni politiche appunto, cedere alle sue richieste. È anche una pesante critica al mondo del potere e di chi governa la cosa pubblica, che appare impegnato il più delle volte a mentire e usare la tecnica della simulazione e della dissimulazione, muovendosi come un attore sulla scena a beneficio del pubblico, si tratti di altri uomini politici o del popolo (tale ipocrisia è, per Manzoni, all'origine di tanti mali della società, nel XVII secolo come anche ai tempi in cui lui viveva).
Clicca qui per ascoltare l'audio del capitolo dal sito www.liberliber.it
(voce narrante di Silvia Cecchini).
Introduzione
"L’Historia si può veramente deffinire una guerra illustre contro il Tempo, perché togliendoli di mano gl’anni suoi prigionieri, anzi già fatti cadaueri, li richiama in vita, li passa in rassegna, e li schiera di nuovo in battaglia. Ma gl’illustri Campioni che in tal Arringo fanno messe di Palme e d’Allori [1], rapiscono solo che le sole spoglie più sfarzose e brillanti, imbalsamando co’ loro inchiostri le Imprese de Prencipi e Potentati, e qualificati Personaggj, e trapontando coll’ago finissimo dell’ingegno i fili d’oro e di seta, che formano un perpetuo ricamo di Attioni gloriose. Però alla mia debolezza non è lecito solleuarsi a tal’argomenti, e sublimità pericolose, con aggirarsi tra Labirinti de’ Politici maneggj, et il rimbombo de’ bellici Oricalchi [2]: solo che hauendo hauuto notitia di fatti memorabili, se ben capitorno a gente meccaniche, e di piccol affare, mi accingo di lasciarne memoria a Posteri, con far di tutto schietta [3] e genuinamente il Racconto, ouuero sia Relatione. Nella quale si vedrà in angusto Teatro luttuose Traggedie d’horrori, e Scene di malvaggità grandiosa, con intermezi d’Imprese virtuose e buontà angeliche, opposte alle operationi diaboliche. E veramente, considerando che questi nostri climi sijno sotto l’amparo [4] del Re Cattolico nostro Signore, che è quel Sole che mai tramonta, e che sopra di essi, con riflesso Lume, qual Luna giamai calante, risplenda l’Heroe di nobil Prosapia [5] che pro tempore ne tiene le sue parti, e gl’Amplissimi Senatori quali Stelle fisse, e gl’altri Spettabili Magistrati qual’erranti Pianeti spandino la luce per ogni doue, venendo così a formare un nobilissimo Cielo, altra causale trouar non si può del vederlo tramutato in inferno d’atti tenebrosi, malvaggità e sevitie che dagl’huomini temerarij si vanno moltiplicando, se non se arte e fattura diabolica, attesoché [6] l’humana malitia per sé sola bastar non dourebbe a resistere a tanti Heroi, che con occhij d’Argo e braccj di Briareo [7], si vanno trafficando per li pubblici emolumenti [8]. Per locché descriuendo questo Racconto auuenuto ne’ tempi di mia verde staggione, abbenché la più parte delle persone che vi rappresentano le loro parti, sijno sparite dalla Scena del Mondo, con rendersi tributarij delle Parche, pure per degni rispetti, si tacerà li loro nomi, cioè la parentela, et il medesmo si farà de’ luochi, solo indicando li Territorij generaliter. Né alcuno dirà questa sij imperfettione del Racconto, e defformità di questo mio rozzo Parto, a meno questo tale Critico non sij persona affatto diggiuna della Filosofia: che quanto agl’huomini in essa versati, ben vederanno nulla mancare alla sostanza di detta Narratione. Imperciocché, essendo cosa evidente, e da verun negata non essere i nomi se non puri purissimi accidenti..."
"Ma, quando io avrò durata l’eroica fatica di trascriver questa storia da questo dilavato e graffiato autografo, e l’avrò data, come si suol dire, alla luce, si troverà poi chi duri la fatica di leggerla?" Questa riflessione dubitativa, nata nel travaglio del decifrare uno scarabocchio che veniva dopo accidenti, mi fece sospender la copia, e pensar più seriamente a quello che convenisse di fare. "Ben è vero, dicevo tra me, scartabellando il manoscritto, ben è vero che quella grandine di concettini e di figure non continua così alla distesa per tutta l’opera. Il buon secentista ha voluto sul principio mettere in mostra la sua virtù; ma poi, nel corso della narrazione, e talvolta per lunghi tratti, lo stile cammina ben più naturale e più piano. Sì; ma com’è dozzinale! com’è sguaiato! com’è scorretto! Idiotismi lombardi a iosa, frasi della lingua adoperate a sproposito, grammatica arbitraria, periodi sgangherati. E poi, qualche eleganza spagnola seminata qua e là; e poi, ch’è peggio, ne’ luoghi più terribili o più pietosi della storia, a ogni occasione d’eccitar maraviglia, o di far pensare, a tutti que’ passi insomma che richiedono bensì un po’ di rettorica, ma rettorica discreta, fine, di buon gusto, costui non manca mai di metterci di quella sua così fatta del proemio. E allora, accozzando, con un’abilità mirabile, le qualità più opposte, trova la maniera di riuscir rozzo insieme e affettato, nella stessa pagina, nello stesso periodo, nello stesso vocabolo. Ecco qui: declamazioni ampollose, composte a forza di solecismi pedestri, e da per tutto quella goffaggine ambiziosa, ch’è il proprio carattere degli scritti di quel secolo, in questo paese. In vero, non è cosa da presentare a lettori d’oggigiorno: son troppo ammaliziati, troppo disgustati di questo genere di stravaganze. Meno male, che il buon pensiero m’è venuto sul principio di questo sciagurato lavoro: e me ne lavo le mani". Nell’atto però di chiudere lo scartafaccio, per riporlo, mi sapeva male che una storia così bella dovesse rimanersi tuttavia sconosciuta; perché, in quanto storia, può essere che al lettore ne paia altrimenti, ma a me era parsa bella, come dico; molto bella. "Perché non si potrebbe, pensai, prender la serie de’ fatti da questo manoscritto, e rifarne la dicitura?" Non essendosi presentato alcuna obiezion ragionevole, il partito fu subito abbracciato. Ed ecco l’origine del presente libro, esposta con un’ingenuità pari all’importanza del libro medesimo [9]. Taluni però di que’ fatti, certi costumi descritti dal nostro autore, c’eran sembrati così nuovi, così strani, per non dir peggio, che, prima di prestargli fede, abbiam voluto interrogare altri testimoni; e ci siam messi a frugar nelle memorie di quel tempo, per chiarirci se veramente il mondo camminasse allora a quel modo. Una tale indagine dissipò tutti i nostri dubbi: a ogni passo ci abbattevamo in cose consimili, e in cose più forti: e, quello che ci parve più decisivo, abbiam perfino ritrovati alcuni personaggi, de’ quali non avendo mai avuto notizia fuor che dal nostro manoscritto, eravamo in dubbio se fossero realmente esistiti. E, all’occorrenza, citeremo alcuna di quelle testimonianze, per procacciar fede alle cose, alle quali, per la loro stranezza, il lettore sarebbe più tentato di negarla. Ma, rifiutando come intollerabile la dicitura del nostro autore, che dicitura vi abbiam noi sostituita? Qui sta il punto. Chiunque, senza esser pregato, s’intromette a rifar l’opera altrui, s’espone a rendere uno stretto conto della sua, e ne contrae in certo modo l’obbligazione: è questa una regola di fatto e di diritto, alla quale non pretendiam punto di sottrarci. Anzi, per conformarci ad essa di buon grado, avevam proposto di dar qui minutamente ragione del modo di scrivere da noi tenuto; e, a questo fine, siamo andati, per tutto il tempo del lavoro, cercando d’indovinare le critiche possibili e contingenti, con intenzione di ribatterle tutte anticipatamente. Né in questo sarebbe stata la difficoltà; giacché (dobbiam dirlo a onor del vero) non ci si presentò alla mente una critica, che non le venisse insieme una risposta trionfante, di quelle risposte che, non dico risolvon le questioni, ma le mutano. Spesso anche, mettendo due critiche alle mani tra loro, le facevam battere l’una dall’altra; o, esaminandole ben a fondo, riscontrandole attentamente, riuscivamo a scoprire e a mostrare che, così opposte in apparenza, eran però d’uno stesso genere, nascevan tutt’e due dal non badare ai fatti e ai principi su cui il giudizio doveva esser fondato; e, messele, con loro gran sorpresa, insieme, le mandavamo insieme a spasso. Non ci sarebbe mai stato autore che provasse così ad evidenza d’aver fatto bene. Ma che? quando siamo stati al punto di raccapezzar tutte le dette obiezioni e risposte, per disporle con qualche ordine, misericordia! venivano a fare un libro. Veduta la qual cosa, abbiam messo da parte il pensiero, per due ragioni che il lettore troverà certamente buone: la prima, che un libro impiegato a giustificarne un altro, anzi lo stile d’un altro, potrebbe parer cosa ridicola: la seconda, che di libri basta uno per volta, quando non è d’avanzo. |
5 10 15 20 25 30 35 40 45 50 55 60 65 70 |
Note
- I "Campioni" sono gli storici, che nel guerreggiare con la Storia (cioè scrivendo le loro opere) raccolgono onori e premi ("Palme e... Allori").
- Si tratta delle trombe di guerra in ottone.
- Schiettamente (si tratta di una forma spagnoleggiante).
- Protezione, dominio (ancora un vocabolo spagnolo).
- L'eroe di nobile discendenza (si tratta del governatore dello Stato di Milano).
- Dal momento che.
- Argo era il personaggio mitologico dotato di cento occhi, ucciso da Hermes che era stato inviato da Zeus a sottrarre la ninfa Io tramutata in giovenca; Briareo era un gigante dalle cento mani. La metafora vuol essere lusinghiera nei riguardi di questi personaggi politici, ma suona in realtà ironica data la loro inefficienza e incompetenza (come si vedrà nel corso del romanzo).
- Per il bene pubblico.
- Con questa affermazione ironica Manzoni rivela implicitamente che quello dello "scartafaccio" è un semplice espediente letterario.