Capitolo XXXII
F. Gonin, La processione dell'11 giugno 1630
"L'undici giugno, ch'era il giorno stabilito,
la processione uscì, sull'alba, dal duomo.
Andava dinanzi una lunga schiera di popolo, donne la più parte, coperte il volto d'ampi zendali, molte scalze, e vestite di sacco.
Nel mezzo, tra il chiarore di più fitti lumi,
sotto un ricco baldacchino, s'avanzava la cassa, portata da quattro canonici, parati in gran pompa. Dai cristalli traspariva il venerato cadavere, vestito di splendidi abiti pontificali,
e mitrato il teschio; e nelle forme mutilate
e scomposte, si poteva ancora distinguere qualche vestigio dell'antico sembiante,
quale lo rappresentano l'immagini..."
la processione uscì, sull'alba, dal duomo.
Andava dinanzi una lunga schiera di popolo, donne la più parte, coperte il volto d'ampi zendali, molte scalze, e vestite di sacco.
Nel mezzo, tra il chiarore di più fitti lumi,
sotto un ricco baldacchino, s'avanzava la cassa, portata da quattro canonici, parati in gran pompa. Dai cristalli traspariva il venerato cadavere, vestito di splendidi abiti pontificali,
e mitrato il teschio; e nelle forme mutilate
e scomposte, si poteva ancora distinguere qualche vestigio dell'antico sembiante,
quale lo rappresentano l'immagini..."
Personaggi:
Luoghi: Tempo: Temi: Trama: |
_Antonio Ferrer, Ambrogio Spinola, Federigo Borromeo, i monatti
Milano, il lazzaretto Da maggio ad agosto 1630 La guerra di Mantova e del Monferrato, Nobiltà e potere, La peste, Chiesa e religione I magistrati di Milano chiedono al governatore provvedimenti fiscali per far fronte alla peste, senza successo, quindi si rivolgono al cardinal Borromeo per una processione solenne. Si diffonde in città e nel contado la paura degli untori. Episodi di linciaggio della folla. Borromeo acconsente alla processione, che si svolge l'11 giugno 1630. La furia del contagio aumenta e la folla ne attribuisce la causa agli untori. Monatti, apparitori, commissari. I padri cappuccini assicurano il governo del lazzaretto. L'impegno degli ecclesiastici e del cardinal Borromeo. Le autorità sono impotenti e i monatti diventano i padroni delle strade. Si diffondono le leggende più assurde sugli untori e anche i dotti sostengono teorie fallaci. Opinioni di Borromeo e Muratori sugli untori. I processi a carico dei presunti untori. Preannuncio della Storia della colonna infame. |
I magistrati chiedono aiuto al governatore contro l'epidemia
L'epidemia continua a diffondersi a Milano e il 4 maggio 1630 i magistrati cittadini decidono di rivolgersi al governatore, nel frattempo ripartito a porre l'assedio a Casale. Due emissari lo raggiungono sul campo di battaglia e gli chiedono provvedimenti fiscali urgenti per far fronte all'emergenza, tra cui la sospensione delle imposte governative e la cessazione di nuovi alloggiamenti militari, pregandolo inoltre di informare il re della situazione. Ambrogio Spinola risponde con una lettera in cui manifesta profondo dispiacere e promette alcuni vaghi provvedimenti, di fatto però non assumendo alcuna decisione concreta. Il gran cancelliere Antonio Ferrer gli scrive manifestandogli il disappunto della città, tuttavia il carteggio non sortisce effetti e poco dopo il governatore gli trasferisce ogni potere riguardo alla peste, dal momento che lui deve occuparsi delle questioni militari. Lo scrittore osserva incidentalmente che la guerra finirà con un nulla di fatto, poiché dopo un milione di morti causati principalmente dalla peste, dopo le devastazioni compiute dai soldati tedeschi in Lombardia e il tremendo saccheggio di Mantova, alla fine i belligeranti riconosceranno il duca di Nevers come signore di quella città, mentre altri trattati politici verranno conclusi tra le parti in causa portando a cessioni inconcludenti di territori.
Richiesta al cardinal Borromeo di indire una processione. Gli untori
I magistrati di Milano prendono anche un'altra decisione, ovvero chiedere al cardinal Borromeo di indire una processione solenne per portare il corpo di S. Carlo per le vie della città, al fine di stornare la minaccia della peste. Federigo sulle prime rifiuta, dal momento che, in caso di insuccesso, la cittadinanza potrebbe perdere la propria fiducia nella protezione del santo, inoltre teme che il radunarsi della folla dia modo ai cosiddetti "untori" di spargere più facilmente le loro sostanze venefiche, ammesso che tali personaggi esistano, mentre in ogni caso l'afflusso di gente per le strade aumenterebbe il rischio di contagio. A Milano infatti il sospetto delle "unzioni" è tornato a diffondersi e molti credono di vedere le mura e gli usci delle case imbrattati da strane sostanze, per cui tali notizie volano di bocca in bocca e ben presto tutti o quasi sono convinti dell'esistenza degli untori, cosa che accresce il furore popolare. Si pensa che gli unguenti venefici siano composti di rospi, serpenti, bava degli appestati, che gli untori si servano di incantesimi e magie; le prime unzioni non avevano dato effetto solo perché gli scellerati non erano ancora esperti, trattandosi delle prime prove. Nessuno osa negare apertamente che esista una sorta di complotto per spargere la peste, chi lo facesse passerebbe per pazzo o, peggio, per complice degli untori. I cittadini iniziano a sospettare di chiunque e, ben presto, si verificano i primi casi di linciaggio e di giustizia sommaria.
Due casi di linciaggio contro presunti untori
Il Ripamonti cita nella sua storia della peste due fatti che provano il crescente furore popolare contro i presunti untori, non perché tali episodi siano più gravi di altri ma solo perché lo scrittore secentesco vi aveva assistito di persona. Un giorno, nella chiesa di S. Antonio, un vecchio ottantenne prega in ginocchio per qualche tempo e poi, prima di mettersi a sedere, spolvera la panca col proprio mantello. Alcune donne gridano che il vecchio "unge" le panche e gli uomini presenti gli si gettano contro, prendendolo per i capelli e tempestandolo di calci e pugni, per poi trascinarlo fuori dalla chiesa e portarlo al palazzo di giustizia (è improbabile che l'uomo sia sopravvissuto). L'altro caso ha per protagonisti tre giovani francesi presenti a Milano, i quali sono visti mentre si accostano al Duomo e ne toccano le mura, probabilmente solo per curiosità o studio. La folla li riconosce come francesi dal vestiario e ciò è sufficiente a dar loro la taccia di untori: vengono circondanti, malmenati e trascinati al palazzo di giustizia, dove per loro fortuna vengono riconosciuti innocenti e liberati.
La caccia agli untori. Il cardinale acconsente alla processione
La psicosi degli untori non si sparge solo in città, ma anche nelle campagne intorno a Milano e un po' dappertutto in Lombardia, al punto che chiunque appaia solo sospetto, come il viandante uscito dalla strada principale o il forestiero dall'aspetto bizzarro, viene immediatamente accusato dalla folla e preso a calci e pugni, oppure portato in prigione dove, almeno in un primo tempo, questi sventurati possono trovare la salvezza. In questo stato di cose i magistrati di Milano rinnovano al cardinal Borromeo la loro richiesta relativa alla processione e il prelato alla fine accetta, probabilmente per le pressioni del popolo che chiede a gran voce l'esposizione della salma di S. Carlo o forse per debolezza umana, cosa che è impossibile stabilire con certezza. Il cardinale non solo acconsente alla solenne processione, ma anche al fatto che in seguito le reliquie del santo rimangano esposte per otto giorni in una cassa sull'altare maggiore del Duomo.
La processione dell'11 giugno 1630
Il Tribunale di Sanità, pensando al rischio del contagio, non oppone alcuna obiezione alla processione e si limita a prescrivere regole più restrittive per l'ingresso in città dall'esterno e ordina di inchiodare gli usci delle case dei malati di peste, per impedire agli infetti di mescolarsi alla folla. Dopo tre giorni di preparativi, l'11 giugno 1630 la processione si avvia dal duomo alle prime luci dell'alba, preceduta da una lunga schiera di popolani tra cui molte donne; seguono le corporazioni cittadine coi loro gonfaloni, gli ordini monastici, i preti che portano in mano una torcia; in mezzo, portata da quattro canonici, avanza la cassa contenente le spoglie di S. Carlo Borromeo, in cui si intravede il corpo vestito di splendidi abiti e il teschio con la mitra, con alcune fattezze che ancora ricordano l'aspetto del santo quale appare nei dipinti d'epoca. Dietro la reliquia segue il cardinal Federigo e il resto del clero, quindi i magistrati e i nobili, alcuni dei quali vestiti con sfarzo e altri, al contrario, che indossano cappe nere col cappuccio sul viso, in segno di penitenza. Il corteo è chiuso da una coda di popolani e avanza tra le strade parate a festa, con le case abbellite da stemmi, fiori, oggetti variopinti; molti malati sequestrati in casa osservano la processione dalle finestre, mentre le altre vie restano in silenzio, con un'atmosfera quasi spettrale. La processione passa per quasi tutti i quartieri di Milano e compie delle soste nei carrobi (i crocicchi delle strade) per deporre la cassa con la reliquia accanto alle croci erette al tempo della peste del 1576, per cui il corteo ritorna in duomo quando mezzogiorno è passato da un pezzo.
La furia del contagio aumenta
Fin dal giorno successivo alla processione, che secondo molti dovrebbe aver fatto cessare la peste, al contrario il contagio cresce furiosamente in ogni punto della città e in ogni classe sociale, in modo così repentino che nessuno può dubitare che la causa sia stata la processione medesima. Tuttavia ciò viene attribuito dai più non al concorso di folla che ha moltiplicato le occasioni di contatto e diffusione del morbo, bensì all'azione degli untori che avrebbero approfittato della ressa per spargere con maggiore facilità i loro unguenti malefici; e poiché nessuno ha visto nel corteo macchie di unto sui muri né altrove, si pensa che gli untori abbiano sparso delle polveri venefiche e che queste, attaccatesi ai vestiti e ai piedi scalzi di molti partecipanti al corteo, abbiano contribuito alla diffusione più virulenta e micidiale della peste. Sta di fatto che da questo momento la furia del contagio cresce ogni giorno di più e la peste miete vittime in tutte le case, mentre la popolazione del lazzaretto cresce da duemila a dodicimila persone e la mortalità ai primi di luglio tocca il numero di cinquecento decessi al giorno. Più avanti, quando l'epidemia toccherà il suo apice, i morti giornalieri saranno più di mille e alla fine la popolazione milanese scenderà da da circa duecentocinquantamila abitanti a poco più di sessantamila, anche se - avverte il narratore - queste cifre sono da considerare con grande cautela data la loro poca attendibilità.
Monatti, apparitori, commissari. Difficoltà crescenti delle autorità
In una situazione simile il compito dei magistrati cittadini è a dir poco arduo, poiché essi debbono senza molti mezzi provvedere alle tante necessità e, ad esempio, sostituire spesso i funzionari che si occupano dell'assistenza ai malati e di altre incombenze inerenti la malattia, tra cui monatti, apparitori, commissari. I primi sono coloro che portano via i cadaveri dalle case per seppellirli, che conducono i malati al lazzaretto e ne bruciano i vestiti infetti, quindi svolgono le attività più pericolose (il loro nome è di origine incerta e forse, secondo l'autore, deriva dal tedesco monathlich, "mensuale", poiché venivano assunti di mese in mese). Gli apparitori invece precedono i carri dei morti e suonano un campanello per avvertire i passanti di star lontano, mentre i commissari sono i funzionari della Sanità che hanno il compito di sovrintendere agli uni e agli altri.
Tra le molte necessità vi è quella di rifornire il lazzaretto di medici, di farmaci, di vitto, preparare nuovi spazi per accogliere i malati in numero sempre crescente; a tale scopo vengono erette alla meglio delle capanne nello spiazzo centrale del lazzaretto e se ne costruisce un secondo, circondato da un semplice asse di legno, in grado di ospitare quattromila persone. Si pensa di costruire altri due luoghi simili, ma il progetto viene abbandonato per la mancanza di denaro. La situazione peggiora di giorno in giorno e si arriva al punto che non si è in grado di provvedere a molte necessità, per esempio molti bambini rimasti orfani muoiono perché nessuno è in grado di occuparsene. I magistrati cittadini fanno ciò che possono, ma il loro impegno è sterile anche per la mancanza di mezzi finanziari, dal momento che il governatore, impegnato nell'assedio di Casale, usa tutto il denaro disponibile per le paghe dei soldati e si disinteressa di fatto alle sorti della città sconvolta dalla peste.
Tra le molte necessità vi è quella di rifornire il lazzaretto di medici, di farmaci, di vitto, preparare nuovi spazi per accogliere i malati in numero sempre crescente; a tale scopo vengono erette alla meglio delle capanne nello spiazzo centrale del lazzaretto e se ne costruisce un secondo, circondato da un semplice asse di legno, in grado di ospitare quattromila persone. Si pensa di costruire altri due luoghi simili, ma il progetto viene abbandonato per la mancanza di denaro. La situazione peggiora di giorno in giorno e si arriva al punto che non si è in grado di provvedere a molte necessità, per esempio molti bambini rimasti orfani muoiono perché nessuno è in grado di occuparsene. I magistrati cittadini fanno ciò che possono, ma il loro impegno è sterile anche per la mancanza di mezzi finanziari, dal momento che il governatore, impegnato nell'assedio di Casale, usa tutto il denaro disponibile per le paghe dei soldati e si disinteressa di fatto alle sorti della città sconvolta dalla peste.
L'impegno degli ecclesiastici nell'assistenza ai malati
Fra i bisogni della città c'è anche quello, penosissimo, di dare sepoltura ai morti: l'unica fossa scavata vicino al lazzaretto rimane colma e i morti restano insepolti in ogni parte della città, per cui i magistrati non sanno a chi rivolgersi per compiere quel triste compito. Il presidente del Tribunale di Sanità chiede allora aiuto ai frati cappuccini che governano il lazzaretto e padre Michele si impegna a provvedere alla necessità nel giro di quattro giorni. Il frate si reca con un confratello e alcuni funzionari della Sanità nel contado e, valendosi dell'autorità del proprio abito, raduna circa duecento contadini disposti a scavare fosse; conclusa questa operazione, i monatti raccolgono i cadaveri e li portano per la sepoltura, cosicché la promessa di padre Michele è mantenuta. In un'altra occasione il lazzaretto si trova senza medici e ne vengono reclutati altri grazie a notevoli offerte di denaro, non senza fatica; quando scarseggiano i viveri, al punto che i malati rischiano di morire di fame, supplisce la carità privata di alcuni cittadini, poiché nelle gravi calamità - osserva il narratore - non mancano mai quelli che mantengono intatto il coraggio e compiono fino in fondo il proprio dovere, oppure assumono incarichi che non gli competono in forza della carità cristiana e dell'amore per il prossimo. Grandissimo è poi l'impegno di tutti gli ecclesiastici, che non cessano mai di assistere i malati, di portar loro i conforti spirituali e materiali, per cui più di sessanta parroci di Milano cadono vittime del contagio e muoiono.
L'impegno del cardinal Borromeo
Il cardinal Borromeo non rinuncia durante la terribile calamità a dare esempio di sollecitudine e ad incitare tutti a prodigarsi per assistere i bisognosi: benché quasi tutto il personale dell'arcivescovado sia morto di peste e nonostante numerosi inviti a lasciare Milano per non esporsi al contagio, Federigo resta al suo posto e, pur osservando quelle minime cautele per evitare di contrarre il morbo, non si cura troppo del pericolo e si reca spesso in visita ai lazzaretti, porta soccorso agli ammalati, aiuta i sequestrati nelle case e si trattiene presso i loro usci, ascoltando le loro lamentele. Esorta di continuo gli ecclesiastici e i parroci a non venir meno al loro dovere, poiché la morte sarebbe un premio e una consolazione per una vita spesa nel servizio al prossimo. Egli si caccia senza alcun timore nel mezzo della pestilenza e alla fine ne esce illeso, meravigliandosi egli stesso di ciò che può sembrare un miracolo.
Impotenza delle autorità. I monatti padroni delle strade
Nei disastri pubblici ci sono spesso esempi di carità e benevolenza, ma ce ne sono purtroppo anche molti di segno opposto ed è il caso della peste a Milano: molti criminali approfittano della debolezza delle pubbliche autorità per spadroneggiare e tra questi vi sono gli stessi monatti e gli apparitori, normalmente reclutati tra i peggiori individui che accettano questo tremendo lavoro allettati dalle possibilità di rubare e saccheggiare. Specialmente i monatti, quando la situazione diventa insostenibile per il diffondersi del contagio e i commissari di Sanità non riescono più a controllare il loro operato, diventano i padroni delle strade e approfittano della peste per compiere ogni sorta di abusi, saccheggiando le case dei malati, minacciando di portare i sani al lazzaretto se questi non pagano un riscatto, facendosi pagare a caro prezzo i loro servizi quando, ad esempio, devono portar via i cadaveri putrefatti. I monatti sono sospettati addirittura di lasciar cadere apposta dai carri cenci infetti per spargere la peste e prolungare quell'occasione di guadagno, mentre è certo che alcuni fingono di ricoprire quel ruolo portando un campanello al piede (come è prescritto ai monatti per avvisare che del loro avvicinarsi) e ne approfittano per entrare nelle case e farla da padroni. Le abitazioni vuote o abitate da malati vengono saccheggiate dai ladri e, spesso, la stessa cosa viene fatta anche dai "birri" conniventi con i peggiori criminali.
La paura degli untori alimenta il sospetto
Insieme alla malvagità aumenta anche la follia, specie il terrore degli untori che non accenna a placarsi e, anzi, alimenta nuove paure e nuovi vaneggiamenti tra la popolazione milanese. Il Ripamonti osserva nella sua storia della peste che la paura degli untori fa vivere tutti nel sospetto reciproco e si comincia a diffidare degli amici, dei parenti stretti, persino del proprio padre o figlio, persino del coniuge. Se al principio si credeva che gli untori agissero per denaro o dietro la promessa di onori, adesso si è convinti che essi siano spinti da una volontà diabolica, per incarico dello stesso demonio; i vaneggiamenti degli ammalati, che nel delirio accusano se stessi di aver fatto ciò che temevano facessero gli altri, i loro gesti inconsulti, tutto alimenta la certezza che gli untori esistano, non diversamente dai processi per stregoneria in cui, non di rado, gli accusati confessano crimini mai commessi in modo spontaneo e senza subire la tortura, semplicemente perché la superstizione li ha convinti che certi atti siano possibili a tutti, quindi anche a loro stessi.
Leggende e assurde invenzioni sugli untori
Tra le leggende che la paura degli untori diffonde a Milano ce n'è una che merita di essere ricordata, se non altro per la rinomanza che acquista all'epoca: si racconta che un tale, passando sulla piazza del Duomo, vede arrivare una carrozza trainata da sei cavalli, con all'interno un uomo dal volto acceso, i capelli dritti e il viso minaccioso. La carrozza si ferma e il cocchiere invita a salire il passante, il quale è soggiogato e non può rifiutare. Viene condotto in un palazzo che mostra all'interno deserti e giardini, caverne e sale, nonché spettri e fantasmi; gli vengono mostrate casse piene di denaro e viene invitato a prenderne quanto ne vuole, a patto però che accetti un vasetto di unguento e che si impegni a imbrattare con esso i muri della città. L'uomo rifiuta e, prodigiosamente, si ritrova subito nel luogo dove era stato prelevato. Questa assurda favola circola non solo a Milano ma in tutta Italia e anche all'estero; in Germania si realizza una stampa che raffigura la vicenda e l'elettore arcivescovo di Magonza scrive addirittura al cardinal Borromeo per chiedergli se c'è qualcosa di vero in quel racconto, ricevendo come risposta che ovviamente sono tutte assurdità.
Vaneggiamenti dei dotti sulla peste
Non solo il popolo farnetica a proposito della peste e degli untori, ma vaneggiamenti simili circolano anche fra i dotti e provocano danni ancora peggiori: molti studiosi infatti credono che l'epidemia sia stata causata da una cometa apparsa nel 1628 e da una congiunzione astrale di pianeti, foriera di terribili calamità, mentre un'altra cometa, apparsa nello stesso 1630, sembra confermare l'infausta previsione. Scrittori antichi e moderni vengono citati a sostegno di varie teorie, inclusa quella sugli untori, e fra questi specialmente gli autori di libri e trattati di magia nera, nel Seicento tanto di moda tra i dotti; tra essi spicca Martino Delrio, autore di Disquisizioni magiche divenute poi il testo più autorevole in fatto di pratiche magiche, fonte di torture e processi per stregoneria ai tempi dell'Inquisizione (il narratore osserva che l'opera funesta di Delrio è costata la vita a moltissime persone e se la fama di uno scrittore si dovesse misurare col bene o col male prodotto, egli sarebbe tra i più celebri). Persino i medici avvalorano l'ipotesi dell'esistenza degli untori e fra questi il Tadino, che pure era stato tra i primi a mettere in guardia sul rischio del contagio e che ora, invece, sostiene la veridicità delle unzioni prendendo come prova le farneticazioni dei malati nel delirio, come l'assurda storia di un appestato che aveva visto in camera un'apparizione diabolica e gli era stata promessa la guarigione e danari, se avesse accettato di ungere le case (al suo rifiuto, erano apparsi un lupo e tre gatti, animali diabolici). Del resto il Tadino, uno degli studiosi più rinomati del suo tempo, non è l'unico a ragionare in tal modo e si può concludere che la follia degli untori coinvolge ormai l'intera popolazione milanese, dai più umili ai più assennati.
Opinioni illustri sugli untori: Borromeo e Muratori
Secondo alcuni, il cardinal Borromeo avrebbe dubitato della realtà degli untori: Manzoni vorrebbe poter dire che Federigo, in questa come in altre cose, si distingueva dai contemporanei, invece purtroppo è costretto ad ammettere che il prelato subiva la forza del pregiudizio e se anche riteneva che ci fosse molto di esagerato nella paura degli untori, pure ammetteva che il fatto avesse un fondo di verità (ciò è dimostrato da un'operetta da lui scritta sulla peste e tuttora conservata alla Biblioteca Ambrosiana di Milano). Molti all'epoca ritenevano che la storia delle unzioni non fosse reale, tuttavia non osarono mai dirlo apertamente e noi conosciamo la loro opinione grazie a quegli autori che la deridono o a quelli che citano tali posizioni in quanto riportate dalla tradizione: tra questi Ludovico Antonio Muratori in uno scritto sulla peste del 1714, lo stesso in cui pure accenna all'opinione in merito del Borromeo. Il buon senso, conclude Manzoni, c'era ancora in molte persone, ma stava nascosto per timore del senso comune, del pregiudizio che ormai dominava incontrastato nelle menti della maggioranza.
I processi contro gli untori e la "Colonna infame"
I magistrati, man mano che il contagio cresce e miete sempre più vittime, iniziano a usare le poche energie residue per dare la caccia agli untori e in alcuni casi si crede di averne individuato alcuni: tra i documenti del tempo della peste c'è una lettera inviata dal gran cancelliere Ferrer al governatore, in cui lo informa di aver saputo che in una casa di campagna di due nobili fratelli milanesi si produce il mortale unguento e di voler prendere tutti i dovuti provvedimenti per assicurare gli autori del fatto alla giustizia (fortunatamente la cosa non sortisce poi alcun effetto). In altri casi, invece, si istruiscono dei processi a carico di presunti untori ed essi sono solo gli ultimi di una lunga serie di procedimenti simili, celebrati già nel XVI sec. in varie parti d'Italia e conclusisi per lo più con l'esecuzione degli accusati a mezzo di atroci supplizi. I processi che si sono svolti a Milano sono tuttavia i più noti e anche quelli più facili da studiare data la presenza di documenti, come dimostra il trattato Osservazioni sulla tortura di cui è autore Pietro Verri: nonostante quell'opera tratti ampiamente il caso, sia pure al fine di argomentare contro la pratica criminale della tortura, Manzoni ritiene che ci sia materiale sufficiente per scrivere un nuovo trattato, che ovviamente non può trovare spazio nel romanzo e che sarà perciò pubblicato a parte, con l'estensione che merita. Per il momento il narratore intende tornare alle vicende dei protagonisti, col proposito di non abbandonarle più sino alla fine.
Temi principali e collegamenti
- Il capitolo è la seconda parte del "dittico" (XXXI-XXXII) dedicato alla peste di Milano, l'ampia digressione storica in cui non compare nessuno dei personaggi principali del romanzo: anche qui, come nel capitolo precedente, Manzoni mette in rilievo l'incuria e l'indifferenza del potere pubblico nel fronteggiare l'epidemia, specie del governatore Ambrogio Spinola che appare ben più interessato all'assedio di Casale che non alla città attanagliata dal morbo e che infatti risponde in modo vago alle richieste di provvedimenti fiscali straordinari. La mancanza di denaro renderà l'opera dei magistrati milanesi a dir poco ardua e l'assistenza ai malati verrà spesso assicurata dagli ecclesiastici (cfr. l'approfondimento al cap. XXXI).
- Nella prima parte del capitolo trova ampio spazio il racconto della solenne processione dell'11 giugno 1630, in cui la popolazione milanese nutre grandi speranze circa l'allontanamento dell'epidemia: si tratta evidentemente di una manifestazione di superstizione e credulità popolare, cui inizialmente il cardinale si oppone salvo poi cedere alle pressioni della città. Manzoni nell'occasione sembra attribuire al prelato uno spirito critico "moderno" e alquanto lontano dai suoi tempi, forse per non intaccare l'immagine positiva del Borromeo.
- Buona parte della narrazione è dedicata alle dicerie sugli untori, già accennate nel cap. XXXI e che ora, col crescere del contagio, si diffondono creando una vera e propria psicosi (sul punto si veda oltre). Manzoni sottolinea come tali assurde credenze non solo trovino terreno fertile nella fantasia malata del popolo, ma siano sostenute con argomenti pseudo-scientifici anche da studiosi e medici, tra cui il Tadino (peraltro elogiato nel cap. precedente insieme al Settala). L'autore riporta anche l'opinione del Borromeo, non apertamente persuaso dell'esistenza degli untori ma neppure del tutto avverso ad essa.
- Compaiono per la prima volta nel romanzo i famigerati monatti, gli incaricati dal Tribunale di Sanità che portano i morti e i malati al lazzaretto. Vengono descritti in generale gli abusi compiuti da questi personaggi che vedremo direttamente all'opera soprattutto nei capp. XXXIII-XXXIV, sia alle prese con don Rodrigo ammalato di peste sia con Renzo che attraversa la città sconvolta dal contagio, per poi introdursi nel lazzaretto in cerca di Lucia.
- Come già nel cap. XXXI, parole di elogio vengono spese per tutti quegli ecclesiastici che con il loro impegno e il loro coraggio suppliscono alle carenze del potere pubblico nell'assistenza ai malati, specie i padri cappuccini a cui è affidato il governo del lazzaretto sempre più colmo di malati. Spiccano soprattutto le figure di padre Michele Pozzobonelli, l'aiutante di padre Felice Casati che dirige il lazzaretto, e dello stesso cardinal Borromeo, che rinuncia a lasciare Milano e si espone senza troppo ritegno al contagio, uscendo miracolosamente indenne dall'epidemia.
- Come concausa delle dicerie sugli untori vengono indicate anche le credenze in campo magico e stregonesco, all'epoca tanto diffuse in Italia e in Europa: Manzoni cita vari autori di trattati in materia occulta e soprattutto quel Martino Delrio già indicato tra gli scrittori della biblioteca di don Ferrante nel cap. XXVII, qui esecrato come responsabile con i suoi scritti di "legali, orribili, non interrotte carneficine". Manzoni allude all'autorità del gesuita Delrio nei processi per stregoneria tanto frequenti nel sec. XVII, in cui pure ebbe parte il Borromeo (particolare omesso dallo scrittore).
- Il capitolo si chiude con il preannuncio della Storia della colonna infame, il trattato storico pubblicato in appendice al romanzo e riguardante il processo ai presunti untori Piazza e Mora, celebrato a Milano nel 1630. Manzoni cita indirettamente anche le Osservazioni sulla tortura di Pietro Verri, operetta in cui quel fatto era già affrontato ma col fine di argomentare contro l'uso della tortura (sul punto si veda oltre).
La caccia agli untori, dramma nel dramma della peste di Milano
F. Gonin, L'arresto di G. G. Mora
La tragica vicenda degli untori durante la peste a Milano nel 1630 colpisce molto la fantasia e la riflessione di Manzoni, al punto che alla questione è dedicato un ampio spazio nei capp. XXXI-XXXII sull'epidemia ed essa sarà ulteriormente affrontata nel saggio storico pubblicato in appendice al romanzo, avente come oggetto il processo celebrato contro i presunti untori Guglielmo Piazza e Gian Giacomo Mora. L'attenzione del romanziere si concentra ovviamente sulla follia del popolo e sulla facilità con cui si diffondono tra i Milanesi le più assurde dicerie sugli untori, alimentate peraltro da macabri scherzi come l'imbrattatura dei muri la mattina del 18 maggio 1630, ma uguale rilievo è riservato anche all'atteggiamento dei dotti e dell'apparato di potere, che inizialmente non prendono molto sul serio i sospetti della folla, tuttavia poi finiscono per avvalorarli e intentare addirittura dei processi a danno di innocenti, ingiustamente accusati di spargere la peste a Milano. C'è dunque una sorta di escalation nella storia degli untori e si passa da una fase in cui a credere nella loro esistenza è soltanto il popolo, preda di ignoranza e superstizione e il cui furore cresce parallelamente al contagio (con gravi episodi di linciaggio, come le aggressioni al vecchio in chiesa e ai tre francesi), a una fase successiva in cui anche dotti e medici danno credito alle dicerie con argomenti filosofici e pseudo-scientifici (in cui giocano un ruolo decisivo le convinzioni in materia di stregoneria), fino all'intervento delle autorità che iniziano a dare la caccia agli untori per placare la rabbia popolare, spesso basandosi su indizi sommari o semplici denunce per sentito dire. L'ignoranza del secolo ha una grande parte nella follia sugli untori, ma essa pare ben distribuita tra popolani e persone istruite ed è proprio l'intervento di queste ultime a permettere il "salto di qualità" della vicenda, affinché si passi dalle dicerie ai processi: Manzoni punta il dito un po' contro tutti, poiché all'inizio l'indifferenza delle autorità verso la peste ha contribuito a inasprire il popolo, poi gli stessi medici (come il Tadino) che avevano fin da subito descritto l'epidemia finiscono per credere agli untori, attribuendo tra l'altro il contagio a cause assurde come le comete o le congiunzioni astrali, e non è esente da macchia neppure il cardinal Borromeo, il quale non è così deciso nel negare l'esistenza delle unzioni e oppone anzi proprio questo argomento alla richiesta della processione per stornare la malattia, così come tratterà della cosa in una sua operetta sulla peste (ed è uno dei pochi rilievi che Manzoni gli rivolge, dal momento che tace il suo coinvolgimento in processi per stregoneria).
La tragedia degli untori si presenta dunque come una follia collettiva in cui molti hanno responsabilità e la cui radice profonda, più che nell'ignoranza del XVII sec., sta piuttosto nel conformismo che a un certo punto si crea circa l'esistenza di questi fantomatici personaggi, di cui nessuno osa dubitare perché si verrebbe presi per pazzi o complici, e nell'atteggiamento colpevole della giustizia e del potere che nel colmo della peste, per gettare un capro espiatorio in pasto alla folla, non esitano a condannare degli innocenti sulla base di prove inconsistenti, di confessioni estorte per mezzo della tortura. Il processo agli untori è naturalmente il momento culminante dell'intera vicenda e ad esso Manzoni dedica un apposito lavoro pubblicato in appendice al romanzo, quella Storia della colonna infame che, oltre ad essere un saggio storico di precisa ricostruzione documentaria, è anche un atto di accusa cupo e pessimistico all'insensatezza dei giudici, alla loro volontà di trovare dei colpevoli a ogni costo e di placare la folla con una condanna esemplare. Lo scrittore preannuncia tale "opuscolo" alla fine del cap. XXXII e chiarisce i rapporti col saggio di P. Verri (Osservazioni sulla tortura) in cui quel processo era stato riportato all'attenzione del pubblico, sia pure con intenti diversi: Verri usava l'esempio di Piazza e Mora per argomentare contro l'uso della tortura nei procedimenti giudiziari, Manzoni accusa invece i giudici di aver voluto condannare degli innocenti per iniquità e convenienza del momento, cosa che poteva essere evitata anche attenendosi alle leggi sulla tortura. I giudici sono per Manzoni vittime di quello stesso conformismo che aveva indotto molti a credere negli untori e si sentono moralmente obbligati a far confessare il Piazza che è stato arrestato sulla base di un semplice sospetto, ricorrendo alla tortura e, cosa più grave, promettendogli falsamente l'impunità: il loro timore era quello di "mancare a un'aspettativa generale [...], di parere meno abili se scoprivano degli innocenti, di voltare contro di sé le grida della moltitudine, col non ascoltarle" (Storia, Introduz.); e più oltre (cap. III) Manzoni afferma che "Tutto Milano sapeva... che Guglielmo Piazza aveva unti i muri, gli usci, gli anditi di via della Vetra; e loro che l’avevan nelle mani, non l’avrebbero fatto confessar subito a lui!". La vicenda degli untori diventa quindi un caso esemplare di come il potere e l'autorità possono commettere errori tragici assecondando la volontà della folla, lasciandosi forzare a compiere atti "a furor di popolo" non assumendosi la responsabilità di una decisione impopolare, come già nel caso della carestia e dell'imposizione del calmiere sul prezzo del pane (cfr. cap. XXVIII e il relativo approfondimento); in tutto questo è chiaro che l'arretratezza dei tempi e l'ignoranza diffusa hanno giocato un ruolo, che non è tuttavia decisivo e non sminuisce le colpe di chi ha in qualche modo contribuito all'uccisione di innocenti, colpe che per Manzoni sono sempre morali e individuali, non giustificabili con i condizionamenti sociali o culturali. La critica dell'autore va perciò molto più in profondità di una semplice denuncia dei "mali" del Seicento e richiama più in generale la necessità, anche ai suoi tempi, di mantenere uno spirito critico in ogni circostanza, avendo il coraggio di andare controcorrente anche a rischio di attirarsi l'odio e la critica della maggioranza, poiché in molti casi l'adeguarsi a un "sentire comune" può produrre conseguenze irreparabili e il compito degli uomini illuminati è invece quello di dire la verità anche a chi non vuole sentirla, compito cui le autorità milanesi del tempo della peste hanno penosamente mancato. Ovviamente all'origine di questo pensiero c'è la consueta visione negativa della "massa popolare" già emersa nei capitoli sul tumulto di S. Martino e in altri episodi, tuttavia Manzoni richiama anche le classi dominanti alla loro responsabilità di guidare il popolo e di educarlo per strapparlo all'ignoranza e alla superstizione, e se è pur vero che tale prospettiva risente di una concezione aristocratica e superata della società, non va scordato che la lotta contro i pregiudizi popolari e per la diffusione della cultura (in senso ampio) era ancora attualissima ai tempi dello scrittore e lo è in parte ancora oggi, dunque la denuncia di Manzoni contro un potere ottuso che si lascia fuorviare dall'ignoranza del popolo è decisamente moderna e non legata alla semplice polemica contro il Seicento come secolo di "barbarie", che pure tanto rilievo assume (e non poteva essere altrimenti) nella trama del romanzo.
Per approfondire: G. Baldissone, La rappresentazione iconografica della peste; U. Dotti, Guerra, fame, peste; L. Sciascia, I burocrati del Male.
La tragedia degli untori si presenta dunque come una follia collettiva in cui molti hanno responsabilità e la cui radice profonda, più che nell'ignoranza del XVII sec., sta piuttosto nel conformismo che a un certo punto si crea circa l'esistenza di questi fantomatici personaggi, di cui nessuno osa dubitare perché si verrebbe presi per pazzi o complici, e nell'atteggiamento colpevole della giustizia e del potere che nel colmo della peste, per gettare un capro espiatorio in pasto alla folla, non esitano a condannare degli innocenti sulla base di prove inconsistenti, di confessioni estorte per mezzo della tortura. Il processo agli untori è naturalmente il momento culminante dell'intera vicenda e ad esso Manzoni dedica un apposito lavoro pubblicato in appendice al romanzo, quella Storia della colonna infame che, oltre ad essere un saggio storico di precisa ricostruzione documentaria, è anche un atto di accusa cupo e pessimistico all'insensatezza dei giudici, alla loro volontà di trovare dei colpevoli a ogni costo e di placare la folla con una condanna esemplare. Lo scrittore preannuncia tale "opuscolo" alla fine del cap. XXXII e chiarisce i rapporti col saggio di P. Verri (Osservazioni sulla tortura) in cui quel processo era stato riportato all'attenzione del pubblico, sia pure con intenti diversi: Verri usava l'esempio di Piazza e Mora per argomentare contro l'uso della tortura nei procedimenti giudiziari, Manzoni accusa invece i giudici di aver voluto condannare degli innocenti per iniquità e convenienza del momento, cosa che poteva essere evitata anche attenendosi alle leggi sulla tortura. I giudici sono per Manzoni vittime di quello stesso conformismo che aveva indotto molti a credere negli untori e si sentono moralmente obbligati a far confessare il Piazza che è stato arrestato sulla base di un semplice sospetto, ricorrendo alla tortura e, cosa più grave, promettendogli falsamente l'impunità: il loro timore era quello di "mancare a un'aspettativa generale [...], di parere meno abili se scoprivano degli innocenti, di voltare contro di sé le grida della moltitudine, col non ascoltarle" (Storia, Introduz.); e più oltre (cap. III) Manzoni afferma che "Tutto Milano sapeva... che Guglielmo Piazza aveva unti i muri, gli usci, gli anditi di via della Vetra; e loro che l’avevan nelle mani, non l’avrebbero fatto confessar subito a lui!". La vicenda degli untori diventa quindi un caso esemplare di come il potere e l'autorità possono commettere errori tragici assecondando la volontà della folla, lasciandosi forzare a compiere atti "a furor di popolo" non assumendosi la responsabilità di una decisione impopolare, come già nel caso della carestia e dell'imposizione del calmiere sul prezzo del pane (cfr. cap. XXVIII e il relativo approfondimento); in tutto questo è chiaro che l'arretratezza dei tempi e l'ignoranza diffusa hanno giocato un ruolo, che non è tuttavia decisivo e non sminuisce le colpe di chi ha in qualche modo contribuito all'uccisione di innocenti, colpe che per Manzoni sono sempre morali e individuali, non giustificabili con i condizionamenti sociali o culturali. La critica dell'autore va perciò molto più in profondità di una semplice denuncia dei "mali" del Seicento e richiama più in generale la necessità, anche ai suoi tempi, di mantenere uno spirito critico in ogni circostanza, avendo il coraggio di andare controcorrente anche a rischio di attirarsi l'odio e la critica della maggioranza, poiché in molti casi l'adeguarsi a un "sentire comune" può produrre conseguenze irreparabili e il compito degli uomini illuminati è invece quello di dire la verità anche a chi non vuole sentirla, compito cui le autorità milanesi del tempo della peste hanno penosamente mancato. Ovviamente all'origine di questo pensiero c'è la consueta visione negativa della "massa popolare" già emersa nei capitoli sul tumulto di S. Martino e in altri episodi, tuttavia Manzoni richiama anche le classi dominanti alla loro responsabilità di guidare il popolo e di educarlo per strapparlo all'ignoranza e alla superstizione, e se è pur vero che tale prospettiva risente di una concezione aristocratica e superata della società, non va scordato che la lotta contro i pregiudizi popolari e per la diffusione della cultura (in senso ampio) era ancora attualissima ai tempi dello scrittore e lo è in parte ancora oggi, dunque la denuncia di Manzoni contro un potere ottuso che si lascia fuorviare dall'ignoranza del popolo è decisamente moderna e non legata alla semplice polemica contro il Seicento come secolo di "barbarie", che pure tanto rilievo assume (e non poteva essere altrimenti) nella trama del romanzo.
Per approfondire: G. Baldissone, La rappresentazione iconografica della peste; U. Dotti, Guerra, fame, peste; L. Sciascia, I burocrati del Male.
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(voce narrante di Silvia Cecchini).
Capitolo XXXII
Divenendo sempre più difficile il supplire all’esigenze dolorose della circostanza, era stato, il 4 di maggio, deciso nel consiglio de’ decurioni, di ricorrer per aiuto al governatore. E, il 22, furono spediti al campo [1] due di quel corpo, che gli rappresentassero i guai e le strettezze della città: le spese enormi, le casse vote, le rendite degli anni avvenire impegnate, le imposte correnti non pagate, per la miseria generale, prodotta da tante cause, e dal guasto militare in ispecie; gli mettessero in considerazione che, per leggi e consuetudini non interrotte, e per decreto speciale di Carlo V, le spese della peste dovevan essere a carico del fisco: in quella del 1576 avere il governatore, marchese d’Ayamonte, non solo sospese tutte le imposizioni camerali [2], ma data alla città una sovvenzione di quaranta mila scudi della stessa Camera [3]; chiedessero finalmente quattro cose: che l’imposizioni fossero sospese, come s’era fatto allora; la Camera desse danari; il governatore informasse il re, delle miserie della città e della provincia; dispensasse da nuovi alloggiamenti militari il paese già rovinato dai passati. Il governatore scrisse in risposta condoglianze, e nuove esortazioni: dispiacergli di non poter trovarsi nella città, per impiegare ogni sua cura in sollievo di quella; ma sperare che a tutto avrebbe supplito lo zelo di que’ signori: questo essere il tempo di spendere senza risparmio, d’ingegnarsi in ogni maniera. In quanto alle richieste espresse, proueeré en el mejor modo que el tiempo y necesidades presentes permitieren [4]. E sotto, un girigogolo, che voleva dire Ambrogio Spinola, chiaro come le sue promesse. Il gran cancelliere Ferrer gli scrisse che quella risposta era stata letta dai decurioni, con gran desconsuelo [5]; ci furono altre andate e venute, domande e risposte; ma non trovo che se ne venisse a più strette conclusioni. Qualche tempo dopo, nel colmo della peste, il governatore trasferì, con lettere patenti [6], la sua autorità a Ferrer medesimo, avendo lui, come scrisse, da pensare alla guerra. La quale, sia detto qui incidentemente, dopo aver portato via, senza parlar de’ soldati, un milion di persone, a dir poco, per mezzo del contagio, tra la Lombardia, il Veneziano, il Piemonte, la Toscana, e una parte della Romagna; dopo aver desolati, come s’è visto di sopra, i luoghi per cui passò, e figuratevi quelli dove fu fatta; dopo la presa e il sacco atroce di Mantova; finì con riconoscerne tutti il nuovo duca [7], per escludere il quale la guerra era stata intrapresa. Bisogna però dire che fu obbligato a cedere al duca di Savoia un pezzo del Monferrato, della rendita di quindici mila scudi, e a Ferrante duca di Guastalla altre terre, della rendita di sei mila; e che ci fu un altro trattato a parte e segretissimo, col quale il duca di Savoia suddetto cedé Pinerolo alla Francia [8]: trattato eseguito qualche tempo dopo, sott’altri pretesti, e a furia di furberie.
Insieme con quella risoluzione, i decurioni ne avevan presa un’altra: di chiedere al cardinale arcivescovo, che si facesse una processione solenne, portando per la città il corpo di san Carlo. Il buon prelato rifiutò, per molte ragioni. Gli dispiaceva quella fiducia in un mezzo arbitrario, e temeva che, se l’effetto non avesse corrisposto, come pure temeva, la fiducia si cambiasse in iscandolo (Memoria delle cose notabili successe in Milano intorno al mal contaggioso l’anno 1630, ec. raccolte da D. Pio la Croce, Milano, 1730. È tratta evidentemente da scritto inedito d’autore vissuto al tempo della pestilenza: se pure non è una semplice edizione, piuttosto che una nuova compilazione.). Temeva di più, che, se pur c’era di questi untori, la processione fosse un’occasion troppo comoda al delitto: se non ce n’era, il radunarsi tanta gente non poteva che spander sempre più il contagio: pericolo ben più reale (Si unguenta scelerata et unctores in urbe essent... Si non essent... Certiusque adeo malum. Ripamonti, pag 185.). Ché il sospetto sopito dell’unzioni s’era intanto ridestato, più generale e più furioso di prima. S’era visto di nuovo, o questa volta era parso di vedere, unte muraglie, porte d’edifizi pubblici, usci di case, martelli. Le nuove di tali scoperte volavan di bocca in bocca; e, come accade più che mai, quando gli animi son preoccupati, il sentire faceva l’effetto del vedere. Gli animi, sempre più amareggiati dalla presenza de’ mali, irritati dall’insistenza del pericolo, abbracciavano più volentieri quella credenza: ché la collera aspira a punire: e, come osservò acutamente, a questo stesso proposito, un uomo d’ingegno (P. Verri, Osservazioni sulla tortura: Scrittori italiani d’economia politica: parte moderna, tom. 17, pag. 203.), le piace più d’attribuire i mali a una perversità umana, contro cui possa far le sue vendette, che di riconoscerli da una causa, con la quale non ci sia altro da fare che rassegnarsi. Un veleno squisito, istantaneo, penetrantissimo, eran parole più che bastanti a spiegar la violenza, e tutti gli accidenti più oscuri e disordinati del morbo. Si diceva composto, quel veleno, di rospi, di serpenti, di bava e di materia d’appestati, di peggio, di tutto ciò che selvagge e stravolte fantasie sapessero trovar di sozzo e d’atroce. Vi s’aggiunsero poi le malìe, per le quali ogni effetto diveniva possibile, ogni obiezione perdeva la forza, si scioglieva ogni difficoltà. Se gli effetti non s’eran veduti subito dopo quella prima unzione, se ne capiva il perché; era stato un tentativo sbagliato di venefici ancor novizi: ora l’arte era perfezionata, e le volontà più accanite nell’infernale proposito. Ormai chi avesse sostenuto ancora ch’era stata una burla, chi avesse negata l’esistenza d’una trama, passava per cieco, per ostinato; se pur non cadeva in sospetto d’uomo interessato a stornar dal vero l’attenzion del pubblico, di complice, d’untore: il vocabolo fu ben presto comune, solenne, tremendo. Con una tal persuasione che ci fossero untori, se ne doveva scoprire, quasi infallibilmente: tutti gli occhi stavano all’erta; ogni atto poteva dar gelosia [9]. E la gelosia diveniva facilmente certezza, la certezza furore. Due fatti ne adduce in prova il Ripamonti, avvertendo d’averli scelti, non come i più atroci tra quelli che seguivano giornalmente, ma perché dell’uno e dell’altro era stato pur troppo testimonio. Nella chiesa di sant’Antonio, un giorno di non so quale solennità, un vecchio più che ottuagenario, dopo aver pregato alquanto inginocchioni, volle mettersi a sedere; e prima, con la cappa, spolverò la panca. - Quel vecchio unge le panche! - gridarono a una voce alcune donne che vider l’atto. La gente che si trovava in chiesa (in chiesa!), fu addosso al vecchio; lo prendon per i capelli, bianchi com’erano; lo carican di pugni e di calci; parte lo tirano, parte lo spingon fuori; se non lo finirono, fu per istrascinarlo, così semivivo, alla prigione, ai giudici, alle torture. “Io lo vidi mentre lo strascinavan così, - dice il Ripamonti: - e non ne seppi più altro: credo bene che non abbia potuto sopravvivere più di qualche momento”. L’altro caso (e seguì il giorno dopo) fu ugualmente strano, ma non ugualmente funesto. Tre giovani compagni francesi, un letterato, un pittore, un meccanico [10], venuti per veder l’Italia, per istudiarvi le antichità, e per cercarvi occasion di guadagno, s’erano accostati a non so qual parte esterna del duomo, e stavan lì guardando attentamente. Uno che passava, li vede e si ferma; gli accenna a un altro, ad altri che arrivano: si formò un crocchio, a guardare, a tener d’occhio coloro, che il vestiario, la capigliatura, le bisacce, accusavano di stranieri e, quel ch’era peggio, di francesi [11]. Come per accertarsi ch’era marmo, stesero essi la mano a toccare. Bastò. Furono circondati, afferrati, malmenati, spinti, a furia di percosse, alle carceri. Per buona sorte, il palazzo di giustizia è poco lontano dal duomo; e, per una sorte ancor più felice, furon trovati innocenti, e rilasciati. Né tali cose accadevan soltanto in città: la frenesia s’era propagata come il contagio. Il viandante che fosse incontrato da de’ contadini, fuor della strada maestra, o che in quella si dondolasse a guardar in qua e in là, o si buttasse giù per riposarsi; lo sconosciuto a cui si trovasse qualcosa di strano, di sospetto nel volto, nel vestito, erano untori: al primo avviso di chi si fosse, al grido d’un ragazzo, si sonava a martello, s’accorreva; gl’infelici eran tempestati di pietre, o, presi, venivan menati, a furia di popolo, in prigione. Così il Ripamonti medesimo. E la prigione, fino a un certo tempo, era un porto di salvamento. Ma i decurioni, non disanimati dal rifiuto del savio prelato, andavan replicando le loro istanze, che il voto pubblico secondava rumorosamente. Federigo resistette ancor qualche tempo, cercò di convincerli; questo è quello che poté il senno d’un uomo, contro la forza de’ tempi, e l’insistenza di molti. In quello stato d’opinioni, con l’idea del pericolo, confusa com’era allora, contrastata, ben lontana dall’evidenza che ci si trova ora, non è difficile a capire come le sue buone ragioni potessero, anche nella sua mente, esser soggiogate dalle cattive degli altri. Se poi, nel ceder che fece, avesse o non avesse parte un po’ di debolezza della volontà, sono misteri del cuore umano. Certo, se in alcun caso par che si possa dare in tutto l’errore all’intelletto, e scusarne la coscienza, è quando si tratti di que’ pochi (e questo fu ben del numero), nella vita intera de’ quali apparisca un ubbidir risoluto alla coscienza, senza riguardo a interessi temporali di nessun genere. Al replicar dell’istanze, cedette egli dunque, acconsentì che si facesse la processione, acconsentì di più al desiderio, alla premura generale, che la cassa dov’eran rinchiuse le reliquie di san Carlo, rimanesse dopo esposta, per otto giorni, sull’altar maggiore del duomo. Non trovo che il tribunale della sanità, né altri, facessero rimostranza né opposizione di sorte alcuna. Soltanto, il tribunale suddetto ordinò alcune precauzioni che, senza riparare al pericolo, ne indicavano il timore. Prescrisse più strette regole per l’entrata delle persone in città; e, per assicurarne l’esecuzione, fece star chiuse le porte: come pure, affine d’escludere, per quanto fosse possibile, dalla radunanza gli infetti e i sospetti, fece inchiodar gli usci delle case sequestrate: le quali, per quanto può valere, in un fatto di questa sorte, la semplice affermazione d’uno scrittore, e d’uno scrittore di quel tempo, eran circa cinquecento (Alleggiamento dello Stato di Milano etc. di C. G. Cavatio della Somaglia. Milano, 1653, pag. 482.). Tre giorni furono spesi in preparativi: l’undici di giugno, ch’era il giorno stabilito, la processione uscì, sull’alba, dal duomo. Andava dinanzi una lunga schiera di popolo, donne la più parte, coperte il volto d’ampi zendali [12], molte scalze, e vestite di sacco. Venivan poi l’arti, precedute da’ loro gonfaloni, le confraternite, in abiti vari di forme e di colori; poi le fraterie, poi il clero secolare, ognuno con l’insegne del grado, e con una candela o un torcetto in mano. Nel mezzo, tra il chiarore di più fitti lumi, tra un rumor più alto di canti, sotto un ricco baldacchino, s’avanzava la cassa, portata da quattro canonici, parati in gran pompa, che si cambiavano ogni tanto. Dai cristalli traspariva il venerato cadavere, vestito di splendidi abiti pontificali, e mitrato il teschio; e nelle forme mutilate e scomposte, si poteva ancora distinguere qualche vestigio dell’antico sembiante, quale lo rappresentano l’immagini, quale alcuni si ricordavan d’averlo visto e onorato in vita. Dietro la spoglia del morto pastore (dice il Ripamonti, da cui principalmente prendiamo questa descrizione), e vicino a lui, come di meriti e di sangue e di dignità, così ora anche di persona, veniva l’arcivescovo Federigo. Seguiva l’altra parte del clero; poi i magistrati, con gli abiti di maggior cerimonia; poi i nobili, quali vestiti sfarzosamente, come a dimostrazione solenne di culto, quali, in segno di penitenza, abbrunati, o scalzi e incappati, con la buffa [13] sul viso; tutti con torcetti. Finalmente una coda d’altro popolo misto. Tutta la strada era parata a festa; i ricchi avevan cavate fuori le suppellettili più preziose; le facciate delle case povere erano state ornate da de’ vicini benestanti, o a pubbliche spese; dove in luogo di parati, dove sopra i parati, c’eran de’ rami fronzuti; da ogni parte pendevano quadri, iscrizioni, imprese; su’ davanzali delle finestre stavano in mostra vasi, anticaglie, rarità diverse; per tutto lumi. A molte di quelle finestre, infermi sequestrati guardavan la processione, e l’accompagnavano con le loro preci. L’altre strade, mute, deserte; se non che alcuni, pur dalle finestre, tendevan l’orecchio al ronzìo vagabondo; altri, e tra questi si videro fin delle monache, eran saliti sui tetti, se di lì potessero veder da lontano quella cassa, il corteggio, qualche cosa. La processione passò per tutti i quartieri della città: a ognuno di que’ crocicchi, o piazzette, dove le strade principali sboccan ne’ borghi, e che allora serbavano l’antico nome di carrobi, ora rimasto a uno solo [14], si faceva una fermata, posando la cassa accanto alla croce che in ognuno era stata eretta da san Carlo, nella peste antecedente, e delle quali alcune sono tuttavia in piedi: di maniera che si tornò in duomo un pezzo dopo il mezzogiorno. Ed ecco che, il giorno seguente, mentre appunto regnava quella presontuosa fiducia, anzi in molti una fanatica sicurezza che la processione dovesse aver troncata la peste, le morti crebbero, in ogni classe, in ogni parte della città, a un tal eccesso, con un salto così subitaneo, che non ci fu chi non ne vedesse la causa, o l’occasione, nella processione medesima. Ma, oh forze mirabili e dolorose d’un pregiudizio generale! non già al trovarsi insieme tante persone, e per tanto tempo, non all’infinita moltiplicazione de’ contatti fortuiti, attribuivano i più quell’effetto; l’attribuivano alla facilità che gli untori ci avessero trovata d’eseguire in grande il loro empio disegno. Si disse che, mescolati nella folla, avessero infettati col loro unguento quanti più avevan potuto. Ma siccome questo non pareva un mezzo bastante, né appropriato a una mortalità così vasta, e così diffusa in ogni classe di persone; siccome, a quel che pare, non era stato possibile all’occhio così attento, e pur così travedente [15], del sospetto, di scorgere untumi, macchie di nessuna sorte, su’ muri, né altrove; così si ricorse, per la spiegazion del fatto, a quell’altro ritrovato, già vecchio, e ricevuto allora nella scienza comune d’Europa, delle polveri venefiche e malefiche; si disse che polveri tali, sparse lungo la strada, e specialmente ai luoghi delle fermate, si fossero attaccate agli strascichi de’ vestiti, e tanto più ai piedi, che in gran numero erano quel giorno andati in giro scalzi. “Vide pertanto, - dice uno scrittore contemporaneo (Agostino Lampugnano; La pestilenza seguita in Milano, l’anno 1630. Milano 1634, pag. 44.), - l’istesso giorno della processione, la pietà cozzar con l’empietà, la perfidia con la sincerità, la perdita con l’acquisto”. Ed era in vece il povero senno umano che cozzava co’ fantasmi creati da sé. Da quel giorno, la furia del contagio andò sempre crescendo: in poco tempo, non ci fu quasi più casa che non fosse toccata: in poco tempo la popolazione del lazzeretto, al dir del Somaglia citato di sopra, montò da duemila a dodici mila: più tardi, al dir di quasi tutti, arrivò fino a sedici mila. Il 4 di luglio, come trovo in un’altra lettera de’ conservatori della sanità al governatore, la mortalità giornaliera oltrepassava i cinquecento. Più innanzi, e nel colmo, arrivò, secondo il calcolo più comune, a mille dugento, mille cinquecento; e a più di tremila cinquecento, se vogliam credere al Tadino. Il quale anche afferma che, “per le diligenze fatte”, dopo la peste, si trovò la popolazion di Milano ridotta a poco più di sessantaquattro mila anime, e che prima passava le dugento cinquanta mila. Secondo il Ripamonti, era di sole dugento mila: de’ morti, dice che ne risultava cento quaranta mila da’ registri civici, oltre quelli di cui non si poté tener conto. Altri dicon più o meno, ma ancor più a caso. Si pensi ora in che angustie dovessero trovarsi i decurioni, addosso ai quali era rimasto il peso di provvedere alle pubbliche necessità, di riparare a ciò che c’era di riparabile in un tal disastro. Bisognava ogni giorno sostituire, ogni giorno aumentare serventi pubblici di varie specie: monatti, apparitori, commissari. I primi erano addetti ai servizi più penosi e pericolosi della pestilenza: levar dalle case, dalle strade, dal lazzeretto, i cadaveri; condurli sui carri alle fosse, e sotterrarli; portare o guidare al lazzeretto gl’infermi, e governarli; bruciare, purgare la roba infetta e sospetta. Il nome, vuole il Ripamonti che venga dal greco monos; Gaspare Bugatti (in una descrizion della peste antecedente), dal latino monere; ma insieme dubita, con più ragione, che sia parola tedesca, per esser quegli uomini arrolati la più parte nella Svizzera e ne’ Grigioni. Né sarebbe infatti assurdo il crederlo una troncatura del vocabolo monathlich (mensuale); giacché, nell’incertezza di quanto potesse durare il bisogno, è probabile che gli accordi non fossero che di mese in mese. L’impiego speciale degli apparitori era di precedere i carri, avvertendo, col suono d’un campanello, i passeggieri, che si ritirassero. I commissari regolavano gli uni e gli altri, sotto gli ordini immediati del tribunale della sanità. Bisognava tener fornito il lazzeretto di medici, di chirurghi, di medicine, di vitto, di tutti gli attrezzi d’infermeria; bisognava trovare e preparar nuovo alloggio per gli ammalati che sopraggiungevano ogni giorno. Si fecero a quest’effetto costruire in fretta capanne di legno e di paglia nello spazio interno del lazzeretto; se ne piantò un nuovo, tutto di capanne, cinto da un semplice assito, e capace di contener quattromila persone. E non bastando, ne furon decretati due altri; ci si mise anche mano; ma, per mancanza di mezzi d’ogni genere, rimasero in tronco. I mezzi, le persone, il coraggio, diminuivano di mano in mano che il bisogno cresceva. E non solo l’esecuzione rimaneva sempre addietro de’ progetti e degli ordini; non solo, a molte necessità, pur troppo riconosciute, si provvedeva scarsamente, anche in parole; s’arrivò a quest’eccesso d’impotenza e di disperazione, che a molte, e delle più pietose, come delle più urgenti, non si provvedeva in nessuna maniera. Moriva, per esempio, d’abbandono una gran quantità di bambini, ai quali eran morte le madri di peste: la Sanità propose che s’istituisse un ricovero per questi e per le partorienti bisognose, che qualcosa si facesse per loro; e non poté ottener nulla. “Si doueua non di meno, - dice il Tadino, - compatire ancora alli Decurioni della Città, li quali si trouauano afflitti, mesti et lacerati dalla Soldatesca senza regola, et rispetto alcuno; come molto meno nell’infelice Ducato, atteso che aggiutto alcuno, né prouisione si poteua hauere dal Gouernatore, se non che si trouaua tempo di guerra, et bisognaua trattar bene li Soldati” [16] (Pag. 117.). Tanto importava il prender Casale! Tanto par bella la lode del vincere, indipendentemente dalla cagione, dallo scopo per cui si combatta! Così pure, trovandosi colma di cadaveri un’ampia, ma unica fossa, ch’era stata scavata vicino al lazzeretto; e rimanendo, non solo in quello, ma in ogni parte della città, insepolti i nuovi cadaveri, che ogni giorno eran di più, i magistrati, dopo avere invano cercato braccia per il tristo lavoro, s’eran ridotti a dire di non saper più che partito prendere. Né si vede come sarebbe andata a finire, se non veniva un soccorso straordinario. Il presidente della Sanità ricorse, per disperato, con le lacrime agli occhi, a que’ due bravi frati che soprintendevano al lazzeretto; e il padre Michele s’impegnò a dargli, in capo a quattro giorni, sgombra la città di cadaveri; in capo a otto, aperte fosse sufficienti, non solo al bisogno presente, ma a quello che si potesse preveder di peggio nell’avvenire. Con un frate compagno, e con persone del tribunale, dategli dal presidente, andò fuor della città, in cerca di contadini; e, parte con l’autorità del tribunale, parte con quella dell’abito e delle sue parole, ne raccolse circa dugento, ai quali fece scavar tre grandissime fosse; spedì poi dal lazzeretto monatti a raccogliere i morti; tanto che, il giorno prefisso, la sua promessa si trovò adempita. Una volta, il lazzeretto rimase senza medici; e, con offerte di grosse paghe e d’onori, a fatica e non subito, se ne poté avere; ma molto men del bisogno. Fu spesso lì lì per mancare affatto di viveri, a segno di temere che ci s’avesse a morire anche di fame; e più d’una volta, mentre non si sapeva più dove batter la testa per trovare il bisognevole, vennero a tempo abbondanti sussidi, per inaspettato dono di misericordia privata: ché, in mezzo allo stordimento generale, all’indifferenza per gli altri, nata dal continuo temer per sé, ci furono degli animi sempre desti alla carità, ce ne furon degli altri in cui la carità nacque al cessare d’ogni allegrezza terrena; come, nella strage e nella fuga di molti a cui toccava di soprintendere e di provvedere, ce ne furono alcuni, sani sempre di corpo, e saldi di coraggio al loro posto: ci furon pure altri che, spinti dalla pietà, assunsero e sostennero virtuosamente le cure a cui non eran chiamati per impiego. Dove spiccò una più generale e più pronta e costante fedeltà ai doveri difficili della circostanza, fu negli ecclesiastici. Ai lazzeretti, nella città, non mancò mai la loro assistenza: dove si pativa, ce n’era; sempre si videro mescolati, confusi co’ languenti, co’ moribondi, languenti e moribondi qualche volta loro medesimi; ai soccorsi spirituali aggiungevano, per quanto potessero, i temporali; prestavano ogni servizio che richiedessero le circostanze. Più di sessanta parrochi, della città solamente, moriron di contagio: gli otto noni, all’incirca. Federigo dava a tutti, com’era da aspettarsi da lui, incitamento ed esempio. Mortagli intorno quasi tutta la famiglia arcivescovile, e facendogli istanza parenti, alti magistrati, principi circonvicini, che s’allontanasse dal pericolo, ritirandosi in qualche villa, rigettò un tal consiglio, e resistette all’istanze, con quell’animo, con cui scriveva ai parrochi: “siate disposti ad abbandonar questa vita mortale, piuttosto che questa famiglia, questa figliolanza nostra: andate con amore incontro alla peste, come a un premio, come a una vita, quando ci sia da guadagnare un’anima a Cristo” (Ripamonti, pag. 164.). Non trascurò quelle cautele che non gl’impedissero di fare il suo dovere (sulla qual cosa diede anche istruzioni e regole al clero); e insieme non curò il pericolo, né parve che se n’avvedesse, quando, per far del bene, bisognava passar per quello. Senza parlare degli ecclesiastici, coi quali era sempre per lodare e regolare il loro zelo, per eccitare chiunque di loro andasse freddo nel lavoro, per mandarli ai posti dove altri eran morti, volle che fosse aperto l’adito a chiunque avesse bisogno di lui. Visitava i lazzeretti, per dar consolazione agl’infermi, e per animare i serventi; scorreva la città, portando soccorsi ai poveri sequestrati nelle case, fermandosi agli usci, sotto le finestre, ad ascoltare i loro lamenti, a dare in cambio parole di consolazione e di coraggio. Si cacciò in somma e visse nel mezzo della pestilenza, maravigliato anche lui alla fine, d’esserne uscito illeso. Così, ne’ pubblici infortuni, e nelle lunghe perturbazioni di quel qual si sia ordine consueto, si vede sempre un aumento, una sublimazione di virtù; ma, pur troppo, non manca mai insieme un aumento, e d’ordinario ben più generale, di perversità. E questo pure fu segnalato. I birboni che la peste risparmiava e non atterriva, trovarono nella confusion comune, nel rilasciamento d’ogni forza pubblica, una nuova occasione d’attività, e una nuova sicurezza d’impunità a un tempo. Che anzi, l’uso della forza pubblica stessa venne a trovarsi in gran parte nelle mani de’ peggiori tra loro. All’impiego di monatti e d’apparitori non s’adattavano generalmente che uomini sui quali l’attrattiva delle rapine e della licenza potesse più che il terror del contagio, che ogni naturale ribrezzo. Erano a costoro prescritte strettissime regole, intimate severissime pene, assegnati posti, dati per superiori de’ commissari, come abbiam detto; sopra questi e quelli eran delegati in ogni quartiere, magistrati e nobili, con l’autorità di provveder sommariamente a ogni occorrenza di buon governo. Un tal ordin di cose camminò, e fece effetto, fino a un certo tempo; ma, crescendo, ogni giorno, il numero di quelli che morivano, di quelli che andavan via, di quelli che perdevan la testa, venner coloro a non aver quasi più nessuno che li tenesse a freno; si fecero, i monatti principalmente, arbitri d’ogni cosa. Entravano da padroni, da nemici nelle case, e, senza parlar de’ rubamenti, e come trattavano gl’infelici ridotti dalla peste a passar per tali mani, le mettevano, quelle mani infette e scellerate, sui sani, figliuoli, parenti, mogli, mariti, minacciando di strascinarli al lazzeretto, se non si riscattavano, o non venivano riscattati con danari. Altre volte, mettevano a prezzo i loro servizi, ricusando di portar via i cadaveri già putrefatti, a meno di tanti scudi. Si disse (e tra la leggerezza degli uni e la malvagità degli altri, è ugualmente malsicuro il credere e il non credere), si disse, e l’afferma anche il Tadino (Pag. 102.), che monatti e apparitori lasciassero cadere apposta dai carri robe infette, per propagare e mantenere la pestilenza, divenuta per essi un’entrata, un regno, una festa. Altri sciagurati, fingendosi monatti, portando un campanello attaccato a un piede, com’era prescritto a quelli, per distintivo e per avviso del loro avvicinarsi, s’introducevano nelle case a farne di tutte le sorte. In alcune, aperte e vote d’abitanti, o abitate soltanto da qualche languente, da qualche moribondo, entravan ladri, a man salva, a saccheggiare: altre venivan sorprese, invase da birri che facevan lo stesso, e anche cose peggiori. Del pari con la perversità, crebbe la pazzia: tutti gli errori già dominanti più o meno, presero dallo sbalordimento, e dall’agitazione delle menti, una forza straordinaria, produssero effetti più rapidi e più vasti. E tutti servirono a rinforzare e a ingrandire quella paura speciale dell’unzioni, la quale, ne’ suoi effetti, ne’ suoi sfoghi, era spesso, come abbiam veduto, un’altra perversità. L’immagine di quel supposto pericolo assediava e martirizzava gli animi, molto più che il pericolo reale e presente. “E mentre, - dice il Ripamonti, - i cadaveri sparsi, o i mucchi di cadaveri, sempre davanti agli occhi, sempre tra’ piedi, facevano della città tutta come un solo mortorio, c’era qualcosa di più brutto, di più funesto, in quell’accanimento vicendevole, in quella sfrenatezza e mostruosità di sospetti... Non del vicino soltanto si prendeva ombra [17], dell’amico, dell’ospite; ma que’ nomi, que’ vincoli dell’umana carità, marito e moglie, padre e figlio, fratello e fratello, eran di terrore: e, cosa orribile e indegna a dirsi! la mensa domestica, il letto nuziale, si temevano, come agguati, come nascondigli di venefizio”. La vastità immaginata, la stranezza della trama turbavan tutti i giudizi, alteravan tutte le ragioni della fiducia reciproca. Da principio, si credeva soltanto che quei supposti untori fosser mossi dall’ambizione e dalla cupidigia; andando avanti, si sognò, si credette che ci fosse una non so quale voluttà diabolica in quell’ungere, un’attrattiva che dominasse le volontà. I vaneggiamenti degl’infermi che accusavan se stessi di ciò che avevan temuto dagli altri, parevano rivelazioni, e rendevano ogni cosa, per dir così, credibile d’ognuno. E più delle parole, dovevan far colpo le dimostrazioni, se accadeva che appestati in delirio andasser facendo di quegli atti che s’erano figurati che dovessero fare gli untori: cosa insieme molto probabile, e atta a dar miglior ragione della persuasion generale e dell’affermazioni di molti scrittori. Così, nel lungo e tristo periodo de’ processi per stregoneria, le confessioni, non sempre estorte, degl’imputati, non serviron poco a promovere e a mantener l’opinione che regnava intorno ad essa: ché, quando un’opinione regna per lungo tempo, e in una buona parte del mondo, finisce a esprimersi in tutte le maniere, a tentar tutte l’uscite, a scorrer per tutti i gradi della persuasione; ed è difficile che tutti o moltissimi credano a lungo che una cosa strana si faccia, senza che venga alcuno il quale creda di farla. Tra le storie che quel delirio dell’unzioni fece immaginare, una merita che se ne faccia menzione, per il credito che acquistò, e per il giro che fece. Si raccontava, non da tutti nell’istessa maniera (che sarebbe un troppo singolar privilegio delle favole), ma a un di presso, che un tale, il tal giorno, aveva visto arrivar sulla piazza del duomo un tiro a sei, e dentro, con altri, un gran personaggio, con una faccia fosca e infocata, con gli occhi accesi, coi capelli ritti, e il labbro atteggiato di minaccia. Mentre quel tale stava intento a guardare, la carrozza s’era fermata; e il cocchiere l’aveva invitato a salirvi; e lui non aveva saputo dir di no. Dopo diversi rigiri, erano smontati alla porta d’un tal palazzo, dove entrato anche lui, con la compagnia, aveva trovato amenità e orrori, deserti e giardini, caverne e sale; e in esse, fantasime [18] sedute a consiglio. Finalmente, gli erano state fatte vedere gran casse di danaro, e detto che ne prendesse quanto gli fosse piaciuto, con questo però, che accettasse un vasetto d’unguento, e andasse con esso ungendo per la città. Ma, non avendo voluto acconsentire, s’era trovato, in un batter d’occhio, nel medesimo luogo dove era stato preso. Questa storia, creduta qui generalmente dal popolo, e, al dir del Ripamonti, non abbastanza derisa da qualche uomo di peso (Apud prudentium plerosque, non sicuti debuerat irrisa. De Peste etc., pag. 77.), girò per tutta Italia e fuori. In Germania se ne fece una stampa: l’elettore arcivescovo di Magonza scrisse al cardinal Federigo, per domandargli cosa si dovesse credere de’ fatti maravigliosi che si raccontavan di Milano; e n’ebbe in risposta ch’eran sogni. D’ugual valore, se non in tutto d’ugual natura, erano i sogni de’ dotti; come disastrosi del pari n’eran gli effetti. Vedevano, la più parte di loro, l’annunzio e la ragione insieme de’ guai in una cometa apparsa l’anno 1628, e in una congiunzione di Saturno con Giove, “inclinando, - scrive il Tadino, - la congiontione sodetta sopra questo anno 1630, tanto chiara, che ciascun la poteua intendere. Mortales parat morbos, miranda videntur” [19]. Questa predizione, cavata, dicevano, da un libro intitolato Specchio degli almanacchi perfetti, stampato in Torino, nel 1623, correva per le bocche di tutti. Un’altra cometa, apparsa nel giugno dell’anno stesso della peste, si prese per un nuovo avviso; anzi per una prova manifesta dell’unzioni. Pescavan ne’ libri, e pur troppo ne trovavano in quantità, esempi di peste, come dicevano, manufatta: citavano Livio, Tacito, Dione, che dico? Omero e Ovidio, i molti altri antichi che hanno raccontati o accennati fatti somiglianti: di moderni ne avevano ancor più in abbondanza. Citavano cent’altri autori che hanno trattato dottrinalmente, o parlato incidentemente di veleni, di malìe, d’unti, di polveri: il Cesalpino, il Cardano, il Grevino, il Salio, il Pareo, lo Schenchio, lo Zachia [20] e, per finirla, quel funesto Delrio [21], il quale, se la rinomanza degli autori fosse in ragione del bene e del male prodotto dalle loro opere, dovrebb’essere uno de’ più famosi; quel Delrio, le cui veglie costaron la vita a più uomini che l’imprese di qualche conquistatore: quel Delrio, le cui Disquisizioni Magiche (il ristretto [22] di tutto ciò che gli uomini avevano, fino a’ suoi tempi, sognato in quella materia), divenute il testo più autorevole, più irrefragabile [23], furono, per più d’un secolo, norma e impulso potente di legali, orribili, non interrotte carnificine. Da’ trovati del volgo, la gente istruita prendeva ciò che si poteva accomodar con le sue idee; da’ trovati della gente istruita, il volgo prendeva ciò che ne poteva intendere, e come lo poteva; e di tutto si formava una massa enorme e confusa di pubblica follia. Ma ciò che reca maggior maraviglia, è il vedere i medici, dico i medici che fin da principio avevan creduta la peste, dico in ispecie il Tadino, il quale l’aveva pronosticata, vista entrare, tenuta d’occhio, per dir così, nel suo progresso, il quale aveva detto e predicato che l’era peste, e s’attaccava col contatto, che non mettendovi riparo, ne sarebbe infettato tutto il paese, vederlo poi, da questi effetti medesimi cavare argomento certo dell’unzioni venefiche e malefiche; lui che in quel Carlo Colonna, il secondo che morì di peste in Milano, aveva notato il delirio come un accidente della malattia, vederlo poi addurre in prova dell’unzioni e della congiura diabolica, un fatto di questa sorte: che due testimoni deponevano d’aver sentito raccontare da un loro amico infermo, come, una notte, gli eran venute persone in camera, a esibirgli la guarigione e danari, se avesse voluto unger le case del contorno; e come al suo rifiuto quelli se n’erano andati, e in loro vece, era rimasto un lupo sotto il letto, e tre gattoni sopra, “che sino al far del giorno vi dimororno” (Pag. 123, 124.). Se fosse stato uno solo che connettesse così, si dovrebbe dire che aveva una testa curiosa; o piuttosto non ci sarebbe ragion di parlarne; ma siccome eran molti, anzi quasi tutti, così è storia dello spirito umano, e dà occasion d’osservare quanto una serie ordinata e ragionevole d’idee possa essere scompigliata da un’altra serie d’idee, che ci si getti a traverso. Del resto, quel Tadino era qui uno degli uomini più riputati del suo tempo. Due illustri e benemeriti scrittori hanno affermato che il cardinal Federigo dubitasse del fatto dell’unzioni (Muratori; Del governo della peste, Modena, 1714, pag. 117. - P. Verri; opuscolo citato, pag. 261.). Noi vorremmo poter dare a quell’inclita e amabile memoria una lode ancor più intera, e rappresentare il buon prelato, in questo, come in tant’altre cose, superiore alla più parte de’ suoi contemporanei, ma siamo in vece costretti di notar di nuovo in lui un esempio della forza d’un’opinione comune anche sulle menti più nobili. S’è visto, almeno da quel che ne dice il Ripamonti, come da principio, veramente stesse in dubbio: ritenne poi sempre che in quell’opinione avesse gran parte la credulità, l’ignoranza, la paura, il desiderio di scusarsi d’aver così tardi riconosciuto il contagio, e pensato a mettervi riparo; che molto ci fosse d’esagerato, ma insieme, che qualche cosa ci fosse di vero. Nella biblioteca ambrosiana si conserva un’operetta scritta di sua mano intorno a quella peste; e questo sentimento c’è accennato spesso, anzi una volta enunciato espressamente. “Era opinion comune, - dice a un di presso, - che di questi unguenti se ne componesse in vari luoghi, e che molte fossero l’arti di metterlo in opera: delle quali alcune ci paion vere, altre inventate” (Ecco le sue parole: Unguenta uero haec aiebant componi conficique multifariam, fraudisque uias fuisse complures; quarum sane fraudum, et artium aliis quidem assentimur, alias uero fictas fuisse comentitiasque arbitramur. De pestilentia quae Mediolani anno 1630 magnam stragem edidit. Cap. V.). Ci furon però di quelli che pensarono fino alla fine, e fin che vissero, che tutto fosse immaginazione: e lo sappiamo, non da loro, ché nessuno fu abbastanza ardito per esporre al pubblico un sentimento così opposto a quello del pubblico; lo sappiamo dagli scrittori che lo deridono o lo riprendono o lo ribattono, come un pregiudizio d’alcuni, un errore che non s’attentava di venire a disputa palese, ma che pur viveva; lo sappiamo anche da chi ne aveva notizia per tradizione. “Ho trovato gente savia in Milano, - dice il buon Muratori, nel luogo sopraccitato, - che aveva buone relazioni dai loro maggiori, [24] e non era molto persuasa che fosse vero il fatto di quegli unti velenosi”. Si vede ch’era uno sfogo segreto della verità, una confidenza domestica: il buon senso c’era; ma se ne stava nascosto, per paura del senso comune. I magistrati, scemati ogni giorno, e sempre più smarriti e confusi, tutta, per dir così, quella poca risoluzione di cui eran capaci, l’impiegarono a cercar di questi untori. Tra le carte del tempo della peste, che si conservano nell’archivio nominato di sopra, c’è una lettera (senza alcun altro documento relativo) in cui il gran cancelliere informa, sul serio e con gran premura, il governatore d’aver ricevuto un avviso che, in una casa di campagna de’ fratelli Girolamo e Giulio Monti, gentiluomini milanesi, si componeva veleno in tanta quantità, che quaranta uomini erano occupati en este exercicio [26], con l’assistenza di quattro cavalieri bresciani, i quali facevano venir materiali dal veneziano, para la fábrica del veneno [27]. Soggiunge che lui aveva preso, in gran segreto, i concerti necessari per mandar là il podestà di Milano e l’auditore della Sanità, con trenta soldati di cavalleria; che pur troppo uno de’ fratelli era stato avvertito a tempo per poter trafugare gl’indizi del delitto, e probabilmente dall’auditor medesimo, suo amico; e che questo trovava delle scuse per non partire; ma che non ostante, il podestà co’ soldati era andato a reconocer la casa, y a ver si hallará algunos vestigios [28], e prendere informazioni, e arrestar tutti quelli che fossero incolpati. La cosa dové finire in nulla, giacché gli scritti del tempo che parlano de’ sospetti che c’eran su que’ gentiluomini, non citano alcun fatto. Ma pur troppo, in un’altra occasione, si credé d’aver trovato. I processi che ne vennero in conseguenza, non eran certamente i primi d’un tal genere: e non si può neppur considerarli come una rarità nella storia della giurisprudenza. Ché, per tacere dell’antichità, e accennar solo qualcosa de’ tempi più vicini a quello di cui trattiamo, in Palermo, del 1526; in Ginevra, del 1530, poi del 1545, poi ancora del 1574; in Casal Monferrato, del 1536; in Padova, del 1555; in Torino, del 1599, e di nuovo, in quel medesim’anno 1630, furon processati e condannati a supplizi, per lo più atrocissimi, dove qualcheduno, dove molti infelici, come rei d’aver propagata la peste, con polveri, o con unguenti, o con malìe, o con tutto ciò insieme. Ma l’affare delle così dette unzioni di Milano, come fu il più celebre, così è fors’anche il più osservabile; o, almeno, c’è più campo di farci sopra osservazione, per esserne rimasti documenti più circostanziati e più autentici. E quantunque uno scrittore lodato poco sopra [29] se ne sia occupato, pure, essendosi lui proposto, non tanto di farne propriamente la storia, quanto di cavarne sussidio di ragioni, per un assunto di maggiore, o certo di più immediata importanza, c’è parso che la storia potesse esser materia d’un nuovo lavoro. Ma non è cosa da uscirne con poche parole; e non è qui il luogo di trattarla con l’estensione che merita. E oltre di ciò, dopo essersi fermato su que’ casi, il lettore non si curerebbe più certamente di conoscere ciò che rimane del nostro racconto. Serbando però a un altro scritto [30] la storia e l’esame di quelli (V. l’opuscolo in fine del volume), torneremo finalmente a’ nostri personaggi, per non lasciarli più, fino alla fine. |
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Note
- Al campo di Casale del Monferrato, dove l'esercito spagnolo comandato dallo Spinola aveva posto l'assedio.
- Le imposte del Governo.
- Del Fisco.
- "Avrebbe provveduto nel modo migliore, come il tempo e le necessità presenti permettevano".
- "Con gran dispiacere".
- Lettere ufficiali, decreti (dal lat. patens, "manifesto").
- Finì col riconoscimento generale del nuovo duca, il Nevers.
- La cessione venne sancita dal Trattato di Cherasco, del 1631.
- Sospetto.
- Un ingegnere.
- I Francesi erano i nemici della Spagna nella guerra di Mantova allora in corso.
- Veli.
- La buffa è un cappuccio che copre l'intero viso, lasciando scoperti solo due fori per gli occhi. È usato ancora oggi dai membri di confraternite religiose durante le processioni liturgiche.
- Si tratta di Largo Carrobbio, oggi in fondo a via Torino.
- Incline a vedere una cosa per un'altra.
- "Non si poteva avere alcun aiuto né assistenza da parte del Governatore, poiché era tempo di guerra ed era necessario trattar bene i soldati."
- Si diffidava, si sospettava.
- Fantasmi, spettri (è forma popolare toscana).
- "Prepara malattie mortali, cose mirabili a vedersi".
- Sono tutti scrittori attivi tra XVI e XVII sec., autori di trattati e libri vari su malattie e sostanze tossiche: Andrea Cesalpino (1519-1603) fu professore all'Università di Pisa e scrisse opere filosofiche; Girolamo Cardano (1501-1576) fu astronomo e matematico, citato anche fra gli autori della biblioteca di don Ferrante (cap. XXVII); il francese Jacopo Grévin (1538-1570) scrisse un trattato De venenis; Pietro Salio, medico faentino vissuto nel Cinquecento, fu autore di un libro sulle febbri pestilenziali e i modi per curarle; il francese Ambroise Paré (1517-1590), chirurgo di corte, scrisse un trattato sulla peste; il tedesco Giovanni Giorgio Schenck (1530-1598) fu autore di un'enciclopedia in cui trattava di veleni e malattie contagiose; il romano Paolo Zachia (1584-1659) fu il medico di papa Innocenzo X e scrisse un trattato di medicina legale, Discussiones medico-legales.
- Il gesuita Martino Delrio (1551-1608), di Anversa, fu autore dei Disquisitionum magicarum libri VI, che divenne in effetti un trattato di autorità nel Seicento in materia di pratiche magiche e stregonesche. Lo scrittore era già citato nel cap. XXVII in modo ironicamente celebrativo, proprio tra le auctoritates seguite da don Ferrante nei suoi studi sulla magia.
- Il condensato.
- Inconfutabile.
- Ludovico Antonio Muratori (1672-1750) fu bibliotecario della Ambrosiana di Milano, nonché antiquario e autore di opere storiografiche e critiche; Manzoni cita la sua opinione sugli untori anche nella Storia della colonna infame, benché nel trattato inclini a credere che lo studioso non credesse realmente nella loro esistenza e prendesse dunque le distanze dalla opinione comune.
- "Che aveva memorie scritte dei propri antenati".
- "In questa attività".
- "Per la fabbricazione del veleno".
- "A perquisire la casa e a vedere se si troverà qualche traccia".
- Pietro Verri, autore delle Osservazioni sulla tortura (pubblicate postume nel 1804).
- Si tratta della Storia della colonna infame, pubblicata nel 1842 in appendice al romanzo.