Luigi Russo
"Don Rodrigo uomo senza originalità e grandezza"
Luigi Russo
Nel passo citato il grande critico letterario delinea don Rodrigo come "malvagio mediocre", figlio del secolo XVII e del privilegio nobiliare, tanto da sfigurare nel confronto con l'innominato che si qualifica come figura sinistramente grandiosa nella malvagità: anche nel rapporto con legge e giustizia risalta la differenza tra i due, poiché don Rodrigo cerca l'appoggio e la complicità di magistrati e avvocati, mentre il potente bandito disprezza tutto ciò che ha a che fare con l'ordine costituito. E a differenza di quello, che alla fine si pente e si converte, il signorotto teme tutto quanto riguarda la morte e il giudizio divino, che non tarderà a colpirlo in modo inesorabile con la peste.
Luigi Russo (1892-1961) è stato seguace delle teorie crociane, anche se ha poi approfondito la concezione dell'estetica letteraria alla luce dell'analisi storica, vicino in questo alla lezione di F. De Sanctis. Oltre che su Manzoni, ha scritto saggi critici su Boccaccio, Machiavelli, Foscolo, Leopardi.
Luigi Russo (1892-1961) è stato seguace delle teorie crociane, anche se ha poi approfondito la concezione dell'estetica letteraria alla luce dell'analisi storica, vicino in questo alla lezione di F. De Sanctis. Oltre che su Manzoni, ha scritto saggi critici su Boccaccio, Machiavelli, Foscolo, Leopardi.
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L'Innominato, a parte la sua conversione finale, è rappresentato fin dall'inizio, come uno di quei tragici eroi del male, i quali, appunto perché sanno essere del tutto cattivi, possono giungere a una forma di magnanimità che li redima. Don Rodrigo invece, il vicin suo piccolo, se dovessimo definirlo brevemente, è il malvagio mediocre, colui che ha quasi paura, in certi momenti, della sua stessa malvagità, un parassita di una società male ordinata e volta al male, un parassita, diremmo, di quel tanto di cattivo che giace sempre nel fondo della natura umana, ancora al suo stato incondito e rozzo. Don Rodrigo, anche nella vita morale, vive di rendita; vive di rendita a spese del suo secolo, è un figlio di quel Seicento legato alla doppia tirannide degli stranieri e di un clero corrotto e senza religione; è un uomo su cui si riflette il colore del tempo, senza originalità e senza grandezza. Paragonato allo stesso cugino Attilio, egli è un bestione; un bestione con tutte le intemperanze passionali dei bestioni, puntiglio, gelosia, rozzezza, iracondia. È il deus ex machina del romanzo, eppure l'artista non ha sentito il bisogno di farcene il ritratto. Lo conosciamo prima indirettamente attraverso le paure di un piccolo uomo (e la piccolezza di don Abbondio non può non prestare qualcosa della sua meschinità alla figurazione), e poi lo conosciamo direttamente, sì, ma solo attraverso l'apparato della sua tirannide, il palazzotto e i suoi sgherri, scenario precisamente della tirannide, in cui egli ci appare come soffocato, tra sinistro e goffo. Per tali ragioni, il nostro personaggio è passato nella fantasia popolare soltanto come il tirannello da villaggio. Perfino nei rapporti con l'Innominato adopera certe cautele proprie dell'uomo mediocre che vuole avere il vantaggio di alcune alleanze, ma vuole allontanare i pericoli e gli svantaggi e vuole sfuggire alla responsabilità del suo stesso male.
Anche nei suoi soprusi e nelle sue varie birbonate, don Rodrigo non vuole mai romperla con la legge, è un birbante legalitario, si avvale delle sue relazioni e protezioni di parenti più grossi, coltiva "l'amicizia di persone alte", tiene "una mano sulle bilance della giustizia", dice il Manzoni, "per farle ad un bisogno traboccare dalla sua parte e per farle sparire, o per darle anche, in qualche occasione, sulla testa di qualcheduno, che in quel modo si potesse servire più facilmente, che con l'armi della violenza privata". Difatti, mentre l'Innominato ha un orgoglioso disprezzo per tutto ciò che è potere legale e giustizia ufficiale, e mai egli si sarebbe rivolto a un Podestà o a un Conte zio , il nostro don Rodrigo è amicissimo del podestà, si giova della potenza del Conte zio, che è un consigliere del Consiglio segreto, e perfino tiene in qualche conto la sapienza giuridica dell'Azzeccagarbugli , che, in certi momenti, può venirgli in aiuto con i suoi cavilli. In tutti questi particolari si sente il malvagio mediocre, che vuole sfuggire alle più gravi conseguenze della sua malvagità. A ogni modo la giustizia divina è presente per punire quel reo: è presente nel colloquio tempestoso con fra Cristoforo quando alle parole "verrà un giorno", tra la rabbia e la meraviglia, attonito, egli avverte un lontano e misterioso spavento. È presente quando don Rodrigo resta solo e va innanzi e indietro, a passi lunghi, nella sala dove pendono i ritratti di famiglia, ed egli, alla presenza di tali memorie, si arrovella, si vergogna, non può darsi pace, medita di vendicarsi del frate; quando si sente fischiare ancora agli orecchi quell'esordio di profezia, si sente venire, come si dice, i bordoni, e sta quasi per porre il pensiero della soddisfazione. È ancora presente, nel colloquio col conte Attilio, quando questi scherza sulla possibile conversione del cugino per opera di fra Cristoforo, e don Rodrigo interrompe, mezzo sogghignando, mezzo annoiato, insomma sempre un po' inquieto.
Talvolta pare che il Manzoni abbandoni il suo personaggio alla gioia maligna delle sue ribalderie; ma è abbandono apparente. È l'abbandono a cui seguirà più terribile la condanna. E quello che capita a don Rodrigo, capita anche al Griso , che muore, e fa la mala morte, dopo aver tradito il padrone. Il sentimento fondamentale, il tono con cui il Manzoni accompagna il suo eroe non è mai, possiamo dire, di sdegnato orrore, di indignato disprezzo come dovrebbe far sospettare la cattiveria dell'uomo. Diremmo piuttosto che da un lato c'è un sottile tono beffardo per la presunzione del prepotente, il quale crede che le creature di Dio ci siano a questo mondo per dare a lui il piacere di tormentarle, e dall'altro c'è un sentimento di grave pietà per i trascorsi e i capricci della sua nequizia. Questo atteggiamento religiosamente beffardo e gravemente pietoso del Manzoni rispetto a don Rodrigo, si rivela, soprattutto, nei due episodi finali del sogno e della morte. Questi eroi del male finiscono tutti nel meschino: per uno scrittore come il Manzoni la malizia non ha mai scampo; come Griso, il più avveduto di tutti, rimane miseramente vittima della sua ingordigia, così anche gli altri, quanto più appaiono vittoriosi, tanto più sono degradati moralmente. Di tutta la scena, ormai, il vinto don Rodrigo, ridotto nell'assoluta impotenza, è proprio quello che può chiamare un sospiro ancora della pietà del poeta. L'animo del narratore comincia già ad ammorbidirsi; il Manzoni, nel descrivere la colluttazione col monatto, si lascia scappare una parola pietosa: "lo sventurato Rodrigo". Già quell'aggettivo "sventurato" è un preludio pietoso alla scena della morte sul pagliericcio. Da questo momento il poeta ci ha disarmato, a don Rodrigo si è già perdonato senza saperlo. La fine dolorosa, ma senza veggenza, di don Rodrigo è la morte più grave che egli possa subire; non deve essere lo spettacolo delle cose di questo mondo, la presenza torturante dei suoi perseguitati, dei suoi nemici, che deve farlo soffrire. Il flagello deve essere soltanto dentro. Davanti a lui c'è una sua vittima, Renzo, ed egli non se ne avvede; c'è un suo antagonista, fra Cristoforo, ed egli non ha l'aria di conoscerlo. Egli soffre tutto dentro di sé, soffre di Dio, ma non degli uomini; però "l'infelice sta immoto, spalancati gli occhi, ma senza sguardo". Una morte più consapevole sarebbe stata cosa assai più piccola. Però le parole di fra Cristoforo suonano piene anch'esse di questa lontananza e pace dell'eterno: "Può esser castigo, può esser misericordia". È l'epigrafe di tutta una vita; il destino sopramondano: ma quello stesso mondano di don Rodrigo rimane così avvolto nel mistero.
L'Innominato, a parte la sua conversione finale, è rappresentato fin dall'inizio, come uno di quei tragici eroi del male, i quali, appunto perché sanno essere del tutto cattivi, possono giungere a una forma di magnanimità che li redima. Don Rodrigo invece, il vicin suo piccolo, se dovessimo definirlo brevemente, è il malvagio mediocre, colui che ha quasi paura, in certi momenti, della sua stessa malvagità, un parassita di una società male ordinata e volta al male, un parassita, diremmo, di quel tanto di cattivo che giace sempre nel fondo della natura umana, ancora al suo stato incondito e rozzo. Don Rodrigo, anche nella vita morale, vive di rendita; vive di rendita a spese del suo secolo, è un figlio di quel Seicento legato alla doppia tirannide degli stranieri e di un clero corrotto e senza religione; è un uomo su cui si riflette il colore del tempo, senza originalità e senza grandezza. Paragonato allo stesso cugino Attilio, egli è un bestione; un bestione con tutte le intemperanze passionali dei bestioni, puntiglio, gelosia, rozzezza, iracondia. È il deus ex machina del romanzo, eppure l'artista non ha sentito il bisogno di farcene il ritratto. Lo conosciamo prima indirettamente attraverso le paure di un piccolo uomo (e la piccolezza di don Abbondio non può non prestare qualcosa della sua meschinità alla figurazione), e poi lo conosciamo direttamente, sì, ma solo attraverso l'apparato della sua tirannide, il palazzotto e i suoi sgherri, scenario precisamente della tirannide, in cui egli ci appare come soffocato, tra sinistro e goffo. Per tali ragioni, il nostro personaggio è passato nella fantasia popolare soltanto come il tirannello da villaggio. Perfino nei rapporti con l'Innominato adopera certe cautele proprie dell'uomo mediocre che vuole avere il vantaggio di alcune alleanze, ma vuole allontanare i pericoli e gli svantaggi e vuole sfuggire alla responsabilità del suo stesso male.
Anche nei suoi soprusi e nelle sue varie birbonate, don Rodrigo non vuole mai romperla con la legge, è un birbante legalitario, si avvale delle sue relazioni e protezioni di parenti più grossi, coltiva "l'amicizia di persone alte", tiene "una mano sulle bilance della giustizia", dice il Manzoni, "per farle ad un bisogno traboccare dalla sua parte e per farle sparire, o per darle anche, in qualche occasione, sulla testa di qualcheduno, che in quel modo si potesse servire più facilmente, che con l'armi della violenza privata". Difatti, mentre l'Innominato ha un orgoglioso disprezzo per tutto ciò che è potere legale e giustizia ufficiale, e mai egli si sarebbe rivolto a un Podestà o a un Conte zio , il nostro don Rodrigo è amicissimo del podestà, si giova della potenza del Conte zio, che è un consigliere del Consiglio segreto, e perfino tiene in qualche conto la sapienza giuridica dell'Azzeccagarbugli , che, in certi momenti, può venirgli in aiuto con i suoi cavilli. In tutti questi particolari si sente il malvagio mediocre, che vuole sfuggire alle più gravi conseguenze della sua malvagità. A ogni modo la giustizia divina è presente per punire quel reo: è presente nel colloquio tempestoso con fra Cristoforo quando alle parole "verrà un giorno", tra la rabbia e la meraviglia, attonito, egli avverte un lontano e misterioso spavento. È presente quando don Rodrigo resta solo e va innanzi e indietro, a passi lunghi, nella sala dove pendono i ritratti di famiglia, ed egli, alla presenza di tali memorie, si arrovella, si vergogna, non può darsi pace, medita di vendicarsi del frate; quando si sente fischiare ancora agli orecchi quell'esordio di profezia, si sente venire, come si dice, i bordoni, e sta quasi per porre il pensiero della soddisfazione. È ancora presente, nel colloquio col conte Attilio, quando questi scherza sulla possibile conversione del cugino per opera di fra Cristoforo, e don Rodrigo interrompe, mezzo sogghignando, mezzo annoiato, insomma sempre un po' inquieto.
Talvolta pare che il Manzoni abbandoni il suo personaggio alla gioia maligna delle sue ribalderie; ma è abbandono apparente. È l'abbandono a cui seguirà più terribile la condanna. E quello che capita a don Rodrigo, capita anche al Griso , che muore, e fa la mala morte, dopo aver tradito il padrone. Il sentimento fondamentale, il tono con cui il Manzoni accompagna il suo eroe non è mai, possiamo dire, di sdegnato orrore, di indignato disprezzo come dovrebbe far sospettare la cattiveria dell'uomo. Diremmo piuttosto che da un lato c'è un sottile tono beffardo per la presunzione del prepotente, il quale crede che le creature di Dio ci siano a questo mondo per dare a lui il piacere di tormentarle, e dall'altro c'è un sentimento di grave pietà per i trascorsi e i capricci della sua nequizia. Questo atteggiamento religiosamente beffardo e gravemente pietoso del Manzoni rispetto a don Rodrigo, si rivela, soprattutto, nei due episodi finali del sogno e della morte. Questi eroi del male finiscono tutti nel meschino: per uno scrittore come il Manzoni la malizia non ha mai scampo; come Griso, il più avveduto di tutti, rimane miseramente vittima della sua ingordigia, così anche gli altri, quanto più appaiono vittoriosi, tanto più sono degradati moralmente. Di tutta la scena, ormai, il vinto don Rodrigo, ridotto nell'assoluta impotenza, è proprio quello che può chiamare un sospiro ancora della pietà del poeta. L'animo del narratore comincia già ad ammorbidirsi; il Manzoni, nel descrivere la colluttazione col monatto, si lascia scappare una parola pietosa: "lo sventurato Rodrigo". Già quell'aggettivo "sventurato" è un preludio pietoso alla scena della morte sul pagliericcio. Da questo momento il poeta ci ha disarmato, a don Rodrigo si è già perdonato senza saperlo. La fine dolorosa, ma senza veggenza, di don Rodrigo è la morte più grave che egli possa subire; non deve essere lo spettacolo delle cose di questo mondo, la presenza torturante dei suoi perseguitati, dei suoi nemici, che deve farlo soffrire. Il flagello deve essere soltanto dentro. Davanti a lui c'è una sua vittima, Renzo, ed egli non se ne avvede; c'è un suo antagonista, fra Cristoforo, ed egli non ha l'aria di conoscerlo. Egli soffre tutto dentro di sé, soffre di Dio, ma non degli uomini; però "l'infelice sta immoto, spalancati gli occhi, ma senza sguardo". Una morte più consapevole sarebbe stata cosa assai più piccola. Però le parole di fra Cristoforo suonano piene anch'esse di questa lontananza e pace dell'eterno: "Può esser castigo, può esser misericordia". È l'epigrafe di tutta una vita; il destino sopramondano: ma quello stesso mondano di don Rodrigo rimane così avvolto nel mistero.
_(dal Dizionario letterario Bompiani, VIII)