Capitolo XXXIV
G. Gallina, Renzo sul carro dei monatti
"Vistosi così tra due fuochi, gli venne
in mente che ciò che era di terrore a coloro, poteva essere a lui di salvezza; pensò che non era tempo di far lo schizzinoso;
rimise il coltellaccio nel fodero,
si tirò da una parte, prese la rincorsa
verso i carri, passò il primo, e adocchiò
nel secondo un buono spazio voto.
Prende la mira, spicca un salto;
è su, piantato sul piede destro, col sinistro
in aria, e con le braccia alzate..."
in mente che ciò che era di terrore a coloro, poteva essere a lui di salvezza; pensò che non era tempo di far lo schizzinoso;
rimise il coltellaccio nel fodero,
si tirò da una parte, prese la rincorsa
verso i carri, passò il primo, e adocchiò
nel secondo un buono spazio voto.
Prende la mira, spicca un salto;
è su, piantato sul piede destro, col sinistro
in aria, e con le braccia alzate..."
Personaggi:
Luoghi: Tempo: Temi: Trama: |
_Renzo, il passante, la donna sequestrata, i monatti, il prete, la madre di Cecilia, l'accusatrice di Renzo, la folla di Milano, appestati
Milano Agosto 1630 La giustizia, La cultura del Seicento, La peste Renzo entra a Milano passando per Porta Nuova. Incontro col passante che lo scambia per un untore. Una donna sequestrata in casa chiede aiuto a Renzo, che le dà i due pani. I carri coi morti, condotti dai monatti. Renzo chiede indicazioni a un prete, che gli indica dov'è la casa di don Ferrante. Lo squallore della città desolata. L'episodio della madre di Cecilia. Renzo incontra dei monatti che portano malati al lazzaretto. Giunge alla casa di don Ferrante e apprende che Lucia, malata di peste, è stata condotta al lazzaretto. È scambiato per un untore da una donna e sfugge per miracolo al linciaggio della folla, rifugiandosi su un carro di morti con i monatti. Arriva in compagnia di questi al lazzaretto e si prepara a entrarvi. |
Renzo entra a Milano da Porta Nuova
Renzo sa che in teoria nessuno potrebbe entrare a Milano senza certificato di sanità, anche se in realtà tale prescrizione non è eseguita alla lettera data la noncuranza e l'impotenza delle autorità, dunque per entrare basta un po' di destrezza. Il suo intento è tentare dunque di passare per la prima porta trovata e costeggia la cinta delle mura in cerca di un'indicazione; non trova però nessuno e vede solo una colonna di fumo nero e denso che si alza da un terrapieno, proveniente da un rogo di masserizie e abiti infetti. Il tempo è brutto e il cielo grigio e tetro, con l'aria pesante che non promette pioggia e la campagna tutt'intorno appare brulla e desolata. Dalla città non giungono rumori, il che accresce l'inquietudine del giovane.
Renzo si avvicina senza saperlo a Porta Nuova, che vede solo dopo aver superato un baluardo difensivo: il varco è presidiato da una guardia dall'aria stanca e il cancello è aperto, occupato in quel momento da una barella su cui due monatti depongono il capo dei gabellieri, caduto vittima della peste. Renzo attende che la barella si allontani, quindi pensa di attraversare il cancello: viene subito richiamato dalla guardia, che però acconsente a farlo passare quando il giovane gli lancia una moneta. Renzo entra in città e, fatti pochi passi, viene chiamato da un'altra guardia, alla quale non risponde e che lo lascia andare senza curarsi troppo di lui.
Renzo si avvicina senza saperlo a Porta Nuova, che vede solo dopo aver superato un baluardo difensivo: il varco è presidiato da una guardia dall'aria stanca e il cancello è aperto, occupato in quel momento da una barella su cui due monatti depongono il capo dei gabellieri, caduto vittima della peste. Renzo attende che la barella si allontani, quindi pensa di attraversare il cancello: viene subito richiamato dalla guardia, che però acconsente a farlo passare quando il giovane gli lancia una moneta. Renzo entra in città e, fatti pochi passi, viene chiamato da un'altra guardia, alla quale non risponde e che lo lascia andare senza curarsi troppo di lui.
L'incontro con il passante
Renzo percorre una strada che conduce al canale del Naviglio e al cui centro c'è la croce di S. Eusebio, che troneggia in mezzo alla desolazione della città. Arrivato a un crocicchio, il giovane vede arrivare da destra un uomo che percorre la strada di Santa Teresa, al quale pensa di chiedere un'indicazione per raggiungere la casa di don Ferrante. Gli va incontro e si toglie il cappello in segno di rispetto, tenendolo con la mano sinistra e mettendo la destra all'interno del copricapo: il passante si spaventa, fa un passo indietro e minaccia Renzo con un bastone appuntito, gridandogli di allontanarsi subito. Il giovane montanaro non capisce il motivo di quel gesto e tuttavia se ne va senza esitare, continuando a camminare per la sua strada. Il passante torna a casa e racconta la sua disavventura, ovvero di avere incontrato un untore (evidentemente aveva scambiato Renzo per uno di questi fantomatici personaggi) che aveva tentato di gettargli addosso dell'unguento o della polvere che teneva nascosta in una scatola dentro il cappello. Purtroppo non c'era gente intorno, altrimenti avrebbe chiamato aiuto e l'untore sarebbe stato catturato, invece si è dovuto accontentare di sottrarsi a lui e scappare. L'autore osserva ironicamente che l'uomo vivrà ancora molti anni e continuerà a raccontare l'episodio, portandolo come prova inconfutabile dell'esistenza degli untori.
La donna sequestrata in casa
Renzo continua a camminare, pensando all'inspiegabile comportamento dell'uomo e ignorando il pericolo corso, concludendo che il passante era probabilmente un mezzo matto. Imbocca la strada di S. Marco e prosegue cercando in cerca di qualcun altro cui rivolgersi, senza peraltro vedere nessuno se non un cadavere deforme che giace in un fosso. A un tratto si sente chiamare da una donna, che vede affacciata dal terrazzino di una modesta casa isolata insieme a diversi figli: si avvicina e la donna gli spiega che lei e i bambini sono chiusi in casa per ordine del Tribunale di Sanità, poiché il marito è morto di peste e l'uscio è stato inchiodato, ma i commissari l'hanno dimenticata e dal mattino precedente nessuno è venuto a portar loro da mangiare. Lamenta che i figli rischiano di morire di fame, al che Renzo, colpito, decide di donare loro i due pani che ha acquistato il giorno prima e glieli porge in un paniere, che la donna cala dall'alto con una fune. Il giovane è soddisfatto dell'opera di misericordia compiuta, che gli sembra una riparazione per non aver restituito i pani trovati in strada durante il primo viaggio a Milano, durante il tumulto. Si scusa col dire che è straniero e che non saprebbe dove trovare un commissario di Sanità, ma promette che parlerà della donna alla prima persona ragionevole che incontrerà; la donna lo ringrazia e gli dice il nome della strada, perché possa indicarla per i soccorsi. Renzo le chiede a sua volta un'indicazione per la casa di don Ferrante, ma la donna non è in grado di aiutarlo. A quel punto il giovane si allontana.
I carri con i cadaveri degli appestati
Renzo sente un rumore di ruote e cavalli, accompagnato da tintinnii di campanelli, urla e schioccare di fruste, per quanto ancora non veda nessuno. Percorre tutta la strada e arriva in piazza S. Marco, dove vede ergersi al centro dello spiazzo l'orribile macchina della tortura, spettacolo frequente a quei tempi. Ve ne sono in tutte le piazze e gli spazi vuoti di Milano e servono a incutere timore a tutti quelli che infrangono la legge, pur essendo un rimedio eccessivo e inefficace in questi tempi di disordine e anarchia. Mentre osserva lo strumento, Renzo sente avvicinarsi sempre più il rumore e a un tratto vede un apparitore che avanza scuotendo un campanello, seguito da due cavalli che trainano a fatica un carro coi cadaveri degli appestati. Dietro il primo carro ce ne sono molti altri e alle ali del triste corteo ci sono monatti che spingono e frustano i cavalli tra le bestemmie. I poveri corpi sono in gran parte nudi o avvolti in luridi cenci, intrecciati tra loro come un gruppo di serpi e pronti a scuotersi a ogni sussulto dei carri, a lasciar cadere le teste fino a sbattere sulle ruote. Renzo osserva quel triste spettacolo e prega per i morti, cercando di allontanare il pensiero che, forse, insieme a quei cadaveri potrebbe esserci anche il corpo di Lucia. Una volta passato il convoglio funebre, Renzo attraversa la piazza e imbocca la strada alla sua sinistra, senza altra ragione se non quella che i carri sono andati dalla parte opposta.
Renzo chiede indicazioni a un prete
Renzo supera il ponte Marcellino e sbuca in Borgo Nuovo, sempre in cerca di qualcuno cui chiedere un'indicazione: a un certo punto vede un prete che indossa un farsetto e tiene in mano un bastone, intento a confessare qualcuno attraverso l'uscio socchiuso di una casa. Decide pertanto di rivolgersi a lui e si avvicina con cautela, mentre il religioso punta a terra il bastone per far capire al giovane che non deve avvicinarsi di più. Renzo gli domanda della casa di don Ferrante e il prete non solo gli fornisce precise indicazioni, ma gli spiega anche un itinerario che gli consenta di arrivare all'abitazione, essendo il giovane nuovo della città. Renzo ringrazia e riferisce al sacerdote della povera donna sequestrata in casa che ha incontrato poco prima, al che l'uomo promette che si rivolgerà a chi di dovere e poi si allontana. Anche Renzo si rimette in marcia e se anche ha ottenuto l'indicazione sperata, tuttavia il fatto di poter trovare la casa di don Ferrante lo riempie di inquietudine, in quanto lì saprà la verità, ovvero se Lucia è ancora viva o meno. Il giovane cerca comunque di farsi coraggio e di non perdersi d'animo, mentre continua a camminare.
Lo squallore e la desolazione della città
Renzo attraversa il carrobio di Porta Nuova, ormai una delle zone più squallide e desolate di tutta Milano: la furia del contagio è stata tale che i cadaveri hanno ammorbato le strade per molti giorni e i vivi se ne sono dovuti andare, mentre le orribili tracce della pestilenza sono ancora visibili nelle vie. Dopo pochi passi il giovane arriva in un'altra zona meno spopolata ma non meno triste a vedersi, dove infatti gli usci sono in gran parte inchiodati, altri sono segnati con una croce fatta col carbone per indicare ai monatti la presenza di cadaveri da portare via; in ogni angolo vi sono cenci, fasce piene di marciume, paglia infetta, lenzuola buttate dalle finestre; si vedono cadaveri ammassati in strada, di persone morte all'improvviso, o cadute dai carri, o gettate dalle finestre delle case; per tutto regna un silenzio spettrale, rotto solo dal rumore dei carri funebri, dai lamenti dei malati, dalle urla dei monatti. Del resto i due terzi dei cittadini sono morti e i pochi rimasti girano in strada sospettosi, inselvatichiti; tutti camminano con vesti corte senza mantelli, per non toccare niente e soprattutto per non esporsi alle aggressioni dei temuti untori. Gli uomini portano le barbe incolte e i capelli lunghi, non solo per trascuratezza ma anche perché i barbieri sono individui sospetti, specie dopo l'arresto di Gian Giacomo Mora poi condannato come untore. Molti tengono in una mano un bastone o una pistola e nell'altra pastiglie odorose e spugne intrise d'aceto che si crede possano tenere lontano il contagio, così come ampolle di argento vivo che molti tengono appese al collo; i conoscenti si salutano frettolosamente e da lontano, tutti camminano badando a non inciampare in qualche cadavere e schivando quel che possa venire gettato dalle finestre, moltiplicando le cautele specialmente nei confronti dei famigerati untori. Questo il triste e squallido spettacolo dei vivi e dei sani, dal momento che l'autore intende per ora risparmiare al lettore quello miserevole dei malati e dei poveri, che sarà mostrato a sufficienza all'interno del lazzaretto.
I monatti al lavoro
Renzo ha ormai compiuto buona parte del cammino e sta per svoltare in una strada, da cui sente arrivare un gran frastuono mescolato al solito lugubre tintinnio di campanelli. Arrivato all'angolo il giovane vede quattro carri fermi in mezzo alla via, intorno ai quali diversi monatti sono all'opera per caricare i cadaveri che portano fuori dalle case e che vengono buttati sui carri come fossero sacchi, in un mercato di granaglie. Molti monatti indossano la loro divisa rossa, altri portano abiti qualunque e altri ancora sfoggiano pennacchi e fiori di vari colori, come se per loro fosse festa in mezzo alla dolorosa epidemia. Ogni tanto da una finestra si affaccia qualcuno che richiama l'attenzione dei monatti e questi rispondono con bestemmie, accingendosi a entrare per compiere il loro squallido lavoro. Renzo allunga il passo e cerca di allontanarsi senza guardare i carri, se non quanto è necessario per scansarli.
La madre di Cecilia
A un tratto, però, Renzo vede qualcosa che attira la sua attenzione e che non può fare a meno di osservare, quasi senza volerlo: da una delle case esce una donna ancor giovane, la cui bellezza è offuscata da un grande dolore e dai segni della peste, che procede a fatica ma non senza dignità verso uno dei carri. Essa porta in braccio una bambina di circa nove anni, morta, ma con i capelli ben pettinati e indosso un vestitino bianco, come se la madre l'avesse preparata per una festa; la tiene sorretta e come seduta e appoggiata al suo petto, tanto che sembrerebbe viva se non fosse per una manina bianca che le cade da una parte e il piccolo capo reclinato sulla spalla della madre. Uno squallido monatto le si avvicina per prendere il corpicino, ma la donna dice di voler essere lei a deporre la figlia sul carro e dà all'uomo una borsa con del denaro, chiedendo che la bambina venga seppellita così com'è, senza essere denudata. Il monatto promette mettendosi una mano al petto, quindi (con rispetto e quasi commosso da quell'insolita scena) consente alla donna di deporre la morticina sul carro, dove essa la lascia dopo averle steso sopra un panno bianco. La donna dice addio alla figlia chiamandola per nome (Cecilia) e poi dice ai monatti di andare, preannunciando che a sera verranno a prendere anche lei insieme all'altra figlia superstite: infatti rientra in casa e dopo pochi momenti si affaccia alla finestra, con in braccio un'altra bambina più piccola, ancora viva ma con i segni della malattia in volto. La donna osserva il carro lasciare la strada, poi rientra e con ogni probabilità va a stendersi sul letto insieme alla figlia, aspettando di morire insieme, come un fiore già rigoglioso cade sul prato insieme al fiorellino appena sbocciato, tagliati entrambi dalla falce.
La condotta di ammalati al lazzaretto
Renzo, profondamente toccato da quella scena, prega per l'anima della donna e delle figlie, quindi supera la commozione e riprende la strada cercando di ricordare l'itinerario per giungere alla casa di don Ferrante. A un tratto da un angolo di strada sente giungere un rumore insolito, un suono confuso di grida minacciose e lamenti mescolati a un pianto di donne e a voci di bambini: va avanti e, giunto all'incrocio, vede un gruppo di ammalati che viene condotto al lazzaretto, per cui si fa da parte per lasciarli passare. Alcuni appestati si ribellano invano ai monatti e gridano di voler morire a casa propria, altri camminano in silenzio e come istupiditi; vi sono donne coi bambini in braccio, bambini spaventati dalle urla e che invocano la madre, forse rimasta a casa preda della peste e destinata a morire da sola, oppure dimentica persino dei figli a causa della malattia. Nella confusione non mancano esempi di sollecitudine, come padri e madri che confortano con buone parole i loro cari, e anche ragazzetti e fanciulle che guidano i fratellini più piccoli, raccomandando loro di essere ubbidienti e rassicurandoli circa il fatto che il luogo in cui andranno li accoglierà per farli guarire. Renzo sente una stretta al cuore, pensando che la casa di don Ferrante è vicina e che Lucia potrebbe anche essere tra quei malati; superato dalla triste processione, si rivolge a un monatto chiedendo un'indicazione, ma la risposta che riceve è solo un insulto. Il giovane vede poi in coda al convoglio un commissario dal viso più umano e gli rivolge la stessa domanda, al che l'uomo indica con un bastone la direzione da cui proviene spiegandogli come arrivare a destinazione.
Renzo giunge alla casa di don Ferrante ed è scambiato per un untore
Con una certa ansia in cuore, Renzo segue l'indicazione e non tarda a scorgere la casa di don Ferrante, più alta e maestosa di quelle accanto. Il portone è chiuso e il giovane vi si accosta, prendendo il martello e sollevandolo per bussare, esitando però come chi sta per ricevere una risposta temuta e che può determinare la vita o la morte. Alla fine si fa coraggio e bussa con decisione: si apre una finestra e, dall'interno, una donna fa capolino guardando fuori con gran diffidenza, come se chiunque nascondesse una minaccia. Renzo le domanda se tra la servitù c'è una giovane campagnola di nome Lucia e l'altra risponde che non c'è più, invitandolo ad andarsene. Renzo, costernato, chiede ulteriori spiegazioni e la donna risponde in modo sbrigativo che Lucia è al lazzaretto, ammalata di peste, poi richiude la finestra senza dar retta alle domande insistenti del giovane. Questi, sconvolto dalla notizia ricevuta e irritato dai modi della sua interlocutrice, afferra ancora il martello della porta e lo tiene per un po' sospeso in aria, stringendolo e storcendolo in mano; si volta per cercare qualcun altro cui chiedere informazioni, ma l'unica persona che vede è un'altra donna poco distante da lui, la quale con sguardo stravolto apre la bocca come per gridare, senza però emettere un suono, e agita le braccia e le mani grinzose come per attirare l'attenzione di qualche passante. Quando si accorge che Renzo la sta guardando la donna si scuote e, prima che il giovane possa dire qualunque cosa, lascia uscire il grido che aveva trattenuto a stento fino a quel momento, accusando Renzo di essere un untore.
Renzo rischia il linciaggio della folla
Renzo è sbalordito e tenta di correre verso la donna per farla stare zitta, ma non tarda ad accorgersi che alle urla di lei si è radunata in strada una piccola folla, non molto numerosa ma sufficiente per sopraffare facilmente un uomo solo. Allo stesso tempo la finestra della casa di don Ferrante si riapre e la donna di prima torna ad affacciarsi, accusando anche lei Renzo di essere un untore e incitando la folla a catturarlo. Il giovane capisce che non è il caso di trattenersi a dire le sue ragioni, quindi guarda il lato della strada in cui c'è meno gente e corre subito in quella direzione. Respinge con violenza due uomini che gli sbarrano il passo e si allontana di corsa, inseguito alle spalle dalla folla che grida "Dagli all'untore"; il giovane non vede dove trovare scampo e allora, angosciato e disperato per la situazione, si ferma su due piedi e si volta sfoderando il suo coltello, che brandisce all'indirizzo degli inseguitori invitando chi ha coraggio a farsi avanti.
Renzo salta sul carro dei morti
Renzo vede con sorpresa che i suoi inseguitori si sono fermati e sembrano guardare spaventati qualcos'altro che arriva dietro di lui: si volta e vede avanzare alle sue spalle un corteo di carri funebri condotti dai monatti, mentre dietro di essi c'è un altro gruppo di gente che vorrebbe dare addosso al presunto untore, ma si trattiene per lo stesso motivo. Vistosi tra due fuochi, Renzo pensa che i carri possono diventare la sua salvezza: rinfodera il coltello, prende la rincorsa verso un carro su cui ha intravisto un po' di spazio tra i cadaveri ammassati, spicca un gran salto e balza su di esso, accolto dagli schiamazzi e dai complimenti dei monatti. Uno di questi lo rassicura dicendogli che è come se fosse in chiesa, mentre un altro, per allontanare i popolani che ancora imprecano all'indirizzo di Renzo, afferra un lurido cencio di un cadavere e minaccia di scagliarlo verso di loro, cosa che induce gli ultimi ostinati a voltarsi e a scappare di corsa. I monatti prorompono in risa fragorose e Renzo, timidamente, li ringrazia dell'aiuto ricevuto, mentre loro si congratulano con lui credendolo davvero un untore e gli dicono che fa bene a spargere la peste e a sterminare la popolazione di Milano.
I monatti conducono Renzo al lazzaretto
Uno dei monatti porta un fiasco di vino alla bocca e, dopo una gran sorsata, lo porge a Renzo perché beva a sua volta: il giovane declina timidamente l'invito e un altro compagno osserva che il giovane sembra impaurito e non ha esattamente l'aria di un untore. Uno dei monatti che segue il carro a piedi chiede il fiasco per fare un brindisi alla salute del padrone del vino, il cui corpo giace nel carro più avanti: l'uomo fa un beffardo inchino da quella parte e dice parole irriguardose all'indirizzo del povero morto, osservando che il vino spetta loro come compenso delle fatiche compiute; poi si rivolge a Renzo e avanza dubbi sul fatto che sia davvero un untore, dato che ha rischiato seriamente la pelle. Mente tutti ridono, il monatto tracanna il vino e poi porge il fiasco ai compagni su un altro carro, che se lo passano l'un l'altro e infine lo scagliano sul selciato, inneggiando in modo atroce alla morìa. A questo punto i monatti intonano una canzonaccia volgare e le loro voci risuonano nel silenzio spettrale delle strade, insieme al tintinnio dei campanelli, agli zoccoli dei cavalli e al cigolio dei carri, riempiendo di sgomento quei pochi che ancora vivono nelle case circostanti. Renzo, tuttavia, pensando al pericolo corso trova quella musica persino piacevole, anche perché lo esime dall'imbarazzo di rispondere alle domande dei monatti; ringrazia in cuor suo la Provvidenza per averlo salvato e spia il momento propizio per andarsene alla chetichella dal carro, senza che i suoi liberatori facciano troppo schiamazzo col rischio di attirare contro di lui le ire di qualche malintenzionato.
Renzo arriva al lazzaretto
Renzo si guarda intorno e riconosce il luogo in cui passa il carro, ovvero il corso di Porta Orientale da dove era entrato a Milano due anni prima, e da dove era dovuto fuggire in seguito al suo arresto. Gli viene in mente che quella strada conduce al lazzaretto e infatti dopo un po' il carro si ferma e un commissario si fa avanti iniziando a discutere con un monatto, mentre un altro salta giù dal mezzo. Il giovane coglie al volo l'occasione per scendere anche lui, non prima di aver ringraziato i monatti per l'aiuto ricevuto, quindi si allontana in tutta fretta. L'uomo risponde ridendo che non sarà un poveraccio di untore come lui a spopolare Milano, cosa che per fortuna di Renzo nessuno sente nelle vicinanze.
Renzo, intanto, ha percorso la strada sino al borgo di Porta Orientale e passa ora di fronte al convento dei cappuccini, raggiungendo in breve il recinto esterno del lazzaretto. Già lì, ancor prima di entrare in quel luogo di sofferenza, si vede un'anticipazione delle miserie che deve contenere: ci sono gruppi di malati che entrano nel recinto, altri che siedono privi di forze sulle sponde del fossato che lo costeggia; altri appestati sono in preda al delirio, tra cui uno che dice cose senza senso a un compagno di sventura e un altro che osserva la scena con viso sorridente, come privo di senno. Lo spettacolo forse più assurdo e penoso è poi quello di un ammalato che siede in fondo al fossato, intento a cantare a squarciagola una allegra canzone contadinesca di tema amoroso, che stride in modo grottesco con lo squallore della scena. C'è anche un forsennato che è saltato in groppa a un cavallo e lo sprona a forza di pugni, inseguito tra le bestemmie dai monatti che tentano inutilmente di fermarlo, in un nugolo di polvere. Renzo si avvicina alla soglia del lazzaretto e resta un attimo lì fermo, come se esitasse a entrare in quello spazio di indicibili sofferenze.
Renzo, intanto, ha percorso la strada sino al borgo di Porta Orientale e passa ora di fronte al convento dei cappuccini, raggiungendo in breve il recinto esterno del lazzaretto. Già lì, ancor prima di entrare in quel luogo di sofferenza, si vede un'anticipazione delle miserie che deve contenere: ci sono gruppi di malati che entrano nel recinto, altri che siedono privi di forze sulle sponde del fossato che lo costeggia; altri appestati sono in preda al delirio, tra cui uno che dice cose senza senso a un compagno di sventura e un altro che osserva la scena con viso sorridente, come privo di senno. Lo spettacolo forse più assurdo e penoso è poi quello di un ammalato che siede in fondo al fossato, intento a cantare a squarciagola una allegra canzone contadinesca di tema amoroso, che stride in modo grottesco con lo squallore della scena. C'è anche un forsennato che è saltato in groppa a un cavallo e lo sprona a forza di pugni, inseguito tra le bestemmie dai monatti che tentano inutilmente di fermarlo, in un nugolo di polvere. Renzo si avvicina alla soglia del lazzaretto e resta un attimo lì fermo, come se esitasse a entrare in quello spazio di indicibili sofferenze.
Temi principali e collegamenti
- Protagonista assoluto del capitolo è Renzo, che torna a Milano due anni dopo il suo primo viaggio in città e affronta una serie di "prove" per scoprire il destino di Lucia, che apprenderà essere ammalata al lazzaretto. La città anche in questo caso appare sconvolta e in preda al disordine, non più a causa del tumulto popolare ma dell'epidemia di peste, rappresentando come nel precedente episodio uno spazio ricco di insidie per il campagnolo Renzo (sul punto si veda oltre). Il giovane è l'unico tra i personaggi principali a comparire in questo capitolo, in cui l'autore mostra da vicino e con una serie di quadri narrativi le miserie della peste che ha descritto in modo più oggettivo nella digressione dei capp. XXXI-XXXII.
- La parte iniziale è dominata dalla descrizione del tempo atmosferico, cupo e opprimente a causa delle nuvole che coprono il cielo e della mancanza di pioggia, particolari che accrescono l'angoscia di Renzo e creano una sottile inquietudine anche nel lettore. Il cielo plumbeo farà da sfondo anche ai capp. nel lazzaretto e la pioggia cadrà solo alla fine del XXXVI, preannunciando in certo quel modo la fine dell'epidemia.
- Il passante che scambia Renzo per un untore anticipa ciò che accadrà al giovane nell'ultima parte del capitolo, quando la donna in strada lo additerà alla folla come uno degli scellerati che spargono la peste a Milano: il primo è un uomo qualunque che diffida di tutti gli stranieri che incontra, la donna viene invece descritta come una vera e propria fattucchiera, con il viso e lo sguardo stravolto, le mani "grinzose e piegate a guisa d'artigli". Manzoni sottolinea la facilità con cui nella Milano della peste si poteva essere tacciati d'essere untori e il linciaggio cui miracolosamente sfugge Renzo è simile agli episodi reali già descritti nel cap. XXXII. L'ironia atroce è che i monatti che salvano Renzo lo scambiano essi pure per un untore, ma si congratulano con lui e lo incitano a diffondere l'epidemia, dalla quale ovviamente ricavano vantaggi e che hanno tutto l'interesse a far continuare (gli stessi monatti venivano accusati di essere untori).
- L'episodio della donna sequestrata in casa dai commissari ha una valenza simbolica, poiché Renzo le regala i due pani acquistati il giorno prima e pensa in tal modo di aver riparato alla mancata restituzione di quelli raccolti in occasione del suo primo viaggio a Milano, durante il tumulto. Il gesto di Renzo è parte del suo percorso di formazione e maturazione che si completa in questi capitoli, in quanto il giovane non è più animato da sentimenti di rabbia come nei capp. XII-XIII, ma agisce in modo misericordioso.
- Il capitolo è ovviamente una lunga serie di quadri descrittivi che aprono squarci sulla triste condizione della città spopolata dalla peste ed è un alternarsi continuo di comportamenti bestiali e atteggiamenti caritatevoli, mentre ciò che spicca è l'alterazione del tessuto sociale e il venir meno dei normali rapporti umani a causa della malattia, della diffidenza reciproca e della paura degli untori (la narrazione ha in parte come modello il Decameron di G. Boccaccio). Manzoni tocca qui forse i momenti più riusciti della sua arte di romanziere, come quando descrive i morti sul carro, il comportamento bieco e irriverente dei monatti, lo squallore delle strade cosparse di cadaveri gettati persino dalle finestre, la condotta dei malati al lazzaretto, senza dimenticare l'episodio della madre di Cecilia rimasto giustamente famoso (si veda sotto).
- L'episodio della donna che depone il corpicino della figlia Cecilia sul carro dei morti è uno dei più famosi del romanzo e rappresenta un momento lirico di altissimo valore artistico, giustamente celebrato dai principali critici della nostra letteratura: la pagina si ispira a un aneddoto realmente accaduto e narrato dal cardinal Borromeo nella sua opera De pestilentia, da cui Manzoni trae i punti essenziali senza alterare quasi nulla e aggiungendo solo il nome della bambina, assente nella fonte. La descrizione finale della donna che attende la morte insieme alla figlia superstite introduce una similitudine ("come il fiore già rigoglioso sullo stelo cade insieme col fiorellino ancora in boccia, al passar della falce che pareggia tutte l’erbe del prato") che ricorda quella usata da Virgilio nell'Eneide (IX, 435-38) per narrare la tragica morte in battaglia di Eurialo, l'amico di Niso ucciso da Volcente: Purpureus veluti cum flos succisus aratro / languescit moriens, lassove papavera collo / demisere caput, pluvia cum forte gravantur ("Come quando un fiore purpureo, tagliato dall'aratro, illanguidisce morendo, o i papaveri abbassano il capo sul loro stelo delicato quando sono fiaccati dalla pioggia"). Per approfondire: C. Angelini, L'episodio di Cecilia.
- Il carro dei monatti conduce Renzo nei pressi del lazzaretto, vicino a Porta Orientale dove già era passato due anni prima: il giovane passa anche di fronte al convento dei cappuccini dove avrebbe dovuto consegnare la lettera a padre Bonaventura (XI) e dove aveva poi pensato di rifugiarsi durante la sua fuga rocambolesca (XVI), salvo poi decidere di darsi alla macchia. Il particolare contribuisce a suggerire al lettore un senso di déja-vu, essendo molte le analogie tra questo viaggio di Renzo e il precedente (si veda oltre).
- La descrizione delle miserie del lazzaretto trova una ricca anticipazione nella parte finale di questo capitolo, in cui l'autore mostra un saggio di tutto ciò che verrà poi mostrato all'interno: è una lunga galleria di personaggi stravolti e dal comportamento insensato, tra cui spiccano l'appestato che guarda "in qua e in là con un visino ridente, come se assistesse a un lieto spettacolo" e quello che canta un'allegra canzone contadinesca in fondo al fossato. Il forsennato che corre sul cavallo al galoppo, invece, ricorda la fine di don Rodrigo al lazzaretto nel Fermo e Lucia, dove infatti tale particolare mancava nella descrizione dell'esterno del lazzaretto (la quale, per inciso, era decisamente inferiore sul piano artistico).
Renzo nella Milano della peste, una "discesa agli inferi"
F. Gonin, Renzo per le strade di Milano
Il secondo viaggio di Renzo a Milano durante l'epidemia di peste per avere notizie di Lucia ha il forte sapore di un déja-vu, poiché sono fortissime le analogie con il primo viaggio avvenuto durante il tumulto di S. Martino, benché vi siano anche molte differenze e, cosa più importante, diverso sarà l'esito finale per il protagonista. Anche in questo caso la città è sconvolta e in preda al disordine e al caos, e costituisce ancora una volta uno spazio ricco di insidie per l'ingenuo montanaro che la attraversa in cerca della sua amata, anche se a due anni di distanza dal primo viaggio Renzo è ora più maturo, ha imparato dai suoi errori e dimostra minore ingenuità, cosa che gli consentirà di sottrarsi alle situazioni pericolose in cui anche stavolta dovrà cacciarsi. La differenza principale è proprio questa, insieme al fatto che Milano non è più una città in rivolta ma è spopolata dal contagio e trasformata in un luogo di squallida desolazione, per cui al disordine sociale e politico è subentrato quello assai più grave della peste che distrugge i normali rapporti umani tra le persone; il viaggio di Renzo che la attraversa diventa perciò una sorta di descensus ad inferos ("discesa agli inferi") non più alla ricerca di giustizia, come durante la sommossa, ma per lo scopo assai più penoso di scoprire il destino di Lucia, quindi il suo diventa un percorso di maturazione e crescita personale che si concluderà propriamente nel lazzaretto ed era già iniziato dopo la fuga da Milano, specie nei capp. XVI-XVII prima di giungere all'Adda. Stavolta tale percorso di "formazione" avviene nel segno della misericordia e della carità cristiana e ciò consente al giovane filatore di superare i suoi limiti di carattere, di redimersi dagli errori commessi nel primo viaggio e, soprattutto, di vincere la sua sete di vendetta contro il suo persecutore, quel don Rodrigo che varie volte aveva progettato di uccidere e che troverà agonizzante nel lazzaretto, perdonandolo e pregando per la sua salvezza. Il cap. XXXIV è la prima parte di questo percorso finale e i punti di contatto con il primo viaggio sono numerosi, a cominciare dall'incontro col passante che lo scambia per un untore e minaccia di ucciderlo (nel cap. XI un uomo lo aveva indirizzato a Porta Orientale), il facile passaggio attraverso la porta presidiata dai gabellieri (allora timorosi per la sommossa, ora per la peste), fino all'episodio della donna sequestrata in casa cui Renzo dona i due pani acquistati il giorno prima, che ricordano esplicitamente quelli trovati presso la Croce di S. Dionigi e fonte per lui di infiniti guai (se quello era il "pane della Provvidenza" frutto della rivolta e del saccheggio, questo diventa un'opera di misericordia tanto necessaria quanto lodevole). Lo stesso spettacolo che si offre al viaggiatore nelle strade di Milano è di segno affatto diverso, poiché non si tratta più di popolani in agitazione e vogliosi di assaltare i forni per rubare il pane, verso cui Renzo aveva provato un'istintiva simpatia, ma di poveri appestati portati dai monatti al lazzaretto, oppure di cittadini inselvatichiti e sospettosi a causa dell'epidemia, che ispirano in Renzo sentimenti di carità cristiana e di compassione, non di approvazione e sete di giustizia sociale causate dai soprusi subìti, che in fondo lo avevano portato alla "perdizione" nel viaggio precedente e che adesso sembrano lontanissimi da lui. Al desiderio di giustizia e rivalsa è subentrata la rassegnazione cristiana e la misericordia, quindi la traversata della "città infernale" propone al viandante una serie di esperienze che gli insegnano una nuova sensibilità, lo preparano alla definitiva conversione che avverrà nel lazzaretto al capezzale di don Rodrigo morente e che vedrà padre Cristoforo nel ruolo di maestro spirituale, di guida fino a quel momento assente.
Anche in questo capitolo dunque Renzo si dimostra "eroe cercatore", sia pure di un oggetto diverso dal primo viaggio (Lucia e non la vendetta contro i potenti soverchiatori) e anche qui lo schema narrativo è simile agli episodi precedenti, con il protagonista in cammino che ad ogni passo vede qualcosa o incontra qualcuno che attira la sua attenzione, che costituisce un'insidia o un aiuto insperato. Anche lessicalmente ci sono indizi di questo meccanismo, con le indicazioni del movimento ("camminando", "ad ogni passo", "s'abbatteva... a passare") e degli incontri imprevisti che costituiscono il centro di tutta la descrizione ("vide", "il suo sguardo s'incontrò", "distingue subito", "Si voltò di nuovo, e vide..."), in una specie di crescendo che arriva al culmine di fronte alla casa di don Ferrante, dove scopre che Lucia è al lazzaretto e viene accusato di essere un untore, rischiando seriamente la vita. A questo punto il viaggio compie una svolta, poiché Renzo è nuovamente costretto a fuggire (ancora come nel cap. XVI, dopo l'arresto) e i suoi insperati salvatori sono i monatti, ovvero gli individui più ripugnanti e odiosi di tutta la città appestata: il finale del capitolo ha una cifra decisamente grottesca e ironica, perché i monatti, simili ai demoni di questa specie di inferno attraversato da Renzo, approvano il fatto che lui sia creduto un untore, gli offrono protezione e lo canzonano per la sua poca esperienza, la sua apparente ingenuità; il viaggio di Renzo sul carro dei morti in loro compagnia, costretto a sentire le loro beffe atroci a danno dei morti e le loro canzoni oscene, sembra il cammino di Dante e Virgilio sull'orlo della quinta bolgia con la scorta dei Malebranche (Inf., XXI-XXII), ha qualcosa di violentemente grottesco e tuttavia, al tempo stesso, è parte del percorso di ravvedimento del giovane, che anche in seguito a questa terribile esperienza diventerà un uomo migliore, più maturo e più saggio. Il viaggio sul carro ha anche una sfumatura "provvidenziale", poiché i monatti sono diretti al lazzaretto e dunque portano Renzo proprio dove dovrebbe andare senza bisogno di fare domande ai passanti, a rischio di cacciarsi nuovamente nei guai, e il giovane attraversa nuovamente i luoghi già visti in occasione del primo ingresso a Milano (XI-XII) e poi della fuga (XVI), come se tornasse al punto di partenza, preparandosi a entrare nel lazzaretto dove, inaspettatamente, troverà non solo Lucia, ma il punto finale della sua redenzione. La descrizione della parte esterna del lazzaretto, poi, costituisce una sorta di "vestibolo d'inferno" che anticipa tutte le miserie e le sofferenze che il viaggiatore troverà al suo interno, essendo tra l'altro anche quello uno spazio pieno di insidie per il protagonista e di prove da superare, in modo non molto diverso da quanto già mostrato nella città appena attraversata; non a caso Renzo si trattiene, alla fine del cap. XXXIV, sulla soglia del lazzaretto come se avesse un'esitazione a entrare, con più di un'analogia rispetto a Dante sulla porta dell'inferno allorché Virgilio lo prende per mano e lo mette "dentro a le segrete cose", mentre la differenza è che qui, accanto a Renzo, non c'è nessuno e il giovane dovrà trovare dentro di sé la forza di proseguire il viaggio, di concludere la sua disperata ricerca. Anche questo, in fondo, segna la principale differenza rispetto ai modelli letterari precedenti, poiché la dimensione religiosa qui è presente ma si esprime tutta e solo nell'animo del viaggiatore e la peste non è mai presentata come il giusto castigo di Dio per le colpe degli uomini, né il protagonista trova la salvezza fuggendo dalla città sconvolta come i dieci novellatori del Decameron, bensì la va a cercare proprio nel cuore della Milano stravolta dal morbo, nel lazzaretto che sarà presentato come il concentrato di tutto l'orrore della pestilenza e dove Renzo, attraverso il ricongiungimento con Lucia e il perdono a don Rodrigo, inizierà una nuova vita, diventando un uomo più maturo e consapevole (anche se il mistero della morte e del male nel mondo non verrà totalmente svelato e la prospettiva religiosa dell'autore resterà in fondo problematica, come più di un critico contemporaneo ha giustamente messo in evidenza).
Per approfondire: I. Calvino, Un mondo senza Provvidenza; E. Raimondi, Renzo eroe cercatore.
Anche in questo capitolo dunque Renzo si dimostra "eroe cercatore", sia pure di un oggetto diverso dal primo viaggio (Lucia e non la vendetta contro i potenti soverchiatori) e anche qui lo schema narrativo è simile agli episodi precedenti, con il protagonista in cammino che ad ogni passo vede qualcosa o incontra qualcuno che attira la sua attenzione, che costituisce un'insidia o un aiuto insperato. Anche lessicalmente ci sono indizi di questo meccanismo, con le indicazioni del movimento ("camminando", "ad ogni passo", "s'abbatteva... a passare") e degli incontri imprevisti che costituiscono il centro di tutta la descrizione ("vide", "il suo sguardo s'incontrò", "distingue subito", "Si voltò di nuovo, e vide..."), in una specie di crescendo che arriva al culmine di fronte alla casa di don Ferrante, dove scopre che Lucia è al lazzaretto e viene accusato di essere un untore, rischiando seriamente la vita. A questo punto il viaggio compie una svolta, poiché Renzo è nuovamente costretto a fuggire (ancora come nel cap. XVI, dopo l'arresto) e i suoi insperati salvatori sono i monatti, ovvero gli individui più ripugnanti e odiosi di tutta la città appestata: il finale del capitolo ha una cifra decisamente grottesca e ironica, perché i monatti, simili ai demoni di questa specie di inferno attraversato da Renzo, approvano il fatto che lui sia creduto un untore, gli offrono protezione e lo canzonano per la sua poca esperienza, la sua apparente ingenuità; il viaggio di Renzo sul carro dei morti in loro compagnia, costretto a sentire le loro beffe atroci a danno dei morti e le loro canzoni oscene, sembra il cammino di Dante e Virgilio sull'orlo della quinta bolgia con la scorta dei Malebranche (Inf., XXI-XXII), ha qualcosa di violentemente grottesco e tuttavia, al tempo stesso, è parte del percorso di ravvedimento del giovane, che anche in seguito a questa terribile esperienza diventerà un uomo migliore, più maturo e più saggio. Il viaggio sul carro ha anche una sfumatura "provvidenziale", poiché i monatti sono diretti al lazzaretto e dunque portano Renzo proprio dove dovrebbe andare senza bisogno di fare domande ai passanti, a rischio di cacciarsi nuovamente nei guai, e il giovane attraversa nuovamente i luoghi già visti in occasione del primo ingresso a Milano (XI-XII) e poi della fuga (XVI), come se tornasse al punto di partenza, preparandosi a entrare nel lazzaretto dove, inaspettatamente, troverà non solo Lucia, ma il punto finale della sua redenzione. La descrizione della parte esterna del lazzaretto, poi, costituisce una sorta di "vestibolo d'inferno" che anticipa tutte le miserie e le sofferenze che il viaggiatore troverà al suo interno, essendo tra l'altro anche quello uno spazio pieno di insidie per il protagonista e di prove da superare, in modo non molto diverso da quanto già mostrato nella città appena attraversata; non a caso Renzo si trattiene, alla fine del cap. XXXIV, sulla soglia del lazzaretto come se avesse un'esitazione a entrare, con più di un'analogia rispetto a Dante sulla porta dell'inferno allorché Virgilio lo prende per mano e lo mette "dentro a le segrete cose", mentre la differenza è che qui, accanto a Renzo, non c'è nessuno e il giovane dovrà trovare dentro di sé la forza di proseguire il viaggio, di concludere la sua disperata ricerca. Anche questo, in fondo, segna la principale differenza rispetto ai modelli letterari precedenti, poiché la dimensione religiosa qui è presente ma si esprime tutta e solo nell'animo del viaggiatore e la peste non è mai presentata come il giusto castigo di Dio per le colpe degli uomini, né il protagonista trova la salvezza fuggendo dalla città sconvolta come i dieci novellatori del Decameron, bensì la va a cercare proprio nel cuore della Milano stravolta dal morbo, nel lazzaretto che sarà presentato come il concentrato di tutto l'orrore della pestilenza e dove Renzo, attraverso il ricongiungimento con Lucia e il perdono a don Rodrigo, inizierà una nuova vita, diventando un uomo più maturo e consapevole (anche se il mistero della morte e del male nel mondo non verrà totalmente svelato e la prospettiva religiosa dell'autore resterà in fondo problematica, come più di un critico contemporaneo ha giustamente messo in evidenza).
Per approfondire: I. Calvino, Un mondo senza Provvidenza; E. Raimondi, Renzo eroe cercatore.
Clicca qui per ascoltare l'audio del capitolo dal sito www.liberliber.it
(voce narrante di Silvia Cecchini).
Capitolo XXXIV
In quanto alla maniera di penetrare in città, Renzo aveva sentito, così all’ingrosso, che c’eran ordini severissimi di non lasciar entrar nessuno, senza bulletta di sanità [1]; ma che in vece ci s’entrava benissimo, chi appena sapesse un po’ aiutarsi e cogliere il momento. Era infatti così; e lasciando anche da parte le cause generali, per cui in que’ tempi ogni ordine era poco eseguito; lasciando da parte le speciali, che rendevano così malagevole la rigorosa esecuzione di questo; Milano si trovava ormai in tale stato, da non veder cosa giovasse guardarlo, e da cosa; e chiunque ci venisse, poteva parer piuttosto noncurante della propria salute, che pericoloso a quella de’ cittadini.
Su queste notizie, il disegno di Renzo era di tentare d’entrar dalla prima porta a cui si fosse abbattuto; se ci fosse qualche intoppo, riprender le mura di fuori, finché ne trovasse un’altra di più facile accesso. E sa il cielo quante porte s’immaginava che Milano dovesse avere [2]. Arrivato dunque sotto le mura, si fermò a guardar d’intorno, come fa chi, non sapendo da che parte gli convenga di prendere, par che n’aspetti, e ne chieda qualche indizio da ogni cosa. Ma, a destra e a sinistra, non vedeva che due pezzi d’una strada storta; dirimpetto, un tratto di mura; da nessuna parte, nessun segno d’uomini viventi: se non che, da un certo punto del terrapieno, s’alzava una colonna d’un fumo oscuro e denso, che salendo s’allargava e s’avvolgeva in ampi globi, perdendosi poi nell’aria immobile e bigia. Eran vestiti, letti e altre masserizie infette che si bruciavano: e di tali triste fiammate se ne faceva di continuo, non lì soltanto, ma in varie parti delle mura. Il tempo era chiuso, l’aria pesante, il cielo velato per tutto da una nuvola o da un nebbione uguale, inerte, che pareva negare il sole, senza prometter la pioggia; la campagna d’intorno, parte incolta, e tutta arida; ogni verzura scolorita, e neppure una gocciola di rugiada sulle foglie passe [3] e cascanti. Per di più, quella solitudine, quel silenzio, così vicino a una gran città, aggiungevano una nuova costernazione all’inquietudine di Renzo, e rendevan più tetri tutti i suoi pensieri. Stato lì alquanto, prese la diritta [4], alla ventura, andando, senza saperlo, verso porta Nuova, della quale, quantunque vicina, non poteva accorgersi, a cagione d’un baluardo, dietro cui era allora nascosta. Dopo pochi passi, principiò a sentire un tintinnìo di campanelli [5], che cessava e ricominciava ogni tanto, e poi qualche voce d’uomo. Andò avanti e, passato il canto del baluardo, vide per la prima cosa, un casotto di legno, e sull’uscio, una guardia appoggiata al moschetto, con una cert’aria stracca e trascurata: dietro c’era uno stecconato, e dietro quello, la porta, cioè due alacce di muro, con una tettoia sopra, per riparare i battenti; i quali erano spalancati, come pure il cancello dello stecconato. Però, davanti appunto all’apertura, c’era in terra un tristo impedimento: una barella, sulla quale due monatti accomodavano un poverino, per portarlo via. Era il capo de’ gabellieri, a cui, poco prima, s’era scoperta la peste. Renzo si fermò, aspettando la fine: partito il convoglio, e non venendo nessuno a richiudere il cancello, gli parve tempo, e ci s’avviò in fretta; ma la guardia, con una manieraccia, gli gridò: - olà! - Renzo si fermò di nuovo su due piedi, e, datogli d’occhio, tirò fuori un mezzo ducatone [6], e glielo fece vedere. Colui, o che avesse già avuta la peste, o che la temesse meno di quel che amava i mezzi ducatoni, accennò a Renzo che glielo buttasse; e vistoselo volar subito a’ piedi, susurrò: - va’ innanzi presto -. Renzo non se lo fece dir due volte; passò lo stecconato, passò la porta, andò avanti, senza che nessuno s’accorgesse di lui, o gli badasse; se non che, quando ebbe fatti forse quaranta passi, sentì un altro - olà - che un gabelliere gli gridava dietro. Questa volta, fece le viste di non sentire, e, senza voltarsi nemmeno, allungò il passo. - Olà! - gridò di nuovo il gabelliere, con una voce però che indicava più impazienza che risoluzione di farsi ubbidire; e non essendo ubbidito, alzò le spalle, e tornò nella sua casaccia, come persona a cui premesse più di non accostarsi troppo ai passeggieri, che d’informarsi de’ fatti loro. La strada che Renzo aveva presa, andava allora, come adesso, diritta fino al canale detto il Naviglio: i lati erano siepi o muri d’orti, chiese e conventi, e poche case. In cima a questa strada, e nel mezzo di quella che costeggia il canale, c’era una colonna, con una croce detta la croce di sant’Eusebio. E per quanto Renzo guardasse innanzi, non vedeva altro che quella croce. Arrivato al crocicchio che divide la strada circa alla metà, e guardando dalle due parti, vide a dritta, in quella strada che si chiama lo stradone di santa Teresa, un cittadino che veniva appunto verso di lui. “Un cristiano, finalmente!” disse tra sé; e si voltò subito da quella parte, pensando di farsi insegnar la strada da lui. Questo pure aveva visto il forestiero che s’avanzava; e andava squadrandolo da lontano, con uno sguardo sospettoso; e tanto più, quando s’accorse che, in vece d’andarsene per i fatti suoi, gli veniva incontro. Renzo, quando fu poco distante, si levò il cappello, da quel montanaro rispettoso che era; e tenendolo con la sinistra, mise l’altra mano nel cocuzzolo [7], e andò più direttamente verso lo sconosciuto. Ma questo, stralunando gli occhi affatto, fece un passo addietro, alzò un noderoso bastone, e voltata la punta, ch’era di ferro, alla vita di Renzo, gridò: - via! via! via! - Oh oh! - gridò il giovine anche lui; rimise il cappello in testa, e, avendo tutt’altra voglia, come diceva poi, quando raccontava la cosa, che di metter su lite in quel momento, voltò le spalle a quello stravagante, e continuò la sua strada, o, per meglio dire, quella in cui si trovava avviato. L’altro tirò avanti anche lui per la sua, tutto fremente, e voltandosi, ogni momento, indietro. E arrivato a casa, raccontò che gli s’era accostato un untore, con un’aria umile, mansueta, con un viso d’infame impostore, con lo scatolino dell’unto, o l’involtino della polvere (non era ben certo qual de’ due) in mano, nel cocuzzolo del cappello, per fargli il tiro, se lui non l’avesse saputo tener lontano. - Se mi s’accostava un passo di più, - soggiunse, - l’infilavo addirittura, prima che avesse tempo d’accomodarmi me, il birbone. La disgrazia fu ch’eravamo in un luogo così solitario, ché se era in mezzo Milano, chiamavo gente, e mi facevo aiutare a acchiapparlo. Sicuro che gli si trovava quella scellerata porcheria nel cappello. Ma lì da solo a solo, mi son dovuto contentare di fargli paura, senza risicare di cercarmi un malanno; perché un po’ di polvere è subito buttata; e coloro hanno una destrezza particolare; e poi hanno il diavolo dalla loro. Ora sarà in giro per Milano: chi sa che strage fa! - E fin che visse, che fu per molt’anni, ogni volta che si parlasse d’untori, ripeteva la sua storia, e soggiungeva: - quelli che sostengono ancora che non era vero, non lo vengano a dire a me; perché le cose bisogna averle viste. Renzo, lontano dall’immaginarsi come l’avesse scampata bella, e agitato più dalla rabbia che dalla paura, pensava, camminando, a quell’accoglienza, e indovinava bene a un di presso ciò che lo sconosciuto aveva pensato di lui; ma la cosa gli pareva così irragionevole, che concluse tra sé che colui doveva essere un qualche mezzo matto. “La principia male, - pensava però: - par che ci sia un pianeta per me, in questo Milano. Per entrare, tutto mi va a seconda; e poi, quando ci son dentro, trovo i dispiaceri lì apparecchiati. Basta... coll’aiuto di Dio... se trovo... se ci riesco a trovare... eh! tutto sarà stato niente”. Arrivato al ponte, voltò, senza esitare, a sinistra, nella strada di san Marco, parendogli, a ragione, che dovesse condurre verso l’interno della città. E andando avanti, guardava in qua e in là, per veder se poteva scoprire qualche creatura umana; ma non ne vide altra che uno sformato cadavere nel piccol fosso che corre tra quelle poche case (che allora erano anche meno), e un pezzo della strada. Passato quel pezzo, sentì gridare: - o quell’uomo! - e guardando da quella parte, vide poco lontano, a un terrazzino d’una casuccia isolata, una povera donna, con una nidiata di bambini intorno; la quale, seguitandolo a chiamare, gli fece cenno anche con la mano. Ci andò di corsa; e quando fu vicino, - o quel giovine, - disse quella donna: - per i vostri poveri morti, fate la carità d’andare a avvertire il commissario che siamo qui dimenticati. Ci hanno chiusi in casa come sospetti, perché il mio povero marito è morto; ci hanno inchiodato l’uscio, come vedete; e da ier mattina, nessuno è venuto a portarci da mangiare. In tante ore che siam qui, non m’è mai capitato un cristiano che me la facesse questa carità: e questi poveri innocenti moion di fame. - Di fame! - esclamò Renzo; e, cacciate le mani nelle tasche, - ecco, ecco, - disse, tirando fuori i due pani: - calatemi giù qualcosa da metterli dentro. - Dio ve ne renda merito; aspettate un momento, - disse quella donna; e andò a cercare un paniere, e una fune da calarlo, come fece. A Renzo intanto gli vennero in mente que’ pani che aveva trovati vicino alla croce, nell’altra sua entrata in Milano [8], e pensava: “ecco: è una restituzione, e forse meglio che se gli avessi restituiti al proprio padrone: perché qui è veramente un’opera di misericordia”. In quanto al commissario che dite, la mia donna, - disse poi, mettendo i pani nel paniere, - io non vi posso servire in nulla; perché, per dirvi la verità, son forestiero, e non son niente pratico di questo paese. Però, se incontro qualche uomo un po’ domestico e umano, da potergli parlare, lo dirò a lui. La donna lo pregò che facesse così, e gli disse il nome della strada, onde lui sapesse indicarla. - Anche voi, - riprese Renzo, - credo che potrete farmi un piacere, una vera carità, senza vostro incomodo. Una casa di cavalieri, di gran signoroni [9], qui di Milano, casa *** sapreste insegnarmi dove sia? - So che la c’è questa casa, - rispose la donna: - ma dove sia, non lo so davvero. Andando avanti di qua, qualcheduno che ve la insegni, lo troverete. E ricordatevi di dirgli anche di noi. - Non dubitate, - disse Renzo, e andò avanti. A ogni passo, sentiva crescere e avvicinarsi un rumore che già aveva cominciato a sentire mentre era lì fermo a discorrere: un rumor di ruote e di cavalli, con un tintinnìo di carnpanelli, e ogni tanto un chioccar di fruste, con un accompagnamento d’urli. Guardava innanzi, ma non vedeva nulla. Arrivato allo sbocco di quella strada, scoprendosegli davanti la piazza di san Marco, la prima cosa che gli diede nell’occhio, furon due travi ritte, con una corda, e con certe carrucole; e non tardò a riconoscere (ch’era cosa famigliare in quel tempo) l’abbominevole macchina della tortura. Era rizzata in quel luogo, e non in quello soltanto, ma in tutte le piazze e nelle strade più spaziose, affinché i deputati d’ogni quartiere [10], muniti a questo d’ogni facoltà più arbitraria, potessero farci applicare immediatamente chiunque paresse loro meritevole di pena: o sequestrati che uscissero di casa, o subalterni che non facessero il loro dovere, o chiunque altro. Era uno di que’ rimedi eccessivi e inefficaci de’ quali, a quel tempo, e in que’ momenti specialmente, si faceva tanto scialacquìo. Ora, mentre Renzo guarda quello strumento, pensando perché possa essere alzato in quel luogo, sente avvicinarsi sempre più il rumore, e vede spuntar dalla cantonata della chiesa un uomo che scoteva un campanello: era un apparitore; e dietro a lui due cavalli che, allungando il collo, e puntando le zampe, venivano avanti a fatica; e strascinato da quelli, un carro di morti, e dopo quello un altro, e poi un altro e un altro; e di qua e di là, monatti alle costole de’ cavalli, spingendoli, a frustate, a punzoni, a bestemmie. Eran que’ cadaveri, la più parte ignudi, alcuni mal involtati in qualche cencio, ammonticchiati, intrecciati insieme, come un gruppo di serpi che lentamente si svolgano al tepore della primavera; ché, a ogni intoppo, a ogni scossa, si vedevan que’ mucchi funesti tremolare e scompaginarsi bruttamente, e ciondolar teste, e chiome verginali arrovesciarsi, e braccia svincolarsi, e batter sulle rote, mostrando all’occhio già inorridito come un tale spettacolo poteva divenire più doloroso e più sconcio. Il giovine s’era fermato sulla cantonata della piazza, vicino alla sbarra del canale, e pregava intanto per que’ morti sconosciuti. Un atroce pensiero gli balenò in mente: “forse là, là insieme, là sotto... Oh, Signore! fate che non sia vero! fate ch’io non ci pensi!” Passato il convoglio funebre, Renzo si mosse, attraversò la piazza, prendendo lungo il canale a mancina, senz’altra ragione della scelta, se non che il convoglio era andato dall’altra parte. Fatti que’ quattro passi tra il fianco della chiesa e il canale, vide a destra il ponte Marcellino; prese di lì, e riuscì in Borgo Nuovo. E guardando innanzi, sempre con quella mira di trovar qualcheduno da farsi insegnar la strada, vide in fondo a quella un.prete in farsetto, con un bastoncino in mano, ritto vicino a un uscio socchiuso, col capo chinato, e l’orecchio allo spiraglio; e poco dopo lo vide alzar la mano e benedire. Congetturò quello ch’era di fatto, cioè che finisse di confessar qualcheduno; e disse tra sé: “questo è l’uomo che fa per me. Se un prete, in funzion di prete, non ha un po’ di carità, un po’ d’amore e di buona grazia, bisogna dire che non ce ne sia più in questo mondo”. Intanto il prete, staccatosi dall’uscio, veniva dalla parte di Renzo, tenendosi, con gran riguardo, nel mezzo della strada. Renzo, quando gli fu vicino, si levò il cappello, e gli accennò che desiderava parlargli, fermandosi nello stesso tempo, in maniera da fargli intendere che non si sarebbe accostato di più. Quello pure si fermò, in atto di stare a sentire, puntando però in terra il suo bastoncino davanti a sé, come per farsene un baluardo. Renzo espose la sua domanda, alla quale il prete soddisfece, non solo con dirgli il nome della strada dove la casa era situata, ma dandogli anche, come vide che il poverino n’aveva bisogno, un po’ d’itinerario; indicandogli, cioè, a forza di diritte e di mancine, di chiese e di croci, quell’altre sei o otto strade che aveva da passare per arrivarci. - Dio la mantenga sano, in questi tempi, e sempre, - disse Renzo: e mentre quello si moveva per andarsene, - un’altra carità, - soggiunse; e gli disse della povera donna dimenticata. Il buon prete ringraziò lui d’avergli dato occasione di fare una carità così necessaria; e, dicendo che andava ad avvertire chi bisognava, tirò avanti. Renzo si mosse anche lui, e, camminando, cercava di fare a se stesso una ripetizione dell’itinerario, per non esser da capo a dover domandare a ogni cantonata. Ma non potreste immaginarvi come quell’operazione gli riuscisse penosa, e non tanto per la difficoltà della cosa in sé, quanto per un nuovo turbamento che gli era nato nell’animo. Quel nome della strada, quella traccia del cammino l’avevan messo così sottosopra. Era l’indizio che aveva desiderato e domandato, e del quale non poteva far di meno; né gli era stato detto nient’altro, da che potesse ricavare nessun augurio sinistro; ma che volete? quell’idea un po’ più distinta d’un termine vicino, dove uscirebbe d’una grand’incertezza, dove potrebbe sentirsi dire: è viva, o sentirsi dire: è morta; quell’idea l’aveva così colpito che, in quel momento, gli sarebbe piaciuto più di trovarsi ancora ai buio di tutto, d’essere al principio del viaggio, di cui ormai toccava la fine. Raccolse però le sue forze, e disse a se stesso: “ehi! se principiamo ora a fare il ragazzo, com’anderà?” Così rinfrancato alla meglio, seguitò la sua strada, inoltrandosi nella città. Quale città! e cos’era mai, al paragone, quello ch’era stata l’anno avanti, per cagion della fame! Renzo s’abbatteva appunto a passare per una delle parti più squallide e più desolate: quella crociata di strade [11] che si chiamava il carrobio di porta Nuova. (C’era allora una croce nel mezzo, e, dirimpetto ad essa, accanto a dove ora è san Francesco di Paola, una vecchia chiesa col titolo di sant’Anastasia). Tanta era stata in quel vicinato la furia del contagio, e il fetor de’ cadaveri lasciati lì che i pochi rimasti vivi erano stati costretti a sgomberare: sicché, alla mestizia che dava al passeggiero quell’aspetto di solitudine e d’abbandono, s’aggiungeva l’orrore e lo schifo delle tracce e degli avanzi della recente abitazione. Renzo affrettò il passo, facendosi coraggio col pensare che la meta non doveva essere così vicina, e sperando che, prima d’arrivarci, troverebbe mutata, almeno in parte, la scena; e infatti, di lì a non molto, riuscì in un luogo che poteva pur dirsi città di viventi; ma quale città ancora, e quali viventi! Serrati, per sospetto e per terrore, tutti gli usci di strada, salvo quelli che fossero spalancati per esser le case disabitate, o invase; altri inchiodati e sigillati, per esser nelle case morta o ammalata gente di peste; altri segnati d’una croce fatta col carbone, per indizio ai monatti, che c’eran de’ morti da portar via: il tutto più alla ventura che altro, secondo che si fosse trovato piuttosto qua che là un qualche commissario della Sanità o altro impiegato, che avesse voluto eseguir gli ordini, o fare un’angheria. Per tutto cenci e, più ributtanti de’ cenci, fasce marciose, strame ammorbato, o lenzoli buttati dalle finestre; talvolta corpi, o di persone morte all’improvviso, nella strada, e lasciati lì fin che passasse un carro da portarli via, o cascati da’ carri medesimi, o buttati anch’essi dalle finestre: tanto l’insistere e l’imperversar del disastro aveva insalvatichiti gli animi, e fatto dimenticare ogni cura di pietà, ogni, riguardo sociale! Cessato per tutto ogni rumor di botteghe, ogni strepito di carrozze, ogni grido di venditori, ogni chiacchierìo di passeggieri, era ben raro che quel silenzio di morte fosse rotto da altro che da rumor di carri funebri, da lamenti di poveri, da rammarichìo d’infermi, da urli di frenetici, da grida di monatti. All’alba, a mezzogiorno, a sera, una campana del duomo dava il segno di recitar certe preci assegnate dall’arcivescovo: a quel tocco rispondevan le campane dell’altre chiese; e allora avreste veduto persone affacciarsi alle finestre, a pregare in comune; avreste sentito un bisbiglio di voci e di gemiti, che spirava una tristezza mista pure di qualche conforto. Morti a quell’ora forse i due terzi de’ cittadini, andati via o ammalati una buona parte del resto, ridotto quasi a nulla il concorso della gente di fuori, de’ pochi che andavan per le strade, non se ne sarebbe per avventura, in un lungo giro, incontrato uno solo in cui non si vedesse qualcosa di strano, e che dava indizio d’una funesta mutazione di cose. Si vedevano gli uomini più qualificati [12], senza cappa né mantello, parte allora essenzialissima del vestiario civile; senza sottana i preti, e anche de’ religiosi in farsetto; dismessa in somma ogni sorte di vestito che potesse con gli svolazzi toccar qualche cosa, o dare (ciò che si temeva più di tutto il resto) agio agli untori. E fuor di questa cura d’andar succinti e ristretti il più che fosse possibile, negletta e trasandata ogni persona; lunghe le barbe di quelli che usavan portarle, cresciute a quelli che prima costumavan di raderle; lunghe pure e arruffate le capigliature, non solo per quella trascuranza che nasce da un invecchiato abbattimento, ma per esser divenuti sospetti i barbieri, da che era stato preso e condannato, come untor famoso, uno di loro, Giangiacomo Mora [13]: nome che, per un pezzo, conservò una celebrità municipale d’infamia, e ne meriterebbe una ben più diffusa e perenne di pietà. I più tenevano da una mano un bastone, alcuni anche una pistola, per avvertimento minaccioso a chi avesse voluto avvicinarsi troppo; dall’altra pasticche odorose, o palle di metallo o di legno traforate, con dentro spugne inzuppate d’aceti medicati; e se le andavano ogni tanto mettendo al naso, o ce le tenevano di continuo. Portavano alcuni attaccata al collo una boccetta con dentro un po’ d’argento vivo, persuasi che avesse la virtù d’assorbire e di ritenere ogni esalazione pestilenziale; e avevan poi cura di rinnovarlo ogni tanti giorni. I gentiluomini, non solo uscivano senza il solito seguito, ma si vedevano, con una sporta in braccio, andare a comprar le cose necessarie al vitto. Gli amici, quando pur due s’incontrassero per la strada, si salutavan da lontano, con cenni taciti e frettolosi. Ognuno, camminando, aveva molto da fare, per iscansare gli schifosi e mortiferi inciampi di cui il terreno era sparso e, in qualche luogo, anche affatto ingombro: ognuno cercava di stare in mezzo alla strada, per timore d’altro sudiciume, o d’altro più funesto peso che potesse venir giù dalle finestre; per timore delle polveri venefiche che si diceva esser spesso buttate da quelle su’ passeggieri; per timore delle muraglie, che potevan esser unte. Così l’ignoranza, coraggiosa e guardinga alla rovescia, aggiungeva ora angustie all’angustie, e dava falsi terrori, in compenso de’ ragionevoli e salutari che aveva levati da principio. Tal era ciò che di meno deforme e di men compassionevole si faceva vedere intorno, i sani, gli agiati: ché, dopo tante immagini di miseria, e pensando a quella ancor più grave, per mezzo alla quale dovrem condurre il lettore, non ci fermeremo ora a dir qual fosse lo spettacolo degli appestati che si strascicavano o giacevano per le strade, de’ poveri, de’ fanciulli, delle donne. Era tale, che il riguardante poteva trovar quasi un disperato conforto in ciò che ai lontani e ai posteri fa la più forte e dolorosa impressione; nel pensare, dico, nel vedere quanto que’ viventi fossero ridotti a pochi. In mezzo a questa desolazione aveva Renzo fatto già una buona parte del suo cammino, quando, distante ancor molti passi da una strada in cui doveva voltare, sentì venir da quella un vario frastono, nel quale si faceva distinguere quel solito orribile tintinnìo. Arrivato alla cantonata della strada, ch’era una delle più larghe, vide quattro carri fermi nel mezzo; e come, in un mercato di granaglie, si vede un andare e venire di gente, un caricare e un rovesciar di sacchi, tale era il movimento in quel luogo: monatti ch’entravan nelle case, monatti che n’uscivan con un peso su le spalle, e lo mettevano su l’uno o l’altro carro: alcuni con la divisa rossa, altri senza quel distintivo, molti con uno ancor più odioso, pennacchi e fiocchi di vari colori, che quegli sciagurati portavano come per segno d’allegria, in tanto pubblico lutto. Ora da una, ora da un’altra finestra, veniva una voce lugubre: - qua, monatti! - E con suono ancor più sinistro, da quel tristo brulichìo usciva qualche vociaccia che rispondeva: - ora, ora -. Ovvero eran pigionali [14] che brontolavano, e dicevano di far presto: ai quali i monatti rispondevano con bestemmie. Entrato nella strada, Renzo allungò il passo, cercando di non guardar quegl’ingombri, se non quanto era necessario per iscansarli; quando il suo sguardo s’incontrò in un oggetto singolare di pietà, d’una pietà che invogliava l’animo a contemplarlo; di maniera che si fermò, quasi senza volerlo. Scendeva dalla soglia d’uno di quegli usci, e veniva verso il convoglio, una donna, il cui aspetto annunziava una giovinezza avanzata, ma non trascorsa; e vi traspariva una bellezza velata e offuscata, ma non guasta, da una gran passione, e da un languor mortale: quella bellezza molle a un tempo e maestosa, che brilla nel sangue lombardo. La sua andatura era affaticata, ma non cascante; gli occhi non davan lacrime, ma portavan segno d’averne sparse tante; c’era in quel dolore un non so che di pacato e di profondo, che attestava un’anima tutta consapevole e presente a sentirlo. Ma non era il solo suo aspetto che, tra tante miserie, la indicasse così particolarmente alla pietà, e ravvivasse per lei quel sentimento ormai stracco e ammortito ne’ cuori. Portava essa in collo una bambina di forse nov’anni, morta; ma tutta ben accomodata, co’ capelli divisi sulla fronte, con un vestito bianchissimo, come se quelle mani l’avessero adornata per una festa promessa da tanto tempo, e data per premio. Né la teneva a giacere, ma sorretta, a sedere sur un braccio, col petto appoggiato al petto, come se fosse stata viva; se non che una manina bianca a guisa di cera spenzolava da una parte, con una certa inanimata gravezza, e il capo posava sull’omero della madre, con un abbandono più forte del sonno: della madre, ché, se anche la somiglianza de’ volti non n’avesse fatto fede, l’avrebbe detto chiaramente quello de’ due ch’esprimeva ancora un sentimento. Un turpe monatto andò per levarle la bambina dalle braccia, con una specie però d’insolito rispetto, con un’esitazione involontaria. Ma quella, tirandosi indietro, senza però mostrare sdegno né disprezzo, - no! - disse: - non me la toccate per ora; devo metterla io su quel carro: prendete -. Così dicendo, aprì una mano, fece vedere una borsa, e la lasciò cadere in quella che il monatto le tese. Poi continuò: - promettetemi di non levarle un filo d’intorno, né di lasciar che altri ardisca di farlo, e di metterla sotto terra così. Il monatto si mise una mano al petto; e poi, tutto premuroso, e quasi ossequioso, più per il nuovo sentimento da cui era come soggiogato, che per l’inaspettata ricompensa, s’affaccendò a far un po’ di posto sul carro per la morticina. La madre, dato a questa un bacio in fronte, la mise lì come sur un letto, ce l’accomodò, le stese sopra un panno bianco, e disse l’ultime parole: - addio, Cecilia! riposa in pace! Stasera verremo anche noi, per restar sempre insieme. Prega intanto per noi; ch’io pregherò per te e per gli altri -. Poi voltatasi di nuovo al monatto, - voi, - disse, - passando di qui verso sera, salirete a prendere anche me, e non me sola. Così detto, rientrò in casa, e, un momento dopo, s’affacciò alla finestra, tenendo in collo un’altra bambina più piccola, viva, ma coi segni della morte in volto. Stette a contemplare quelle così indegne esequie della prima, finché il carro non si mosse, finché lo poté vedere; poi disparve. E che altro poté fare, se non posar sul letto l’unica che le rimaneva, e mettersele accanto per morire insieme? come il fiore già rigoglioso sullo stelo cade insieme col fiorellino ancora in boccia, al passar della falce che pareggia tutte l’erbe del prato [15]. - O Signore! - esclamò Renzo: - esauditela! tiratela a voi, lei e la sua creaturina: hanno patito abbastanza! hanno patito abbastanza! Riavuto da quella commozione straordinaria, e mentre cerca di tirarsi in mente [16] l’itinerario per trovare se alla prima strada deve voltare, e se a diritta o a mancina, sente anche da questa venire un altro e diverso strepito, un suono confuso di grida imperiose, di fiochi lamenti, un pianger di donne, un mugolìo di fanciulli. Andò avanti, con in cuore quella solita trista e oscura aspettativa. Arrivato al crocicchio, vide da una parte una moltitudine confusa che s’avanzava, e si fermò lì, per lasciarla passare. Erano ammalati che venivan condotti al lazzeretto; alcuni, spinti a forza, resistevano in vano, in vano gridavano che volevan morire sul loro letto, e rispondevano con inutili imprecazioni alle bestemmie e ai comandi de’ monatti che li guidavano; altri camminavano in silenzio, senza mostrar dolore, né alcun altro sentimento, come insensati; donne co’ bambini in collo; fanciulli spaventati dalle grida, da quegli ordini, da quella compagnia, più che dal pensiero confuso della morte, i quali ad alte strida imploravano la madre e le sue braccia fidate, e la casa loro. Ahi! e forse la madre, che credevano d’aver lasciata addormentata sul suo letto, ci s’era buttata, sorpresa tutt’a un tratto dalla peste; e stava lì senza sentimento, per esser portata sur un carro al lazzeretto, o alla fossa, se il carro veniva più tardi. Forse, o sciagura degna di lacrime ancor più amare! la madre, tutta occupata de’ suoi patimenti, aveva dimenticato ogni cosa, anche i figli, e non aveva più che un pensiero: di morire in pace. Pure, in tanta confusione, si vedeva ancora qualche esempio di fermezza e di pietà: padri, madri, fratelli, figli, consorti, che sostenevano i cari loro, e gli accompagnavano con parole di conforto: né adulti soltanto, ma ragazzetti, ma fanciulline che guidavano i fratellini più teneri, e, con giudizio e con compassione da grandi, raccomandavano loro d’essere ubbidienti, gli assicuravano che s’andava in un luogo dove c’era chi avrebbe cura di loro per farli guarire. In mezzo alla malinconia e alla tenerezza di tali viste, una cosa toccava più sul vivo, e teneva in agitazione il nostro viaggiatore. La casa doveva esser lì vicina, e chi sa se tra quella gente... Ma passata tutta la comitiva, e cessato quel dubbio, si voltò a un monatto che veniva dietro, e gli domandò della strada e della casa di don Ferrante. - In malora, tanghero, - fu la risposta che n’ebbe. Né si curò di dare a colui quella che si meritava; ma, visto, a due passi, un commissario che veniva in coda al convoglio, e aveva un viso un po’ più di cristiano, fece a lui la stessa domanda. Questo, accennando con un bastone la parte donde veniva, disse: - la prima strada a diritta, l’ultima casa grande a sinistra. Con una nuova e più forte ansietà in cuore, il giovine prende da quella parte. È nella strada; distingue subito la casa tra l’altre, più basse e meschine; s’accosta al portone che è chiuso, mette la mano sul martello, e ce la tien sospesa, come in un’urna, prima di tirar su la polizza [17] dove fosse scritta la sua vita, o la sua morte. Finalmente alza il martello, e dà un picchio risoluto. Dopo qualche momento, s’apre un poco una finestra; una donna fa capolino, guardando chi era, con un viso ombroso che par che dica: monatti? vagabondi? commissari? untori? diavoli? - Quella signora, - disse Renzo guardando in su, e con voce non troppo sicura: - ci sta qui a servire una giovine di campagna, che ha nome Lucia? - La non c’è più; andate, - rispose quella donna, facendo atto di chiudere. - Un momento, per carità! La non c’è più? Dov’è? - Al lazzeretto -; e di nuovo voleva chiudere. - Ma un momento, per l’amor del cielo! Con la peste? - Già. Cosa nuova, eh? Andate. - Oh povero me! Aspetti: era ammalata molto? Quanto tempo è...? Ma intanto la finestra fu chiusa davvero. - Quella signora! quella signora! una parola, per carità! per i suoi poveri morti! Non le chiedo niente del suo: ohe! - Ma era come dire al muro. Afflitto della nuova, e arrabbiato della maniera, Renzo afferrò ancora il martello, e, così appoggiato alla porta, andava stringendolo e storcendolo, l’alzava per picchiar di nuovo alla disperata, poi lo teneva sospeso. In quest’agitazione, si voltò per vedere se mai ci fosse d’intorno qualche vicino, da cui potesse forse aver qualche informazione più precisa, qualche indizio, qualche lume. Ma la prima, l’unica persona che vide, fu un’altra donna, distante forse un venti passi; la quale, con un viso ch’esprimeva terrore, odio, impazienza e malizia, con cert’occhi stravolti che volevano insieme guardar lui, e guardar lontano, spalancando la bocca come in atto di gridare a più non posso, ma rattenendo anche il respiro, alzando due braccia scarne, allungando e ritirando due mani grinzose e piegate a guisa d’artigli, come se cercasse d’acchiappar qualcosa, si vedeva che voleva chiamar gente, in modo che qualcheduno non se n’accorgesse. Quando s’incontrarono a guardarsi, colei, fattasi ancor più brutta, si riscosse come persona sorpresa. - Che diamine...? - cominciava Renzo, alzando anche lui le mani verso la donna; ma questa, perduta la speranza di poterlo far cogliere all’improvviso, lasciò scappare il grido che aveva rattenuto fin allora: - l’untore! dàgli! dàgli! dàgli all’untore! - Chi? io! ah strega bugiarda! sta’ zitta, - gridò Renzo; e fece un salto verso di lei, per impaurirla e farla chetare. Ma s’avvide subito, che aveva bisogno piuttosto di pensare ai casi suoi. Allo strillar della vecchia, accorreva gente di qua e di là; non la folla che, in un caso simile, sarebbe stata, tre mesi prima; ma più che abbastanza per poter fare d’un uomo solo quel che volessero. Nello stesso tempo, s’aprì di nuovo la finestra, e quella medesima sgarbata di prima ci s’affacciò questa volta, e gridava anche lei: - pigliatelo, pigliatelo; che dev’essere uno di que’ birboni che vanno in giro a unger le porte de’ galantuomini. Renzo non istette lì a pensare: gli parve subito miglior partito sbrigarsi da coloro, che rimanere a dir le sue ragioni: diede un’occhiata a destra e a sinistra, da che parte ci fosse men gente, e svignò di là. Rispinse con un urtone uno che gli parava la strada; con un gran punzone [18] nel petto, fece dare indietro otto o dieci passi un altro che gli correva incontro; e via di galoppo, col pugno in aria, stretto, nocchiuto, pronto per qualunque altro gli fosse venuto tra’ piedi. La strada davanti era sempre libera; ma dietro le spalle sentiva il calpestìo e, più forti del calpestìo, quelle grida amare: - dàgli! dàgli! all’untore! - Non sapeva quando fossero per fermarsi; non vedeva dove si potrebbe mettere in salvo. L’ira divenne rabbia, l’angoscia si cangiò in disperazione; e, perso il lume degli occhi, mise mano al suo coltellaccio, lo sfoderò, si fermò su due piedi, voltò indietro il viso più torvo e più cagnesco che avesse fatto a’ suoi giorni; e, col braccio teso, brandendo in aria la lama luccicante, gridò: - chi ha cuore, venga avanti, canaglia! che l’ungerò io davvero con questo. Ma, con maraviglia, e con un sentimento confuso di consolazione, vide che i suoi persecutori s’eran già fermati, e stavan lì come titubanti, e che, seguitando a urlare, facevan, con le mani per aria, certi cenni da spiritati, come a gente che venisse di lontano dietro a lui. Si voltò di nuovo, e vide (ché il gran turbamento non gliel aveva lasciato vedere un momento prima) un carro che s’avanzava, anzi una fila di que’ soliti carri funebri, col solito accompagnamento; e dietro, a qualche distanza, un altro mucchietto di gente che avrebbero voluto anche loro dare addosso all’untore, e prenderlo in mezzo; ma eran trattenuti dall’impedimento medesimo. Vistosi così tra due fuochi, gli venne in mente che ciò che era di terrore a coloro, poteva essere a lui di salvezza; pensò che non era tempo di far lo schizzinoso; rimise il coltellaccio nel fodero, si tirò da una parte, prese la rincorsa verso i carri, passò il primo, e adocchiò nel secondo un buono spazio voto. Prende la mira, spicca un salto; è su, piantato sul piede destro, col sinistro in aria, e con le braccia alzate. - Bravo! bravo! - esclamarono, a una voce, i monatti, alcuni de’ quali seguivano il convoglio a piedi, altri eran seduti sui carri, altri, per dire l’orribil cosa com’era, sui cadaveri, trincando da un gran fiasco che andava in giro. - Bravo! bel colpo! - Sei venuto a metterti sotto la protezione de’ monatti; fa’ conto d’essere in chiesa [19], - gli disse uno de’ due che stavano sul carro dov’era montato. I nemici, all’avvicinarsi del treno, [20] avevano, i più, voltate le spalle, e se n’andavano, non lasciando di gridare: - dàgli! dàgli! all’untore! - Qualcheduno si ritirava più adagio, fermandosi ogni tanto, e voltandosi, con versacci e con gesti di minaccia, a Renzo; il quale, dal carro, rispondeva loro dibattendo i pugni in aria. - Lascia fare a me, - gli disse un monatto; e strappato d’addosso a un cadavere un laido cencio, l’annodò in fretta, e, presolo per una delle cocche, l’alzò come una fionda verso quegli ostinati, e fece le viste di buttarglielo, gridando: - aspetta, canaglia! - A quell’atto, fuggiron tutti, inorriditi; e Renzo non vide più che schiene di nemici, e calcagni che ballavano rapidamente per aria, a guisa di gualchiere [21]. Tra i monatti s’alzò un urlo di trionfo, uno scroscio procelloso di risa, un - uh! - prolungato, come per accompagnar quella fuga. - Ah ah! vedi se noi sappiamo proteggere i galantuomini? disse a Renzo quel monatto: - val più uno di noi che cento di que’ poltroni. - Certo, posso dire che vi devo la vita, - rispose Renzo: - e vi ringrazio con tutto il cuore. - Di che cosa? - disse il monatto: - tu lo meriti: si vede che sei un bravo giovine. Fai bene a ungere questa canaglia: ungili, estirpali costoro, che non vaglion qualcosa, se non quando son morti; che, per ricompensa della vita che facciamo, ci maledicono, e vanno dicendo che, finita la morìa, ci voglion fare impiccar tutti. Hanno a finir prima loro che la morìa, e i monatti hanno a restar soli, a cantar vittoria, e a sguazzar per Milano. - Viva la morìa, e moia la marmaglia! - esclamò l’altro; e, con questo bel brindisi, si mise il fiasco alla bocca, e, tenendolo con tutt’e due le mani, tra le scosse del carro, diede una buona bevuta, poi lo porse a Renzo, dicendo: - bevi alla nostra salute. - Ve l’auguro a tutti, con tutto il cuore, - disse Renzo: - ma non ho sete; non ho proprio voglia di bere in questo momento. - Tu hai avuto una bella paura, a quel che mi pare, - disse il monatto: - m’hai l’aria d’un pover’uomo; ci vuol altri visi a far l’untore. - Ognuno s’ingegna come può, - disse l’altro. - Dammelo qui a me, - disse uno di quelli che venivano a piedi accanto al carro, - ché ne voglio bere anch’io un altro sorso, alla salute del suo padrone, che si trova qui in questa bella compagnia... lì, lì, appunto, mi pare, in quella bella carrozzata. E, con un suo atroce e maledetto ghigno, accennava il carro davanti a quello su cui stava il povero Renzo. Poi, composto il viso a un atto di serietà ancor più bieco e fellonesco, fece una riverenza da quella parte, e riprese: - si contenta, padron mio, che un povero monattuccio assaggi di quello della sua cantina? Vede bene: si fa certe vite: siam quelli che l’abbiam messo in carrozza, per condurlo in villeggiatura. E poi, già a loro signori il vino fa subito male: i poveri monatti han lo stomaco buono. E tra le risate de’ compagni, prese il fiasco, e l’alzò; ma, prima di bere, si voltò a Renzo, gli fissò gli occhi in viso, e gli disse, con una cert’aria di compassione sprezzante: - bisogna che il diavolo col quale hai fatto il patto, sia ben giovine; ché, se non eravamo lì noi a salvarti, lui ti dava un bell’aiuto -. E tra un nuovo scroscio di risa, s’attaccò il fiasco alle labbra. - E noi? eh! e noi? - gridaron più voci dal carro ch’era avanti. Il birbone, tracannato quanto ne volle, porse, con tutt’e due le mani, il gran fiasco a quegli altri suoi simili, i quali se lo passaron dall’uno all’altro, fino a uno che, votatolo, lo prese per il collo, gli fece fare il mulinello, e lo scagliò a fracassarsi sulle lastre, gridando: - viva la morìa! - Dietro a queste parole, intonò una loro canzonaccia; e subito alla sua voce s’accompagnaron tutte l’altre di quel turpe coro. La cantilena infernale, mista al tintinnìo de’ campanelli, al cigolìo de’ carri, al calpestìo de’ cavalli, risonava nel voto silenzioso delle strade, e, rimbombando nelle case, stringeva amaramente il cuore de’ pochi che ancor le abitavano. Ma cosa non può alle volte venire in acconcio? [22] cosa non può far piacere in qualche caso? Il pericolo d’un momento prima aveva resa più che tollerabile a Renzo la compagnia di que’ morti e di que’ vivi; e ora fu a’ suoi orecchi una musica, sto per dire, gradita, quella che lo levava dall’impiccio d’una tale conversazione. Ancor mezzo affannato, e tutto sottosopra, ringraziava intanto alla meglio in cuor suo la Provvidenza, d’essere uscito d’un tal frangente, senza ricever male né farne; la pregava che l’aiutasse ora a liberarsi anche da’ suoi liberatori; e dal canto suo, stava all’erta, guardava quelli, guardava la strada, per cogliere il tempo di sdrucciolar giù quatto quatto, senza dar loro occasione di far qualche rumore, qualche scenata, che mettesse in malizia i passeggieri [23]. Tutt’a un tratto, a una cantonata, gli parve di riconoscere il luogo: guardò più attentamente, e ne fu sicuro. Sapete dov’era? Sul corso di porta orientale, in quella strada per cui era venuto adagio, e tornato via in fretta, circa venti mesi prima. Gli venne subito in mente che di lì s’andava diritto al lazzeretto; e questo trovarsi sulla strada giusta, senza studiare, senza domandare, l’ebbe per un tratto speciale della Provvidenza, e per buon augurio del rimanente. In quel punto, veniva incontro ai carri un commissario, gridando a’ monatti di fermare, e non so che altro: il fatto è che il convoglio si fermò, e la musica si cambiò in un diverbio rumoroso, Uno de’ monatti ch’eran sul carro di Renzo, saltò giù: Renzo disse all’altro: - vi ringrazio della vostra carità: Dio ve ne renda merito -; e giù anche lui, dall’altra parte. - Va’, va’, povero untorello, - rispose colui: - non sarai tu quello che spianti [24] Milano. Per fortuna, non c’era chi potesse sentire. Il convoglio era fermato sulla sinistra del corso: Renzo prende in fretta dall’altra parte, e, rasentando il muro, trotta innanzi verso il ponte; lo passa, continua per la strada del borgo, riconosce il convento de’ cappuccini, è vicino alla porta, vede spuntar l’angolo del lazzeretto, passa il cancello, e gli si spiega davanti la scena esteriore di quel recinto: un indizio appena e un saggio, e già una vasta, diversa, indescrivibile scena. Lungo i due lati che si presentano a chi guardi da quel punto, era tutto un brulichìo; erano ammalati che andavano, in compagnie, al lazzeretto; altri che sedevano o giacevano sulle sponde del fossato che lo costeggia; sia che le forze non fosser loro bastate per condursi fin dentro al ricovero, sia che, usciti di là per disperazione, le forze fosser loro ugualmente mancate per andar più avanti. Altri meschini erravano sbandati, come stupidi, e non pochi fuor di sé affatto; uno stava tutto infervorato a raccontar le sue immaginazioni a un disgraziato che giaceva oppresso dal male; un altro dava nelle smanie; un altro guardava in qua e in là con un visino ridente, come se assistesse a un lieto spettacolo. Ma la specie più strana e più rumorosa d’una tal trista allegrezza, era un cantare alto e continuo, il quale pareva che non venisse fuori da quella miserabile folla, e pure si faceva sentire più che tutte l’altre voci: una canzone contadinesca d’amore gaio e scherzevole, di quelle che chiamavan villanelle; e andando con lo sguardo dietro al suono, per iscoprire chi mai potesse esser contento, in quel tempo, in quel luogo, si vedeva un meschino che, seduto tranquillamente in fondo al fossato, cantava a più non posso, con la testa per aria. Renzo aveva appena fatti alcuni passi lungo il lato meridionale dell’edifizio, che si sentì in quella moltitudine un rumore straordinario, e di lontano voci che gridavano: guarda! piglia! S’alza in punta di piedi, e vede un cavallaccio che andava di carriera, spinto da un più strano cavaliere: era un frenetico [25] che, vista quella bestia sciolta e non guardata, accanto a un carro, c’era montato in fretta a bisdosso [26], e, martellandole il collo co’ pugni, e facendo sproni de’ calcagni, la cacciava in furia; e monatti dietro, urlando; e tutto si ravvolse in un nuvolo di polvere, che volava lontano. Così, già sbalordito e stanco di veder miserie, il giovine arrivò alla porta di quel luogo dove ce n’erano adunate forse più che non ce ne fosse di sparse in tutto lo spazio che gli era già toccato di percorrere. S’affaccia a quella porta, entra sotto la volta, e rimane un momento immobile a mezzo del portico. |
5 10 15 20 25 30 35 40 45 50 55 60 65 70 75 80 85 90 95 100 105 110 115 120 125 130 135 140 145 150 155 160 165 170 175 180 185 190 195 200 205 210 215 220 225 230 235 240 245 250 255 260 265 270 275 280 285 290 295 300 305 310 315 320 325 330 335 340 345 350 355 360 365 370 375 380 385 390 |
Note
- Il certificato di sanità.
- La città di Milano nel XVII sec. aveva solo sei porte principali, ovvero Porta Orientale, Romana, Ticinese, Vercellina, Comasina e Nuova. L'ingenuità del montanaro Renzo lo porta a pensare che la città, per lui enorme, abbia tantissime porte data la lunghezza della cinta muraria.
- Appassite.
- La destra.
- Quelli degli apparitori e dei monatti.
- Il ducatone era una moneta d'argento del valore di circa cinque lire.
- La parte vuota del cappello (il gesto era fatto dagli uomini di campagna in segno di rispetto e Renzo lo aveva già mostrato con l'Azzecca-garbugli, nel cap. III).
- Il riferimento è al cap. XI, quando Renzo aveva trovato tre pagnotte a terra accanto alla Croce di S. Dionigi.
- La casa di don Ferrante e donna Prassede.
- Erano civili investiti di poteri pubblici nell'emergenza della peste.
- Crocicchio, incrocio di strade.
- Più illustri.
- G.G. Mora era il barbiere ingiustamente accusato di essere un untore complice di G. Piazza e processato nell'ambito del processo del 1630, oggetto della Storia della colonna infame.
- Gli inquilini delle case a pigione, gli affittuari.
- La similitudine è tratta da quella, altrettanto celebre, della morte di Eurialo nell'Eneide (IX, 435-438).
- Ricordarsi.
- La polizza era un cartellino con su scritto un nome per una votazione segreta.
- Con un gran pugno.
- Nel Seicento le chiese offrivano un sicuro asilo a lestofanti e ricercati dalla legge, come detto più volte nel romanzo.
- Del convoglio di carri.
- Le gualchière erano macchine dotate di grossi pestelli, che si alzavano e abbassavano spinti dalla forza dell'acqua di un mulino (venivano utilizzate nell'industria tessile e conciaria).
- Riuscire opportuno.
- Che destasse sospetto nei passanti.
- Spopoli.
- Un appestato in preda al delirio.
- Sul dorso nudo dell'animale, senza sella.