I monatti
R. Guttuso, I monatti
Erano gli addetti che durante l'epidemia di peste a Milano nel 1630 avevano il compito di raccogliere i cadaveri dalle strade o dalle case e portarli alle fosse comuni, oppure di trasportare i malati al lazzaretto e di bruciare panni e cenci infetti: storicamente i monatti furono al servizio del Tribunale di Sanità e venivano reclutati fra uomini che non avevano molto da temere dal contagio, o perché già colpiti dal morbo e perciò immuni, o più spesso in quanto si trattava di criminali di pochi scrupoli, attratti dal salario e dalla prospettiva di arricchirsi depredando i morti e i malati. Vengono citati nel cap. XXXII dedicato alla peste e l'autore propone varie etimologie del loro nome, nessuna davvero convincente (dal greco monos, secondo la congettura del Ripamonti, dal latino monere, oppure come storpiatura del tedesco monathlich, "mensuale", con allusione al fatto che essi venivano reclutati mese per mese); è più probabile che il termine derivi dal milanese monàt, "monaco", come alterazione del significato originario nel senso di "affossatore", "becchino" (la questione è tuttora aperta). A Milano i monatti indossavano vistosi abiti rossi che li rendevano immediatamente riconoscibili e portavano al piede un campanello che segnalava la loro presenza, essendo tra l'altro sottoposti al rigido controllo dei commissari di Sanità e dei nobili durante l'esercizio dei loro compiti. Tuttavia l'infuriare del contagio e il numero sempre crescente di malati e di morti accrebbe la loro importanza e, venendo meno chi potesse sorvegliarli, a un certo punto diventarono i padroni delle strade, approfittando del loro ruolo per arricchirsi senza scrupoli: l'autore ricorda che essi depredavano le case dei malati, estorcevano denaro ai sani per non condurli al lazzaretto, arrivavano al punto di diffondere ad arte il contagio per prolungare l'epidemia in quanto loro fonte di guadagno, circondandosi in tal modo di una fama atroce e sinistra. Coerente con tale presentazione è la loro prima diretta apparizione nel cap. XXXIII, quando due di loro vanno a casa di don Rodrigo ammalato di peste per derubarlo e portarlo al lazzaretto, d'accordo col Griso che lo ha tradito: vengono descritti come "due logori e sudici vestiti rossi, due facce scomunicate" e si dimostrano lesti a gettarsi sul nobile che ha afferrato una pistola e a disarmarlo; mentre uno lo tiene fermo, l'altro collabora col Griso a scassinare uno scrigno contenente del denaro, quindi i due monatti caricano don Rodrigo esanime su una barella e lo portano via di peso.
Anche Renzo incontra varie figure di monatti quando attraversa la città sconvolta dalla peste, per recarsi a casa di don Ferrante dove spera di trovare Lucia (XXXIV): in una strada vede quattro grandi carri con i monatti che si affaccendano tutt'intorno, portando cadaveri fuori dalle case e caricandoli sui carri, alcuni con la divisa rossa e altri che indossano pennacchi multicolori come in segno di scherno nel lutto della pestilenza; poco oltre assiste al commovente episodio della madre di Cecilia, una bimba morta di peste che la donna consegna a un "turpe monatto" dandogli del denaro perché deponga il piccolo corpo nella fossa senza spogliarlo, cosa che l'uomo promette di fare colto da una singolare commozione; più avanti vede un gruppo di malati condotti al lazzaretto tra spinte e insulti e chiede a uno dei monatti indicazioni per raggiungere la casa di don Ferrante, sentendosi rispondere in malo modo. Quando ha finalmente raggiunto l'abitazione del gentiluomo viene scambiato per un untore e si salva dal furore della folla saltando su un carro di cadaveri, dove i monatti sono ben lieti di offrirgli protezione: gli dicono con ironia che sotto la loro tutela è sicuro come "in chiesa", quindi uno di loro afferra un cencio da uno dei cadaveri e fa il gesto di scagliarlo sulla folla, che si disperde in tutta fretta per l'orrore. In seguito i monatti sul carro si complimentano con Renzo che credono davvero un untore e al quale dicono, tra le risa di scherno, che fa bene a "ungere" la città: gli offrono da bere del vino da un fiasco (che il giovane rifiuta cortesemente) e uno dei monatti si rivolge in modo macabro e beffardo a uno dei cadaveri, che indica come il padrone del vino e al quale rivolge un grottesco brindisi; il fiasco passa poi di mano in mano, finché resta vuoto e uno dei figuri lo sfascia con un lancio sulla strada gridando "Viva la morìa!". Il carro prosegue il suo viaggio mentre i monatti intonano una canzonaccia, e quando raggiungono il lazzaretto Renzo è lesto a ringraziare i suoi salvatori e ad allontanarsi, mentre uno dei monatti lo chiama "povero untorello" e osserva ironicamente che non sarà lui a spopolare Milano (ai loro occhi gli untori sono benemeriti, perché spargono il contagio che assicura loro il guadagno).
All'interno del lazzaretto Renzo, introdottosi nel quartiere delle donne, indossa un campanello al piede per fingersi un monatto (XXXVI) ed è successivamente apostrofato da un commissario di Sanità che gli ordina di recarsi in una delle capanne dove è richiesto il suo intervento: il giovane si allontana e si china per togliersi il contrassegno, avvicinandosi a una capanna da cui poi sente provenire le voci di Lucia e della mercantessa. Alla fine del romanzo (XXXVIII), nel trarre la morale delle vicissitudini affrontate nella sua vita, Renzo dirà di aver imparato tra le altre cose a non attaccarsi "un campanello al piede", in ricordo di quanto aveva fatto appunto al lazzaretto.
Anche Renzo incontra varie figure di monatti quando attraversa la città sconvolta dalla peste, per recarsi a casa di don Ferrante dove spera di trovare Lucia (XXXIV): in una strada vede quattro grandi carri con i monatti che si affaccendano tutt'intorno, portando cadaveri fuori dalle case e caricandoli sui carri, alcuni con la divisa rossa e altri che indossano pennacchi multicolori come in segno di scherno nel lutto della pestilenza; poco oltre assiste al commovente episodio della madre di Cecilia, una bimba morta di peste che la donna consegna a un "turpe monatto" dandogli del denaro perché deponga il piccolo corpo nella fossa senza spogliarlo, cosa che l'uomo promette di fare colto da una singolare commozione; più avanti vede un gruppo di malati condotti al lazzaretto tra spinte e insulti e chiede a uno dei monatti indicazioni per raggiungere la casa di don Ferrante, sentendosi rispondere in malo modo. Quando ha finalmente raggiunto l'abitazione del gentiluomo viene scambiato per un untore e si salva dal furore della folla saltando su un carro di cadaveri, dove i monatti sono ben lieti di offrirgli protezione: gli dicono con ironia che sotto la loro tutela è sicuro come "in chiesa", quindi uno di loro afferra un cencio da uno dei cadaveri e fa il gesto di scagliarlo sulla folla, che si disperde in tutta fretta per l'orrore. In seguito i monatti sul carro si complimentano con Renzo che credono davvero un untore e al quale dicono, tra le risa di scherno, che fa bene a "ungere" la città: gli offrono da bere del vino da un fiasco (che il giovane rifiuta cortesemente) e uno dei monatti si rivolge in modo macabro e beffardo a uno dei cadaveri, che indica come il padrone del vino e al quale rivolge un grottesco brindisi; il fiasco passa poi di mano in mano, finché resta vuoto e uno dei figuri lo sfascia con un lancio sulla strada gridando "Viva la morìa!". Il carro prosegue il suo viaggio mentre i monatti intonano una canzonaccia, e quando raggiungono il lazzaretto Renzo è lesto a ringraziare i suoi salvatori e ad allontanarsi, mentre uno dei monatti lo chiama "povero untorello" e osserva ironicamente che non sarà lui a spopolare Milano (ai loro occhi gli untori sono benemeriti, perché spargono il contagio che assicura loro il guadagno).
All'interno del lazzaretto Renzo, introdottosi nel quartiere delle donne, indossa un campanello al piede per fingersi un monatto (XXXVI) ed è successivamente apostrofato da un commissario di Sanità che gli ordina di recarsi in una delle capanne dove è richiesto il suo intervento: il giovane si allontana e si china per togliersi il contrassegno, avvicinandosi a una capanna da cui poi sente provenire le voci di Lucia e della mercantessa. Alla fine del romanzo (XXXVIII), nel trarre la morale delle vicissitudini affrontate nella sua vita, Renzo dirà di aver imparato tra le altre cose a non attaccarsi "un campanello al piede", in ricordo di quanto aveva fatto appunto al lazzaretto.