Il Conte del Sagrato e don Rodrigo
Fermo e Lucia, tomo II, cap. 8
Nella prima redazione del romanzo viene raccontato non solo il viaggio di don Rodrigo al castello del Conte del Sagrato (l'innominato dei "Promessi sposi") per chiedergli di rapire Lucia da Monza, ma viene descritto anche il colloquio tenuto dai due uomini, in cui emerge da un lato la cortesia untuosa del signorotto di paese, che cerca di compiacere il potente bandito con termini spagnoleggianti, dall'altro il carattere aspro e spigoloso del Conte che risponde in modo assai brusco al suo ospite. Nel cap. XX dell'edizione del 1840 il dialogo verrà eliminato e al suo posto Manzoni inserirà un breve discorso indiretto, come pure eliminerà il conciliabolo tra il Conte ed Egidio che occupa la seconda parte del capitolo.
Giunti al castello, la guida [1] v’entrò con Don Rodrigo, e lo fece aspettare in una sala, dove stavano sempre servi armati, pronti agli ordini del Conte. Dopo pochi momenti, la guida tornò invitando Don Rodrigo ad entrare dal padrone; e di sala in sala sempre incontrando scherani [2], lo condusse a quella dove stava il Conte del Sagrato. Don Rodrigo s’inchinò profondamente con quell’aria equivoca che può egualmente parere bassezza o affettazione, e il Conte che in mezzo a tanti affari non aveva potuto conservare le abitudini cerimoniose di quel tempo, gli corrispose con una leggiera e rapida inclinazione del capo; e gli fece cenno di sedersi sur una seggiola la quale era posta in luogo che dall’altra stanza si potesse scorgere ogni moto di colui che vi era seduto. Dopo molte cerimonie, alle quali il Conte badò poco, Don Rodrigo sedette; e il Conte pure a qualche distanza. Era il Conte del Sagrato un uomo di cinquant’anni, alto, gagliardo, calvo, con una faccia adusta e rugosa. Si sforzava fino ad un certo segno d’esser garbato, ma da quegli sforzi stessi traspariva una rusticità feroce e indisciplinata. «Dovrei scusarmi», cominciò Don Rodrigo, «di venir così a dare infado [3] a Vossignoria Illustrissima». «Lasci queste cerimoniacce spagnuole, e mi dica in che posso servirla». «Non so se il Signor Conte si ricordi della mia persona, ma io ho presente di essere stato qualche volta fortunato...» «Mi ricordo benissimo, e la prego di venire al fatto». «A dir vero», riprese Don Rodrigo «io mi trovo impegnato in un affare d’onore, in un puntiglio, e sapendo quanto valga un parere di un uomo tanto esperimentato quanto illustre, come è il Signor Conte, mi sono fatto animo a venir a chiederle consiglio, e per dir tutto anche a domandare il suo amparo». [4] «Al diavolo anche l’amparo», rispose con impazienza il Conte. «Tenga queste parolacce per adoprarle in Milano con quegli spadaccini imbalsamati di zibetto [5], e con quei parrucconi impostori che non sapendo essere padroni in casa loro, si protestano servitore d’uno spagnuolo infingardo». E qui avvedendosi che Don Rodrigo faceva un volto serio, tra l’offeso e lo spaventato, si raddolcì e continuò: «intendiamoci fra noi da buoni patriotti, senza spagnolerie. Mi dica schiettamente in che posso servirla». Don Rodrigo si fece da capo e raccontò a suo modo tutta la storia, e finì col dire che il suo onore era impegnato a fare stare quel villanzone e quel frate [6], e ch’egli voleva aver nelle mani Lucia; che se il Signor Conte avesse voluto assumere questo impegno, egli non dubitava più dell’evento. «Non intendo però», continuò titubando, «che oltre il disturbo, il Signor Conte debba assoggettarsi a spese per favorirmi... è troppo giusto... e la prego di specificare...» «Patti chiari», rispose senza titubare il Conte, e proseguì mormorando fra le labbra a guisa di chi leva [7] un conto a memoria: «Venti miglia... un borgo... presso a Milano... un monastero... la Signora che spalleggia... due cappuccini di mezzo... signor mio, questa donna vale dugento doppie». [8] A queste parole succedette un istante di silenzio, rimanendosi l’uno e l’altro a parlare fra sè. Il Conte diceva nella sua mente: — l’avresti avuta per centocinquanta se non parlavi d’infado e d’amparo —; e Don Rodrigo intanto faceva egli pure mentalmente i suoi conti su le dugento doppie. — Diavolo! questo capriccio mi vuol costare! Che Ebreo! [9] Vediamo... le ho: ma ho promesso al mercante... via lo farò tacere. Eh! ma con costui non si scherza: se prometto, bisognerà pagare. E pagherò:... frate indiavolato, te le farò tornare in gola... Lucia la voglio... Si è parlato troppo... non son chi sono... — Fatta così la risoluzione, si rivolse al Conte e disse: «Dugento doppie, signor Conte, l’accordo è fatto». «Cinque e cinque, dieci», rispose il conte. E questa, se mai per caso la nostra storia capitasse alle mani di un lettore ignaro del linguaggio milanese, è una formola comune, che accennando il numero delle dita di due mani congiunte, significa l’impalmarsi [10] per conchiudere un accordo. E nell’atto di proferire la formola, il Conte stese la mano, e Don Rodrigo la strinse. «Le darò», disse Don Rodrigo, «uno dei miei uomini, che conosce benissimo la persona, e starà agli ordini di Vossignoria...» «Non fa bisogno», rispose il Conte del Sagrato: «mi basta il nome», e qui cavò una vacchetta [11] sulla quale sa il cielo che memorie erano registrate, e fattosi dire un’altra volta il nome e il cognome della nostra poveretta, lo scrisse, e notò pure il monastero. «Ma non vorrei che nascessero abbagli». [12] «So quel che posso promettere», rispose il Conte, il quale coglieva ogni destro [13] di dare una idea inaspettata del suo potere e della certezza dei suoi mezzi. «Certo», replicò Don Rodrigo, «pel Signor Conte non v’è cosa impossibile». «Ad un mio avviso, ella mandi persone fidate con le dugento doppie, e la persona sarà consegnata». «Così farò; e mi raccomando... vede bene... non vorrei che... il Signor Conte darà ordini precisi, e impiegherà persone di giudizio». [14] «Al corpo di mille diavoli! Ella non sa dunque come io son servito: tutti i miei uomini sono ben persuasi che colui il quale in una simile circostanza pigliasse la più picciola libertà, sarebbe punito con le mie mani». «Non ne dubito», rispose Don Rodrigo. «Segreto, e fedeltà ai patti!» disse il Conte. «Son uomo d’onore», rispose Don Rodrigo, e si accomiatò. Uscì del castello, scese alla taverna [15], trovò la sua scorta, pagò largamente lo scotto, e si avviò verso casa. |
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Note
- Il bravo che lo conduce disarmato al castello.
- Sgherri, banditi.
- Dallo spagnolo enfado, significa "disturbo", "molestia".
- Ancora un termine spagnolo, col significato di "protezione" (cfr. l'anonimo della pagina dello scartafaccio nell'Introduzione: "considerando che questi nostri climi sijno sotto l'amparo del Re Cattolico nostro signore...")
- Azzimati, profumati (lo zibetto era l'ingrediente base di molte profumazioni antiche).
- Fermo (il Renzo della prima stesura) e fra Cristoforo.
- Fa.
- La doppia era una moneta del valore di due scudi o zecchini, in corso nella Repubblica di Venezia e nel territorio della Lombardia.
- Gli Ebrei avevano fama nell'Ottocento di esercitare il mestiere dell'usura e in quanto tali erano spesso oggetto di persecuzioni e discriminazioni.
- La stretta di mano.
- Un taccuino, così chiamato perché ricoperto di pella di vacca.
- Errori, imprevisti.
- Ogni occasione.
- Don Rodrigo si preoccupa che Lucia, dopo il rapimento, gli sia consegnata senza che nessuno la tocchi.
- Si tratta della taverna ai piedi della salita per il castello, usata come corpo di guardia dai bravi dell'innominato (nella versione definitiva si chiamerà Malanotte).