La peste del 1630
F. Gonin, La peste a Milano
È la terribile epidemia che si scatenò nel Nord Italia tra il 1630 e il 1631, decimando la popolazione e infuriando con particolare virulenza nella città di Milano, allora tra le più popolose della regione: è descritta nelle pagine finali del romanzo, in particolare nei capp. XXXI-XXXII interamente occupati da una digressione storica che ricostruisce la diffusione del morbo e le sue drammatiche conseguenze (la descrizione del romanziere è rimasta giustamente celebre ed è ricordata tuttora come uno dei momenti più alti della sua opera letteraria). L'epidemia si propagò facilmente anche grazie allo stato di estrema povertà e privazione in cui il popolo si trovava dopo due anni di terribile carestia, e in seguito a movimenti di truppe e saccheggi avvenuti nell'ambito della guerra per la successione di Mantova, che vedeva la Spagna opposta alla Francia.
La calata dei lanzichenecchi in Lombardia
Un lanzichenecco (ant. stampa)
Il contagio fu portato in Lombardia dalla discesa delle truppe tedesche al comando di Albrecht von Wallenstein, che penetrarono dalla Valtellina dirette a Mantova per porre l'assedio alla città e nelle cui fila covava da tempo la peste in forma endemica (il passaggio dei lanzichenecchi, descritto nei capp. XXVIII, XXIX e XXX del romanzo, avvenne nell'autunno del 1629 e si lasciò dietro una scia di terribili saccheggi e devastazioni). Le autorità sanitarie di Milano nutrivano forti timori che il passaggio delle soldatesche potesse diffondere la malattia, cosicché Alessandro Tadino, allora membro del Tribunale di Sanità e autore in seguito di un Ragguaglio più volte citato da Manzoni come fonte, rappresentò al governatore milanese don Gonzalo Fernandez de Cordoba il rischio incombente sulla città chiedendo provvedimenti di prevenzione, ma l'uomo politico rispose che la discesa delle truppe era dovuta a esigenze belliche imprescindibili e che bisognava confidare nella Provvidenza. Sporadici casi di peste vennero riscontrati in tutto il territorio percorso dai lanzichenecchi e il famoso medico Lodovico Settala, che già aveva visto la precedente epidemia del 1576, il 20 ottobre 1629 informò il Tribunale di Sanità che la peste si stava diffondendo nel territorio di Lecco confinante con il Bergamasco, benché non fosse preso alcun provvedimento in merito; successivamente il Tadino e un altro funzionario del Tribunale si recarono nel territorio di Lecco, in Valsassina e sulle coste del lago di Como, riscontrando casi diffusi di contagio e informando le autorità di Milano affinché stringessero un cordone sanitario intorno alla città, per impedirvi l'ingresso alle popolazioni provenienti dalle zone in cui l'epidemia stava già infuriando. Essi riferirono tutto anche ad Ambrogio Spinola, che nel frattempo aveva sostituito don Gonzalo nella carica di governatore dello Stato, ma si sentirono rispondere che "le preoccupazioni della guerra erano più pressanti", mentre pochi giorni dopo (il 18 novembre 1629) vennero celebrate pubbliche feste per la nascita del primogenito di Filippo IV re di Spagna, senza alcun timore che il concorso di folla nelle strade potesse facilitare la diffusione del morbo. Manzoni sottolinea come le autorità sanitarie e politiche di Milano mostrassero un'incredibile negligenza nell'applicare le minime misure di prevenzione per evitare che il contagio si propagasse alla città, al punto che la grida che imponeva il cordone sanitario non fu emanata che il 29 novembre, quando ormai la peste era già entrata a Milano.
La peste a Milano
Ritratto di L. Settala
I cronisti dell'epoca si affannarono a citare il nome del soldato che, entrando a Milano con un fagotto di vesti comprate dai fanti tedeschi, contribuì a diffondervi il mortale contagio, anche se tale dettaglio interessa molto poco a Manzoni: si trattava di un certo Pietro Antonio Lovato (secondo altre fonti Pier Paolo Locati), che alloggiava in casa di suoi parenti presso Porta Orientale e, ammalatosi, morì tre giorni dopo all'ospedale dove fu ricoverato. Sul suo corpo fu riscontrata la presenza di un bubbone sotto un'ascella, segno inconfondibile della malattia, così il Tribunale di Sanità ordinò di bruciare tutte le sue suppellettili e di internare al lazzaretto le persone che erano entrate in contatto con lui, anche se questo rallentò e non impedì la diffusione del morbo. L'epidemia crebbe lentamente e ci furono casi sporadici di peste in città tra la fine del 1629 e i primi mesi del 1630, senza che questo allarmasse più di tanto le autorità milanesi o impedisse i festeggiamenti per il carnevale, mentre il popolo continuava a ignorare la realtà attribuendo i decessi a febbri malariche o altre malattie dai nomi meno spaventosi. Per ordine del Tribunale venivano costretti alla quarantena nel lazzaretto tutti i malati o le persone sospette, il che spingeva molti a nascondere i casi di peste e i decessi (la cosa contribuì al propagarsi dell'epidemia), mentre la voce popolare accusava di incompetenza e connivenza col Tribunale stesso quei medici che si erano adoperati per fronteggiare l'emergenza: fra questi il Tadino e Senatore Settala figlio del protofisico Lodovico, che venivano accolti con insulti e sassate dalla folla di Milano e accusati di diffondere voci infondate sulla peste per dare lavoro alla Sanità. Lo stesso Lodovico Settala era additato dalla pubblica opinione come portatore di malaugurio, fatto esecrato da Manzoni che pure rammenta come l'illustre medico partecipasse ai pregiudizi dei suoi contemporanei, dal momento che promosse alcuni processi per stregoneria (il Settala cadde vittima del contagio insieme a tutta la sua famiglia, tra cui si salvarono solo lui e uno dei figli). Furono proprio i casi di peste tra le famiglie aristocratiche più in vista di Milano a convincere la popolazione della realtà dell'epidemia, anche se il Tribunale di Sanità inizialmente parlò ancora di "febbri pestilenti" e "maligne" per non allarmare i cittadini, mentre le autorità politiche si mossero con estrema lentezza per cercare di assicurare alla città il necessario vettovagliamento in vista di una recrudescenza del morbo.
L'infuriare della malattia in città
M. Gherardini, La peste a Porta Orientale
Dal mese di marzo del 1630 la peste iniziò a mietere vittime in ogni angolo di Milano, rendendo di drammatica evidenza ciò che, fino a poco tempo prima, era stato negato o travisato con un linguaggio ambiguo: i malati si affollavano in numero sempre crescente al lazzaretto, già ricovero per i poveri e gli accattoni durante la carestia, così alla direzione di questo fu posto padre Felice Casati, un frate cappuccino che si adoperò in tutti i modi con i suoi confratelli per accudire al meglio i malati (Manzoni sottolinea che furono i cappuccini a supplire alle autorità cittadine in quella circostanza, il che va a maggiore infamia dell'incapacità mostrata dal potere politico di fronte al flagello). A partire dal mese di maggio i casi di contagio crebbero notevolmente, complice il caldo che favoriva la diffusione del male, al punto che gli appestati non potevano essere più ospitati nel lazzaretto e si ipotizzò di creare un'area di raccolta dei malati fuori Porta Ticinese, oppure di sigillare l'intera zona di Porta Orientale dove i casi erano più frequenti (nessuno di questi provvedimenti, tuttavia, venne realizzato). Alla fine di maggio i casi erano più di quaranta al giorno e fu deciso pertanto di creare un secondo lazzaretto al Gentilino, che fu affidato ai padri carmelitani e che divenne attivo a partire dall'8 di giugno. Nonostante le gride che proibivano di lasciare la città e minacciavano le solite pene severissime, come la confisca delle case e di tutti i patrimoni, furono molti i nobili che fuggirono da Milano per andarsi a rifugiare nei loro possedimenti in campagna.
La caccia agli untori
Il supplizio degli untori (stampa XVII sec.)
La paura per il contagio che mieteva vittime sempre più numerose in città fece nascere nella moltitudine nuovi pregiudizi e iniziò così a diffondersi l'assurda credenza che alcuni uomini spargessero appositamente unguenti venefici per propagare la peste, personaggi immaginari noti col nome famigerato di untori: tale diceria non era alimentata solo dalla superstizione e dall'ignoranza popolare, ma trovava conferma anche nelle teorie di molti "dotti" del tempo e si rifaceva a fatti simili che, si narrava, erano avvenuti in altri paesi d'Europa in occasione di analoghe pestilenze (compresa quella di Milano del 1576). Manzoni cita un dispaccio proveniente dalla Spagna e firmato da re Filippo IV in persona che, tempo prima, informava il governatore che quattro spie francesi, sospettate di mettere in atto tale pratica, erano fuggite da Madrid e potevano essere giunte a Milano, e anche se tale avviso non era stato sul momento preso molto sul serio la cosa tornò in mente a tutti all'epoca dell'epidemia. Inoltre alcuni fatti strani e apparentemente inspiegabili contribuirono a fomentare la credenza negli untori, il primo dei quali verificatosi un giorno nel duomo: il 17 maggio alcuni testimoni credettero di vedere persone che ungevano di strane sostanze un asse di legno, e benché il presidente della Sanità avesse escluso la presenza di unguenti velenosi, quell'asse e altre suppellettili vennero portate fuori dalla chiesa e lavate accuratamente; il giorno seguente in molti punti della città si videro le mura e le porte imbrattate di certa sostanza giallognola, che suscitò vivo allarme nella popolazione nonostante si fosse accertato che essa non presentava rischi per la salute. Si trattò forse di uno scherzo di gusto macabro fatto da scolari o da ufficiali di stanza in città, o forse la volontà di scatenare il panico diffondendo timori infondati, fatto sta che tra gli abitanti di Milano si diffuse una vera psicosi e si iniziarono a cercare e a vedere untori dappertutto, mentre montava verso questi fantomatici personaggi una furia cieca e bestiale. Manzoni cita due episodi emblematici di come il furore popolare fosse tragicamente in cerca di capri espiatori della peste: un vecchio che spolverava una panca in chiesa prima di sedervisi venne accusato di essere un untore, linciato senza pietà e trascinato in carcere dove probabilmente morì per le percosse; tre giovani francesi, nell'atto di osservare il duomo e di toccarne il marmo con una mano, subirono lo stesso trattamento da parte della folla e furono condotti al palazzo di giustizia, dove fortunatamente furono scagionati e liberati. Molti illustri medici cominciarono a confermare con argomenti pseudo-scientifici l'esistenza degli untori, cui credette forse lo stesso cardinal Borromeo, mentre si invocava l'apparizione di due comete nel 1628 e 1630 come cause del contagio della peste e anche, assurdamente, del diffondersi delle unzioni (queste venivano attribuite anche a varie cause "politiche", ad esempio le trame del cardinal Richelieu nell'ambito della guerra contro la Spagna). Furono condotte varie inchieste che finirono fortunatamente in nulla, mentre non così avvenne nel caso di Giangiacomo Mora e Guglielmo Piazza che vennero accusati di essere untori e condannati a morte, dopo che le loro confessioni erano state estorte con la tortura: Manzoni ricostruisce la vicenda giudiziaria nella Storia della colonna infame, il saggio storico pubblicato in appendice al romanzo e il cui contenuto è brevemente accennato alla fine del cap. XXXII.
La processione dell'11 giugno 1630
G. Previati, La processione solenne
Il continuo aumento dei decessi e l'infuriare senza tregua del morbo spinsero i decurioni (i magistrati di Milano che si occupavano di amministrare la città) a chiedere al cardinal Borromeo l'autorizzazione a svolgere una solenne processione per le strade, in cui fosse esposto il corpo venerato di S. Carlo e si invocasse così il soccorso divino per porre rimedio alla terribile calamità. Il prelato sulle prime rifiutò, temendo che la cosa non sortisse l'effetto desiderato e la rabbia popolare si rivolgesse contro il santo, e anche per non dare l'occasione ai presunti untori di spargere i loro veleni (sulla loro esistenza il cardinale nutrì seri dubbi, come Manzoni non manca di sottolineare), tuttavia alla fine cedette alle reiterate insistenze e la processione venne stabilita per il giorno 11 giugno, partendo all'alba dal duomo cittadino. Il Tribunale di Sanità non oppose alcuna obiezione, né assunse particolari cautele dato l'elevato rischio di contagio con l'accorrere di folla nelle strade di Milano, il che dimostra una volta di più l'incuria delle autorità cittadine nel fronteggiare l'epidemia: la processione si tenne con un concorso incredibile di popolo e attraversò tutti i quartieri della città, esponendo la reliquia di S. Carlo e facendo delle fermate presso tutte le croci che erano state benedette e poste dal santo alla fine della peste del 1576, mentre moltissimi Milanesi osservavano dalle case e persino dai tetti il procedere del lungo corteo. Fin dal giorno seguente, tuttavia, i decessi per il morbo crebbero in maniera vistosa e ciò evidentemente per il propagarsi più rapido del contagio nella processione medesima, attraverso il moltiplicarsi dei contatti fra le persone radunate in strada: la rabbia popolare attribuì invece l'incrudelire della malattia all'azione degli untori, i quali (si diceva) avevano approfittato dell'adunanza di folla per spargere polveri e altri intrugli venefici, cosa che alimentò ulteriormente quel clima di sospetto e terrore che, di lì a poco, condusse ai processi sommari contro i presunti untori (l'arresto di Guglielmo Piazza avvenne infatti il 21 giugno, dopo che si vide, o si credette di vedere, il muro lungo Porta Ticinese imbrattato di sostanze giallastre).
Il colmo dell'epidemia nell'estate 1630
Un carro di monatti (stampa XVII sec.)
L'arrivo dell'estate e del caldo accrebbe ulteriormente la virulenza della peste e la situazione in città nei mesi di luglio e agosto 1630 divenne pressoché insostenibile, anche per la quasi impossibilità da parte del Tribunale di Sanità e delle altre autorità milanesi a far fronte ai bisogni della popolazione: il numero di decessi giornalieri arrivò a 500 all'inizio dell'estate, per poi toccare i 1200-1500, mentre la popolazione del lazzaretto passò in poco tempo da 2000 a oltre 12000 appestati, rendendo oltremodo difficile per i padri cappuccini prendersi cura di tutte le loro necessità. Milano si trasformò in una città spettrale e spopolata, in cui i cadaveri giacevano spesso nelle strade abbandonati a se stessi o venivano raccolti dai monatti, gli addetti del Tribunale che svolgevano i compiti più gravosi e pericolosi in mezzo al contagio; molti bambini che avevano perso le madri restavano privi di assistenza, né si trovavano mezzi per prendersi cura di loro in modo adeguato; i cadaveri avevano ormai colmato l'unica immensa fossa comune scavata nel lazzaretto, cosicché fu necessario reclutare appositamente dei contadini per scavarne altre e dare cristiana sepoltura ai morti in numero sempre crescente (furono i cappuccini a incaricarsi di questo triste compito, cui le autorità non avevano saputo provvedere). Gli ecclesiastici si prodigarono in effetti per sollevare la popolazione dalle terribili conseguenze del morbo, dentro e fuori il lazzaretto, anche grazie all'opera incessante del cardinal Borromeo che non esitò a mescolarsi più volte agli ammalati e a usare ogni mezzo pur di lenire le loro sofferenze, uscendo miracolosamente illeso dall'epidemia. Ci fu tuttavia anche l'esempio molto meno edificante di chi cercò di trarre vantaggio dalla moria approfittando della situazione drammatica, come i monatti che a un certo punto divennero i padroni delle strade e usarono il loro potere per derubare gli ammalati o minacciarne le famiglie per estorcere loro del denaro, venendo tra l'altro sospettati di diffondere ad arte il contagio per non far cessare la pestilenza che rappresentava la loro fonte di guadagno. Non erano pochi infine quelli che si fingevano monatti attaccandosi un campanello al piede (il contrassegno che indicava la presenza di questi tristi figuri) e ne approfittavano per commettere ogni sorta di ruberie, in ciò non ostacolati e anzi spesso aiutati da molti esponenti delle autorità, il che dimostra il disfacimento del tessuto sociale cui si giunse in città verso la fine di quella tremenda estate.
Il drammatico bilancio della pestilenza
F. Gonin, I guariti della peste
La moria toccò il suo apice tra agosto e settembre 1630, momento in cui a Milano oltre ai viveri iniziarono a scarseggiare anche i monatti, poi nell'autunno e nel successivo inverno la virulenza del morbo iniziò a scemare (anche grazie alle condizioni climatiche più rigide), per cui all'inizio del 1631 l'epidemia poteva dirsi conclusa a dispetto di casi isolati di contagio e di morte. La peste aveva ovviamente spopolato Milano e aveva fatto migliaia di vittime anche nei territori circostanti, per quanto i documenti dell'epoca rendano molto difficile fare delle stime precise dei morti: il Tadino ipotizza nella sola città di Milano circa 165.000 vittime, mentre il Ripamonti (autore di una cronaca della peste più volte citata da Manzoni come fonte storica) parla di poco meno di 140.000, cifre tuttavia approssimative in quanto è difficile stabilire la popolazione della città prima della moria. Praticamente nulli i dati relativi ai morti nel resto della Lombardia, anche se è ipotizzabile che la peste abbia flagellato in modo altrettanto crudele le popolazioni contadine: a differenza delle precedenti epidemie, inoltre, quella del 1630 fu particolarmente virulenta e colpì tanto le popolazioni rurali quanto i ceti imprenditoriali e artigiani, causando una crisi economica che venne superata nel corso di vari anni (se ne ha un accenno anche nel romanzo, poiché Renzo acquista in società col cugino Bortolo un filatoio di seta nel Bergamasco il cui proprietario è morto a causa della peste e gli affari stentano a decollare per la scarsezza degli operai).
L'autore descrive la terribile epidemia con l'occhio attento e obiettivo dello storico, citando spesso le fonti a sua disposizione e sottolineando soprattutto l'incuria e la negligenza mostrate dalle autorità milanesi nel sottovalutare il rischio del contagio, e poi nel tacere e minimizzare la pestilenza quando essa era già scoppiata; essa è stata causata soprattutto dall'insensata guerra per la successione di Mantova, che oltre ad essere nata da assurde questioni dinastiche ha anche sottratto risorse e aiuti che potevano essere spesi per provvedere alla popolazione (gravi in questo senso sono le colpe dei due governatori milanesi, don Gonzalo Fernandez de Cordoba e Ambrogio Spinola). Quanto all'aspetto religioso del flagello, Manzoni presenta la peste come una terribile prova inviata da Dio agli uomini in base ai suoi disegni imperscrutabili, per cui è vano cercare una logica nell'azione di un morbo che ha colpito egualmente colpevoli e innocenti, personaggi malvagi e buoni: il male nella storia è un enigma insolubile e ciò appare chiaro soprattutto nel dramma dell'epidemia, di fronte al quale l'atteggiamento del romanziere è spesso di sbalordito attonimento e lontanissimo da quello di altri scrittori del passato, che l'avrebbero prontamente interpretato come un meritato castigo divino (cfr. I. Calvino, Un mondo senza Provvidenza). Del resto anche i personaggi del romanzo hanno pensieri del tutto diversi riguardo alla spaventosa moria, da don Rodrigo che si fa beffe del morbo ma poi è inorridito quando si scopre ammalato, a Renzo e Lucia che accettano la malattia con cristiana rassegnazione, a fra Cristoforo che vede nella peste l'occasione di sacrificarsi nel servizio caritatevole al prossimo, fino a don Abbondio per il quale la peste è stata una "scopa" che ha spazzato via prepotenti e malvagi, massima che è conforme al suo consueto gretto egoismo. Val la pena di ricordare ancora lo scombinato ragionamento con cui don Ferrante, alla fine del cap. XXXVII, nega che il contagio si propaghi da un corpo all'altro e attribuisce la pestilenza, forte della sua filosofia aristotelica, agli influssi astrali: rifiuta di prendere qualunque precauzione e finisce per ammalarsi, morendo a letto come "un eroe di Metastasio, prendendosela con le stelle", mentre la sua famosa biblioteca finisce probabilmente in vendita sulle bancarelle (il suo atteggiamento, messo in ridicolo dall'autore, era comunque proprio di tanti presunti "dotti" nel XVII secolo).
Per approfondire: G. Baldissone, La rappresentazione iconografica della peste; U. Dotti, Guerra, fame, peste; L. Sciascia, I burocrati del Male.
L'autore descrive la terribile epidemia con l'occhio attento e obiettivo dello storico, citando spesso le fonti a sua disposizione e sottolineando soprattutto l'incuria e la negligenza mostrate dalle autorità milanesi nel sottovalutare il rischio del contagio, e poi nel tacere e minimizzare la pestilenza quando essa era già scoppiata; essa è stata causata soprattutto dall'insensata guerra per la successione di Mantova, che oltre ad essere nata da assurde questioni dinastiche ha anche sottratto risorse e aiuti che potevano essere spesi per provvedere alla popolazione (gravi in questo senso sono le colpe dei due governatori milanesi, don Gonzalo Fernandez de Cordoba e Ambrogio Spinola). Quanto all'aspetto religioso del flagello, Manzoni presenta la peste come una terribile prova inviata da Dio agli uomini in base ai suoi disegni imperscrutabili, per cui è vano cercare una logica nell'azione di un morbo che ha colpito egualmente colpevoli e innocenti, personaggi malvagi e buoni: il male nella storia è un enigma insolubile e ciò appare chiaro soprattutto nel dramma dell'epidemia, di fronte al quale l'atteggiamento del romanziere è spesso di sbalordito attonimento e lontanissimo da quello di altri scrittori del passato, che l'avrebbero prontamente interpretato come un meritato castigo divino (cfr. I. Calvino, Un mondo senza Provvidenza). Del resto anche i personaggi del romanzo hanno pensieri del tutto diversi riguardo alla spaventosa moria, da don Rodrigo che si fa beffe del morbo ma poi è inorridito quando si scopre ammalato, a Renzo e Lucia che accettano la malattia con cristiana rassegnazione, a fra Cristoforo che vede nella peste l'occasione di sacrificarsi nel servizio caritatevole al prossimo, fino a don Abbondio per il quale la peste è stata una "scopa" che ha spazzato via prepotenti e malvagi, massima che è conforme al suo consueto gretto egoismo. Val la pena di ricordare ancora lo scombinato ragionamento con cui don Ferrante, alla fine del cap. XXXVII, nega che il contagio si propaghi da un corpo all'altro e attribuisce la pestilenza, forte della sua filosofia aristotelica, agli influssi astrali: rifiuta di prendere qualunque precauzione e finisce per ammalarsi, morendo a letto come "un eroe di Metastasio, prendendosela con le stelle", mentre la sua famosa biblioteca finisce probabilmente in vendita sulle bancarelle (il suo atteggiamento, messo in ridicolo dall'autore, era comunque proprio di tanti presunti "dotti" nel XVII secolo).
Per approfondire: G. Baldissone, La rappresentazione iconografica della peste; U. Dotti, Guerra, fame, peste; L. Sciascia, I burocrati del Male.