Scritti di morale e di storia
Lo storico L. Simonde de Sismondi
L'interesse per la storia e per i problemi morali ad essa collegati ha sempre animato l'attività letteraria di Manzoni, diventandone l'elemento fondamentale almeno fin dall'abbandono delle poetiche neoclassiche: ciò è connesso con l'inclinazione ad una letteratura impegnata, volta ad affrontare delicate tematiche sociali, nel solco della tradizione dell'Illuminismo lombardo in cui lo scrittore si era formato e alla quale rimase fedele per tutta la vita (del resto lo sfondo storico è fondamentale sin dalle due tragedie, mentre è persino ovvio citare a questo riguardo la genesi del romanzo). Inizialmente gli scritti di argomento storico o morale affiancano la stesura delle opere letterarie che mescolano storia e invenzione, come la nota che precede il Conte di Carmagnola in cui Manzoni traccia in sintesi la biografia del Bussone e ne sostiene con convinzione l'innocenza (studi recenti hanno però sollevato dubbi su questo aspetto); funzione analoga ha anche il Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica in Italia (1822), che ovviamente è parallelo alla pubblicazione dell'Adelchi e documenta lo scenario storico in cui è ambientata la tragedia. In questo trattatello Manzoni prende le distanze dalla storiografia tradizionale che, a suo dire, si è interessata esclusivamente dei grandi e dei potenti, mentre compito dello storico dovrebbe essere scrivere le vicende degli umili e degli oppressi (considerazioni simili si trovano anche nell'Introduzione ai Promessi sposi); egli riafferma inoltre il ruolo positivo avuto dalla Chiesa e dal Papato nel prendersi cura, durante i secoli bui del Medioevo, delle masse popolari che hanno subìto la tirannia di dominatori quali Longobardi e Franchi, la cui posizione è drasticamente ridimensionata in polemica con una certa storiografia che invece ne sottolineava i meriti politici. Punto di vista assai simile era espresso anche nel saggio Osservazioni sulla morale cattolica (1819), in cui Manzoni contestava l'opinione dello storico ginevrino Sismondi (espressa nell'opera Histoire des Républiques italiennes du Moyen-Âge, edita nel 1818) secondo cui la decadenza politica dell'Italia nell'età della Controriforma era causa della Chiesa cattolica, il cui ruolo viene invece rivalutato dallo scrittore.
L'opera storiografica più interessante dell'autore resta comunque (dopo la Storia della colonna infame, pubblicata in appendice all'edizione 1840-42 del romanzo) il Saggio incompiuto sulla Rivoluzione francese, abbozzato fra 1860-1864 e rielaborato negli ultimi mesi di vita, per essere pubblicato postumo nel 1889. L'opera (il cui titolo completo doveva essere La rivoluzione francese del 1789 e la rivoluzione italiana del 1859. Osservazioni comparative) parte dal presupposto che nessun popolo ha il diritto di rovesciare con un atto violento il governo di un sovrano legittimamente in carica, quand'anche esso si sia macchiato di gravi colpe, dunque il fine dell'autore è condannare la Rivoluzione francese come atto illegale e foriero di gravissime violenze e delitti, in contrapposizione al processo legale e relativamente pacifico che portò nel 1859-60 all'unificazione nazionale italiana. Tale paragone è ovviamente molto forzato e inverosimile (il che spiega, forse, perché l'opera sia stata abbandonata dall'autore prima di affrontare la seconda parte), tuttavia lo scritto è interessante per la condanna senz'appello delle violenze giacobine durante il Terrore e perché esprime bene il pensiero politico dello scrittore che, peraltro, è visibile anche nel romanzo, ovvero quello di un conservatore che nutre grande sfiducia per il popolo e le rivolte violente, mentre l'unica soluzione è un processo riformatore dall'alto che agisca in modo "illuminato" (è evidente la matrice settecentesca delle idee manzoniane sotto questo aspetto).
L'opera storiografica più interessante dell'autore resta comunque (dopo la Storia della colonna infame, pubblicata in appendice all'edizione 1840-42 del romanzo) il Saggio incompiuto sulla Rivoluzione francese, abbozzato fra 1860-1864 e rielaborato negli ultimi mesi di vita, per essere pubblicato postumo nel 1889. L'opera (il cui titolo completo doveva essere La rivoluzione francese del 1789 e la rivoluzione italiana del 1859. Osservazioni comparative) parte dal presupposto che nessun popolo ha il diritto di rovesciare con un atto violento il governo di un sovrano legittimamente in carica, quand'anche esso si sia macchiato di gravi colpe, dunque il fine dell'autore è condannare la Rivoluzione francese come atto illegale e foriero di gravissime violenze e delitti, in contrapposizione al processo legale e relativamente pacifico che portò nel 1859-60 all'unificazione nazionale italiana. Tale paragone è ovviamente molto forzato e inverosimile (il che spiega, forse, perché l'opera sia stata abbandonata dall'autore prima di affrontare la seconda parte), tuttavia lo scritto è interessante per la condanna senz'appello delle violenze giacobine durante il Terrore e perché esprime bene il pensiero politico dello scrittore che, peraltro, è visibile anche nel romanzo, ovvero quello di un conservatore che nutre grande sfiducia per il popolo e le rivolte violente, mentre l'unica soluzione è un processo riformatore dall'alto che agisca in modo "illuminato" (è evidente la matrice settecentesca delle idee manzoniane sotto questo aspetto).