La madre di Cecilia
R. Guttuso, Cecilia e la madre
Compare nel cap. XXXIV ed è protagonista di uno dei momenti più lirici e commoventi dell'intero romanzo, durante il viaggio di Renzo a Milano sconvolta dalla peste del 1630 (il giovane sta cercando di raggiungere la casa di don Ferrante e donna Prassede dove spera di trovare Lucia, che apprenderà in seguito trovarsi al lazzaretto): Renzo, da poco entrato in città, è giunto al carrobio di Porta Nuova e si dirige verso quella che oggi è via Montenapoleone, quando vede una giovane donna uscire dall'uscio di una casa e dirigersi verso il carro dei monatti, portando in braccio il cadavere di una bambina di circa nove anni. L'aspetto della donna lascia trasparire "una bellezza velata e offuscata, ma non guasta, da una gran passione, e da un languor mortale", poiché risulta evidente che essa ha versato molte lacrime e che ha già su di sé i segni del contagio della peste; la bambina morta che porta in braccio è ben pettinata coi capelli divisi sulla fronte e indossa un vestitino bianco e lindo, come se fosse agghindata per una festa, mentre la madre la tiene col capo eretto e appoggiato a sé come se fosse ancor viva, anche se un braccio che le cade abbandonato è un chiaro indizio che la bambina è ormai spirata. Un "turpe monatto" si avvicina alla donna per prendere il corpicino della figlia, sia pure con una esitazione e una forma di rispetto inusuale per un simile figuro, ma la donna si ritrae e chiede all'uomo di poter adagiare la bambina sul carro con le proprie mani, mettendo poi una borsa con del denaro nelle mani del monatto e facendosi promettere che la bambina verrà posta sottoterra così com'è vestita, senza "levarle un filo d'intorno". Il monatto promette con un gesto enfatico, quindi fa posto sul carro dei morti e la donna pone su di esso il piccolo corpo della figlia, dopo averle dato un bacio e mettendo poi un velo bianco su di lei, dicendole infine addio (la chiama Cecilia e le augura di riposare in pace, promettendole che presto lei e la sorella la raggiungeranno). La donna si rivolge ancora al monatto e gli ricorda che a sera dovrà ripassare da quella casa a raccogliere lei stessa e l'altra sua figlia, quindi rientra in casa e, poco dopo, si affaccia da una finestra tenendo in braccio un'altra bambina, "viva, ma coi segni della morte in volto", guardando il carro che si allontana e rientrando infine nell'abitazione (l'autore lascia intendere che probabilmente si stenderà sul letto insieme alla figlia e attenderà la morte, come un fiore già rigoglioso cade insieme al fiorellino non ancora sbocciato allorché la falce taglia l'erba sul prato: la similitudine, di altissima intensità lirica, è ispirata all'Eneide di Virgilio, IX, 435-38). Renzo assiste alla scena toccante e trattiene a stento le lacrime, sopraffatto da un'emozione straordinaria, e prima di proseguire il suo viaggio prega Dio di porre presto fine alle sofferenze della donna e della figlia superstite.
L'episodio è ispirato a un fatto realmente accaduto e descritto dal cardinal Borromeo nel De pestilentia (VIII, De miserandis casibus), lo scritto sulla peste del 1630 in cui l'aneddoto è così raccontato: "Essendole morta sotto gli occhi la bambina di nove anni, la madre non volle che le fosse toccata dai monatti: “Voi, disse, passando di qui verso sera, salirete a prendere anche me”. E, rientrata in casa, stette a contemplare dalla finestra quelle esequie, e poco dopo, morì" (traduzione di C. Angelini, dall'ediz. del 1932 a cura di Agostino Saba). Manzoni aggiunge il particolare patetico dell'altra figlia della donna e dà il nome di Cecilia alla bambina morta, creando un episodio di rara commozione che rappresenta l'unico momento lirico in un capitolo (quello della "traversata" della città sconvolta dall'epidemia da parte di Renzo) dominato da immagini forti e descrizioni assai crude, incluso l'episodio finale del mancato linciaggio del giovane scambiato per un untore e della sua fuga rocambolesca sul carro dei monatti. L'episodio di Cecilia ha ispirato anche molti artisti del Novecento che ne hanno date varie rappresentazioni pittoriche, incluso Renato Guttuso la cui litografia è qui posta come fonte iconografica.
Per approfondire: C. Angelini, L'episodio di Cecilia.
L'episodio è ispirato a un fatto realmente accaduto e descritto dal cardinal Borromeo nel De pestilentia (VIII, De miserandis casibus), lo scritto sulla peste del 1630 in cui l'aneddoto è così raccontato: "Essendole morta sotto gli occhi la bambina di nove anni, la madre non volle che le fosse toccata dai monatti: “Voi, disse, passando di qui verso sera, salirete a prendere anche me”. E, rientrata in casa, stette a contemplare dalla finestra quelle esequie, e poco dopo, morì" (traduzione di C. Angelini, dall'ediz. del 1932 a cura di Agostino Saba). Manzoni aggiunge il particolare patetico dell'altra figlia della donna e dà il nome di Cecilia alla bambina morta, creando un episodio di rara commozione che rappresenta l'unico momento lirico in un capitolo (quello della "traversata" della città sconvolta dall'epidemia da parte di Renzo) dominato da immagini forti e descrizioni assai crude, incluso l'episodio finale del mancato linciaggio del giovane scambiato per un untore e della sua fuga rocambolesca sul carro dei monatti. L'episodio di Cecilia ha ispirato anche molti artisti del Novecento che ne hanno date varie rappresentazioni pittoriche, incluso Renato Guttuso la cui litografia è qui posta come fonte iconografica.
Per approfondire: C. Angelini, L'episodio di Cecilia.