Capitolo XXXVII
G. Scarpati, Renzo e Agnese
"Agnese gli indicò un orto ch'era dietro alla casa;
e soggiunse: - Entrate lì, e vedrete che c'è due panche, l'una in faccia all'altra, che paion messe apposta.
Io vengo subito. - Renzo andò a mettersi a sedere sur una: un momento dopo, Agnese si trovò sull'altra:
e son certo che, se il lettore, informato come è delle cose antecedenti, avesse potuto trovarsi lì in terzo,
a veder con gli occhi quella conversazione così animata,
a sentire con gli orecchi que' racconti, quelle domande, quelle spiegazioni, son certo, dico,
che ci avrebbe preso gusto,
e sarebbe stato l'ultimo a venir via..."
Personaggi:
Luoghi: Tempo: Temi: Trama: |
_Renzo, Lucia, Agnese, don Abbondio, padre Cristoforo, la mercantessa, Bortolo, l'amico di Renzo, Gertrude, donna Prassede, don Ferrante
Il paese di Renzo e Lucia, Milano, Monza, Pasturo, Bergamo, il lazzaretto Agosto-settembre 1630 La cultura del Seicento, La peste, Chiesa e religione Renzo lascia il lazzaretto e torna al suo paese sotto un violento temporale. Viene nuovamente ospitato dall'amico e va poi da Agnese, informandola di ogni cosa. Si reca ancora nel Bergamasco da Bortolo, avendo ormai deciso di trasferirsi lì con Lucia. Riporta Agnese a casa sua al paese e aspetta insieme a lei il ritorno di Lucia. La giovane intanto fa la quarantena a Milano nella casa della mercantessa, che la informa dell'arresto di Gertrude. Lucia apprende della morte per la peste di padre Cristoforo, nonché di donna Prassede e don Ferrante. Le disquisizioni filosofiche di don Ferrante sul contagio. |
Renzo lascia il lazzaretto. Il temporale
Renzo esce dal lazzaretto e svolta a destra, per ritrovare la strada percorsa al suo arrivo a Milano quella mattina, quando inizia a piovere in modo via via più impetuoso e ben presto l'acqua cade abbondantemente. Il giovane non se ne preoccupa e, anzi, è rallegrato e rinfrescato dalla pioggia, come se lo spezzarsi dell'afa per il temporale sottolineasse la soluzione di tutti i suoi problemi, l'inizio di una nuova vita: e si sentirebbe addirittura più sollevato, se sapesse che nei giorni seguenti la pioggia porterà via il contagio e tra una settimana riapriranno usci e botteghe, mentre non si parlerà più di peste ma soltanto di quarantena. Renzo cammina sotto la pioggia non preoccupandosi di nulla se non di camminare e procedere, per arrivare il più presto possibile al suo paese e poi ripartire per Pasturo, in cerca d'Agnese. Ogni triste pensiero relativo a ciò che ha visto, all'epidemia, è compensato dal sollievo di aver trovato Lucia in vita, di aver risolto ogni problema, di poter finalmente sposare la sua promessa; il giovane sottolinea la sua soddisfazione sguazzando allegramente nell'acqua, oppure strofinandosi le mani, continuando a camminare con maggior vigore e mettendo ordine ai suoi pensieri, ancora in tumulto per le emozioni vissute nella giornata.
Renzo ripensa alla conclusione della vicenda. Il viaggio verso casa
Renzo ripercorre con la mente tutte le traversie passate e, soprattutto, i momenti più terribili della giornata trascorsa, quando ha bussato alla casa di don Ferrante, ha appreso che Lucia era al lazzaretto, ha rischiato il linciaggio della folla; e poi la ricerca nel lazzaretto, la disperazione di non averla trovata nella processione dei guariti, fino all'incontro inaspettato nel quartiere delle donne. Renzo è quasi incredulo di aver trovato Lucia viva e in salute, di aver potuto anche risolvere l'intralcio del voto, di aver superato per sempre l'odio verso don Rodrigo, cosicché la sua felicità sarebbe piena e completa se non ci fosse la preoccupazione per il destino di Agnese e per la salute di padre Cristoforo che sa ammalato di peste. Verso sera giunge a Sesto, mentre la pioggia non cessare di scrosciare, e poiché si sente ancora in forze decide di proseguire e di non cercare alloggio; si procura soltanto due pani da un fornaio, che attenuino il grande appetito che sente, quindi prosegue il viaggio e a notte alta arriva a Monza, trovando la strada giusta nonostante il buio. La via si va tramutando in un pantano a causa del temporale e Renzo avanza non senza fatica, tuttavia le difficoltà del viaggio sono niente rispetto a tutto quello che ha passato e il suo pensiero è fisso all'avvenire e alle nozze imminenti con Lucia. Indovina con molta fortuna e perizia le strade giuste da percorrere, come anni dopo racconterà minutamente agli amici e all'anonimo, e alle prime luci dell'alba raggiunge le rive dell'Adda.
Renzo torna al suo paese. È ospitato dall'amico
Ormai la pioggia sta scemando e all'incerta luce dell'alba Renzo intravede il paesaggio circostante, distinguendo le cime del Resegone, Lecco e indovinando che lì c'è anche il suo paese (la vista dei luoghi natii lo riempie di una gioia affatto nuova). La luce del giorno gli fa vedere il proprio corpo tutto inzaccherato dalla pioggia, bagnato fradicio dalla cintola alla testa e pieno di fango dalla vita in giù, tuttavia la sua felicità è tale che non si dà pensiero, né sente la stanchezza del viaggio ma prosegue il cammino. Percorre gli ultimi tratti di strada, costeggiando l'Adda e vedendo Pescarenico in lontananza (ha una stretta al cuore pensando a fra Cristoforo), quindi arriva nel suo paese alla casa dell'amico che l'aveva ospitato. L'uomo è già in piedi fuori dall'uscio e, vedendo arrivare Renzo, gli chiede subito com'è andato il viaggio. L'altro ribatte che tutto è andato bene e che ha trovato Lucia, quindi l'ospite lo fa entrare e accende il fuoco per riscaldarlo, poi va a prendergli il fagotto di vesti che gli aveva lasciato perché possa cambiarsi gli abiti zuppi d'acqua. L'amico mette infine della polenta a cuocere sul fuoco e nell'attesa Renzo inizia a raccontargli per sommi capi tutto l'orrore cui ha assistito per le strade di Milano, le brutte avventure subìte, concludendo poi che Lucia grazie a Dio è viva e presto sarà sua moglie, quindi l'amico è invitato a fargli da testimone alle nozze.
Renzo in visita da Agnese
La giornata trascorre tranquillamente in casa, con Renzo che non smette di raccontare particolari del suo viaggio all'amico mentre lo aiuta in piccoli lavori legati alla preparazione della vendemmia, poiché fuori continua a piovigginare. Verso sera va a dare un'occhiata alla casa di Agnese, rivedendo la finestra da cui parlava a Lucia, quindi rientra e va a dormire. Il mattino dopo si alza di buon'ora e approfitta del bel tempo per andare subito a Pasturo in cerca di Agnese, che non tarda a scoprire viva e in salute: la raggiunge nella casetta isolata in cui vive e le parla attraverso una finestra, dicendole subito che Lucia sta bene e presto sarà di ritorno per le nozze. La donna è così stupita che vorrebbe far entrare Renzo, ma il giovane si oppone in quanto Agnese non ha avuto la peste e lui è appena tornato da Milano, dove il contagio ancora infuria, quindi occorre essere cauti. Agnese gli indica allora un orto dietro la casa con due panche dove potranno parlarsi senza correre rischi, ed è qui che Renzo la raggiunge poco dopo per metterla al corrente di tutti i dettagli. Il giovane spiega ad Agnese, incredula, le motivazioni per cui il voto di Lucia è stato sciolto da padre Cristoforo, quindi i due concertano senza dubbio di trasferirsi dopo le nozze nel Bergamasco dove Renzo ha un lavoro avviato, anche se il momento della partenza verrà deciso in seguito, quando la peste sarà cessata del tutto. Prima di ripartire per il suo paese, Renzo offre ad Agnese un po' dei cinquanta scudi che ha sempre portato con sé, ma la donna dice di avere denaro a sufficienza. Felice in cuor suo di aver trovato la madre di Lucia in buona salute, Renzo lascia Pasturo e torna a casa sua.
Renzo di nuovo nel Bergamasco
Renzo trascorre un'altra giornata e un'altra notte a casa dell'amico, quindi riparte alla volta del Bergamasco: qui trova il cugino Bortolo in buona salute, poiché nel frattempo la peste ha iniziato a essere meno pericolosa e a mietere meno vittime, con i sopravvissuti che riprendono poco alla volta le antiche occupazioni. Tutti parlano di ricominciare la lavorazione della seta e i pochi operai disponibili sono molto ricercati, incluso Renzo che promette al cugino di tornare presto ad accasarsi lì, fatta salva naturalmente l'approvazione della futura moglie Lucia. Nel frattempo si occupa di trovare una casa più grande e di arredarla con lo stretto necessario, operazione facile e poco costosa dato che la peste ha creato grande disponibilità di beni e pochi acquirenti, situazione di cui il giovane può approfittare. Dopo alcuni giorni di permanenza nel territorio di Bergamo, Renzo ritorna al paese natale.
Renzo e Agnese di nuovo al paese. L'attesa di Lucia
Una volta di ritorno in paese, Renzo va di nuovo a Pasturo e poco tempo dopo conduce Agnese a casa sua, dove la donna trova tutto come l'aveva lasciata (ed è un dono del Cielo, trattandosi di una povera vedova): Agnese si rallegra del fatto che dopo i guasti dei lanzichenecchi il denaro dell'innominato le era stato di grande aiuto, mentre ora che il corredo destinato a Lucia non c'è più (è stato rubato dai soldati), ci penserà la mercantessa a rifarlo di nuovo, per cui tutto è opera della Provvidenza. Renzo inganna l'attesa aiutando l'amico ospite nei lavori in campagna e talvolta dissoda l'orto di Agnese, in disordine dopo tanto tempo, mentre nella propria casa e nel proprio podere il giovane non rimette più piede e ha ormai deciso di vendere tutto a qualunque prezzo, per stabilirsi nel Bergamasco con il poco ricavato. Renzo riprende i rapporti con i vecchi amici e racconta a tutti la sua storia, mentre si dà poco pensiero dei suoi guai giudiziari e dell'ordine di arresto: infatti i ministri della giustizia non se ne occupano più e ciò avviene sia per lo sconvolgimento causato dalla peste, sia per la normale incuria che caratterizza nel Seicento le questioni legate alle gride e ai processi. Quanto a don Abbondio, Renzo e il curato si evitano reciprocamente e il giovane decide di non parlare con lui delle nozze se non al ritorno di Lucia in paese, poiché teme che l'altro possa accampare nuovi pretesti pur di non celebrare il matrimonio. Le sue chiacchiere le fa con Agnese, con la quale condivide l'ansiosa attesa per il ritorno della sua amata.
Lucia a Milano. Gertrude e la morte di padre Cristoforo
Lucia intanto ha lasciato il lazzaretto insieme alla mercantessa pochi giorni dopo la visita di Renzo, facendo la quarantena nella casa della vedova a Milano; in questo tempo la giovane collabora a preparare il proprio corredo offertole dalla donna, la quale lascia poi la bottega in cura a un fratello e prepara il viaggio per il paese dei due promessi. Durante la permanenza in casa della mercantessa, Lucia ha modo di aggiungere ulteriori dettagli circa le sue passate traversie, accennando a Gertrude e al suo soggiorno nel convento di Monza: la vedova la informa che la monaca è stata nel frattempo arrestata su ordine del cardinal Borromeo, in quanto sospettata di atroci delitti, e imprigionata in un convento di Milano, dove alla fine si è ravveduta e si sottopone ora volontariamente a supplizi tali che nessun altro potrebbe essere maggiore, tranne la morte (apprendere questo riempie Lucia di profondo sgomento). Inoltre la ragazza è venuta a sapere dai frati cappuccini incontrati al lazzaretto che padre Cristoforo è morto di peste.
La morte di donna Prassede e don Ferrante
Prima di lasciare Milano, Lucia vorrebbe avere notizie dei suoi padroni e si fa accompagnare dalla mercantessa alla loro casa, dove apprende che entrambi sono morti per la peste. Di donna Prassede l'autore si limita a dire che è passata a miglior vita, essendo inutili troppe parole, mentre di don Ferrante intende riferire la trattazione dell'anonimo, poiché questa è interessante per più aspetti. All'inizio dell'epidemia don Ferrante è stato tra i più decisi a negare il contagio della malattia, argomentando la sua opinione con dotte disquisizioni filosofiche: è convinto infatti che, in base alla dottrina aristotelica, in natura ci siano solo sostanze e accidenti, e il contagio non corrisponde a nessuna delle due, il che dimostra la sua inesistenza. Le sostanze si dividono in spirituali e materiali, e il contagio non può essere spirituale, ma neppure materiale, in quanto, se fosse semplice, non sarebbe sostanza aerea (volerebbe alla sfera celeste), né acquea (bagnerebbe), né ignea (brucerebbe), né tanto meno terrea (sarebbe visibile agli occhi); se fosse sostanza composita, dovrebbe comunque essere visibile o poter essere toccata, cosa che evidentemente non è. Il contagio non può essere neppure accidente, poiché i medici affermano che esso si propaga da un corpo all'altro, ma è chiaro che un accidente non può trasmettersi da una sostanza all'altra; se fosse poi un "accidente prodotto" dalla sostanza medesima, neppure in quel caso sarebbe trasmissibile e dunque ecco l'inutilità delle prescrizioni mediche contro la malattia. Don Ferrante nega il contagio, ma non nega l'esistenza della peste, di cui attribuisce la causa alle influenze astrali, alla congiunzione di Giove e Saturno che, a suo dire, è stata avvalorata anche dai medici che predicano poi contro il contagio: per lui è impossibile sottrarsi alle influenze delle stelle e dei pianeti, per cui è del tutto inutile prendere precauzioni contro la peste (come evitare il contatto coi malati o bruciare panni infetti), giacché bisognerebbe addirittura bruciare Giove o Saturno. Convinto delle proprie ragioni, don Ferrante non prende alcuna misura contro il contagio, si ammala di peste e muore come un eroe di Metastasio, prendendosela con gli astri. Quanto alla sua famosa biblioteca, essa forse è stata venduta sulle bancarelle.
Temi principali e collegamenti
- Il capitolo fa da raccordo tra lo scioglimento della vicenda dei due promessi al lazzaretto (cap. XXXVI) e il successivo matrimonio dei due prima del trasferimento nel Bergamasco (XXXVIII), per cui è povero di eventi narrativi e appare per lunghi tratti didascalico, aggiungendo poco o nulla alla storia. Manzoni avrebbe forse potuto terminare la vicenda nel cap. precedente, anche se, stando a una testimonianza del figliastro Stefano Stampa, lui stesso avrebbe spiegato la sua scelta di "aver diminuito l'effetto della fine del romanzo continuando a descrivere la vita dei due sposi", tracciando un lieto fine apparentemente più completo: "non ho potuto trattenermi - avrebbe detto - dalla tentazione di stare un po' ancora in compagnia dei miei burattini" (la frase è riferita dallo Stampa in un suo scritto del 1889). Nel Fermo e Lucia invece il ritorno di Renzo e Lucia al paese era descritto in poche righe, così come anche la successiva partenza per Bergamo (cfr. il terzo approfondimento del cap. XXXVIII e il brano Il finale della storia)
- Il violento temporale che si scatena all'inizio del capitolo e che accompagna Renzo nel suo viaggio di ritorno è presentato come una pioggia purificatrice, che porta via il contagio e fa iniziare il regresso dell'epidemia (la pioggia era preannunciata dal cielo grigio nei capp. XXXV-XXXVI). Storicamente la peste cominciò a perdere di intensità nell'autunno del 1630, cessando del tutto solo nei primi mesi del 1631.
- Renzo e Agnese prendono la decisione che i due sposi si trasferiranno insieme a lei nel Bergamasco, dove ci sono condizioni favorevoli al lavoro, dando praticamente per scontato il consenso di Lucia (di cui infatti, nel cap. seguente, non si fa neppure menzione). Qui l'autore già accenna al fatto che la manifattura della seta sta tornando a prosperare nel territorio di Bergamo, dove Renzo diventerà imprenditore anche approfittando di favorevoli decreti del governo (cfr. cap. XXXVIII).
- In questo capitolo viene detto per la prima e unica volta nel romanzo che Agnese è vedova, particolare fino a questo momento taciuto e dato per scontato ("trattandosi d’una povera vedova e d’una povera fanciulla, avevan fatto la guardia gli angioli"); invece del defunto marito della donna, nonché padre di Lucia, non viene mai detta neppure una parola in tutto l'arco della narrazione.
- Veniamo a sapere per bocca della mercantessa del triste destino di Gertrude, i cui delitti sono stati scoperti e che è stata imprigionata per ordine del cardinale: qui è presente una lieve forzatura storica, giacché il processo alla monaca avvenne in realtà nel 1607 e dunque molto prima degli eventi del romanzo. Lucia apprende anche della morte di padre Cristoforo, ampiamente preannunciata nel cap. XXXVI.
- La morte per la peste di don Ferrante dà modo all'autore di mettergli in bocca uno strampalato ragionamento filosofico, con cui il "dotto" secentesco tenta di dimostrare l'inesistenza del contagio: il discorso dell'uomo, che si appoggia alla dottrina di Aristotele tanto in voga nel suo secolo, sarebbe in teoria inattaccabile, se non fosse per la presenza degli agenti patogeni della malattia che, in termini filosofici, si potrebbero definire "sostanze" atte a produrre "accidenti" trasferendosi da un corpo all'altro (ignorando questa premessa, la dimostrazione è del tutto fallace). L'episodio di don Ferrante è ironico, tuttavia Manzoni si rifà all'ignoranza in materia di peste già affrontata nei capp. XXXI-XXXII, in cui si diceva che anche i medici davano credito ad assurde teorie come gli untori (di cui qui non si parla) o le influenze astrali, credute invece da don Ferrante. L'accenno alle presunte cause celesti della peste si collegano forse alle teorie di Galileo Galilei in tema di eliocentrismo divulgate pochi anni dopo (il Dialogo sopra i due massimi sistemi è del 1632), che si scontrarono con l'opposizione dei seguaci dell'aristotelismo di cui don Ferrante è un'efficace parodia.
Manzoni di fronte alla peste
F. Gonin, Allegoria della peste
La narrazione della peste occupa circa i tre quarti del romanzo, dai capp. XXIX-XXX (in cui è descritta la calata dei lanzichenecchi che porta il contagio in Lombardia) sino alla conclusione della vicenda, uno spazio dunque assai ampio in cui la prospettiva offerta dall'autore sulla calamità è mutevole e non solo in quanto Manzoni si allontana decisamente dai modelli letterari tradizionali. L'approccio iniziale è di tipo scientifico, specie nella digressione storica dei capp. XXXI-XXXII in cui la peste è presentata come flagello scatenato da cause naturali e aggravato dall'incuria delle pubbliche autorità, che sottovalutano colpevolmente la portata della minaccia; qui l'autore mette sotto accusa soprattutto l'ignoranza del secolo che porta persino i dotti e i medici ad avvalorare tesi assurde come gli influssi astrali o gli untori, tema su cui torna alla fine del cap. XXXVII con il racconto della morte grottesca di don Ferrante, caparbiamente convinto che il contagio non si propaghi per contatto e siano perciò inutili le precauzioni igieniche. In queste pagine l'elemento religioso resta sullo sfondo e persino la processione dell'11 giugno 1630 viene vista come "mezzo arbitrario", frutto della superstizione e credulità popolare nell'opera taumaturgica di S. Carlo e perciò manifestazione inutile oltre che pericolosa. L'aspetto più propriamente religioso riappare allorché l'epidemia viene mostrata nelle sue conseguenze sulle persone, quando cioè lo sguardo si sposta dalla narrazione storica per scendere nei particolari (specie nel cap. XXXIV che mostra l'orrore della città di Milano, forse il passo migliore del romanzo), tuttavia Manzoni si guarda bene dal fornire un'interpretazione della peste come punizione divina per i peccati degli uomini, benché sia innegabile che come espediente narrativo l'epidemia elimini dal romanzo quasi tutti gli ostacoli alla felicità dei due protagonisti, a cominciare naturalmente dal persecutore don Rodrigo. Manzoni è ben lontano dalla "morale" di don Abbondio che vede la peste come una "scopa" che ha spazzato via prepotenti e tiranni, al punto da augurarsi che ce ne sia una per generazione (a condizione di salvare la pelle): a parte l'ovvia considerazione che la peste miete vittime anche tra i personaggi positivi della storia (Perpetua, fra Cristoforo...), basta scorrere la descrizione minuziosa dello squallore e della miseria della città spopolata e dei moltissimi casi di innocenti portati via dal contagio per realizzare che la peste è una immane tragedia, rispetto alla quale del resto sembra arduo trovare una qualche forma di consolazione religiosa, una serena fiducia nell'operato della giustizia di Dio. Domina invece nelle pagine dedicate al flagello uno sguardo sgomento, una sorta di amaro pessimismo che, tutt'al più, esalta coloro che sanno sopportare la calamità con fiducia nella Provvidenza divina, come i padri cappuccini che assistono i malati nel lazzaretto, anche se un simile atteggiamento sembra piuttosto l'eccezione rispetto alla disperazione generale, alla quale a tratti pare abbandonarsi lo stesso protagonista Renzo. Di fronte allo spettacolo atroce della pestilenza il male diventa più che mai un enigma insolubile e non spiegabile facilmente alla luce dei principi religiosi, per cui il lieto fine che caratterizza la vicenda dei due promessi sembra generato piuttosto dal caso e da un concorso straordinario di circostanze favorevoli, che hanno permesso a Renzo di guarire dalla malattia, poi di sfuggire al linciaggio come untore e infine di trovare Lucia in vita, una fortuna di cui lo stesso personaggio è consapevole nel soliloquio che apre il cap. XXXVII. Lo stesso non vale ovviamente per le migliaia di persone che l'epidemia ha spazzato via senza alcuna colpa né speranza di salvezza terrena, rispetto alle quali il lieto fine di Renzo e Lucia ha persino qualcosa di forzato, fatto che ha influito non poco sulla scelta di Manzoni di abbandonare le opere di narrativa per dedicarsi alla storiografia (è lui stesso ad avvalorare questa tesi nello scritto Del romanzo storico, pubblicato pochi anni dopo il romanzo e in cui si sostiene che mescolare storia e invenzione in un'opera narrativa porta a risultati artistici assai deludenti).
C'è poi un altro aspetto della peste nel romanzo che si collega alla dimensione religiosa, non però al tema della Provvidenza quanto piuttosto al risvolto sociale dell'epidemia, ossia il fatto che la calamità colpisce tutti senza distinzioni di classe o appartenenza e abbatte dunque le barriere di casta che normalmente sono insuperabili nel mondo semi-feudale del Seicento, così come al tempo dell'autore. L'esempio più ovvio di ciò è don Rodrigo, destinato ad ammalarsi e a morire nonostante il suo essere nobile, a finire nello squallore del lazzaretto di fronte a Renzo guarito, con la cappa signorile che gli fa da coperta e che non lo ha naturalmente protetto dal contrarre la malattia; e del resto lo stesso lazzaretto si configura come un "microcosmo" in cui ogni differenza sociale è annullata, dove ricchi e poveri sono ugualmente esposti al rischio di morte e convivono l'uno accanto all'altro in una promiscuità che sarebbe inimmaginabile in condizioni normali. Manzoni invita dunque il lettore a trarre una lezione di umiltà e a guardare nella giusta prospettiva le cose di questo mondo che perdono ogni importanza al cospetto della vita ultraterrena, come fa capire chiaramente Renzo che infatti perdona il suo nemico agonizzante e rinuncia a ogni pensiero di rivalsa; la peste può diventare allora, in questa prospettiva, opera di giustizia divina in quanto sconvolge l'assetto normale della società e aiuta a comprendere che siamo tutti uguali di fronte a Dio, ma è altrettanto chiaro che ciò è presentato come un evento eccezionale, poiché alla fine dell'epidemia tutto è destinato a tornare alla normalità e i consueti rapporti sociali si ristabiliscono, con le tradizionali divisioni tra ricchi e poveri, umili e potenti. La peste non viene assolutamente presentata dall'autore come una sorta di "palingenesi" in grado di modificare le strutture sociali in modo permanente, in quanto esse si basano su rapporti di forza e differenze economiche che neppure l'epidemia può scalfire e che infatti, già nei capitoli finali del romanzo, tendono a ricomporsi in maniera naturale e a riprodurre il tessuto sociale preesistente alla calamità, creando addirittura le condizioni per un miglioramento economico della situazione dei protagonisti (Renzo approfitterà di un decreto che prevede esenzioni fiscali agli emigranti nel Bergamasco, gettando le basi della sua nuova attività imprenditoriale). La peste in questa prospettiva assolve la funzione di richiamare gli uomini ai reali valori della vita, che sono la carità, l'amore per il prossimo, il valore del perdono (specie nelle parole-testamento di padre Cristoforo ai due promessi, "dite [ai vostri figli] che perdonino sempre, sempre! tutto, tutto!"), tuttavia i valori materiali del mondo riemergono con forza alla fine della morìa e ciò rende almeno in parte il messaggio dell'autore ambiguo, non pienamente risolto nel rifiuto del mondo a vantaggio della morale evangelica, nonché tenacemente attaccato a quella struttura sociale che egli non mette mai in discussione, basata sull'ineguale distribuzione della ricchezza e sulla distinzione tra ricchi e poveri. Il dramma della peste può far riflettere sulla precarietà della vita e indurre forse i potenti ad essere più umili e rispettosi dei diritti dei deboli, ma ciò è affidato in ultima analisi alla buona volontà dei singoli e le parole finali di fra Cristoforo non potrebbero essere più pessimistiche, col dire che i figli di Renzo e Lucia nasceranno "in un triste mondo, e in tristi tempi, in mezzo a' superbi e a' provocatori", un mondo rispetto al quale la peste non ha apportato significativi cambiamenti. Anche riguardo all'epidemia il pensiero di Manzoni resta rigidamente conservatore e la peste non diventa mai nella narrazione metafora di significati "altri", ma solo lo specchio della triste condizione umana rispetto alla quale poco o nulla si può fare in questa vita per modificarne la sostanza, solo riporre fiducia nella compensazione che potrà esserci nell'altra vita, dove davvero e per sempre saremo tutti uguali (dunque la rappresentazione della peste mostra tutto il pessimismo e la visione sconsolata di Manzoni, il cui messaggio nel romanzo appare molto lontano da quello edificante e consolatorio attribuitogli da una certa critica cattolica e si presta piuttosto all'analisi ben più sottile di autori come Calvino, che non a caso ha potuto parlare a proposito dei Promessi sposi di un "mondo senza Provvidenza").
Per approfondire: G. Baldissone, La rappresentazione iconografica della peste; I. Calvino, Un mondo senza Provvidenza; U. Dotti, Guerra, fame, peste.
C'è poi un altro aspetto della peste nel romanzo che si collega alla dimensione religiosa, non però al tema della Provvidenza quanto piuttosto al risvolto sociale dell'epidemia, ossia il fatto che la calamità colpisce tutti senza distinzioni di classe o appartenenza e abbatte dunque le barriere di casta che normalmente sono insuperabili nel mondo semi-feudale del Seicento, così come al tempo dell'autore. L'esempio più ovvio di ciò è don Rodrigo, destinato ad ammalarsi e a morire nonostante il suo essere nobile, a finire nello squallore del lazzaretto di fronte a Renzo guarito, con la cappa signorile che gli fa da coperta e che non lo ha naturalmente protetto dal contrarre la malattia; e del resto lo stesso lazzaretto si configura come un "microcosmo" in cui ogni differenza sociale è annullata, dove ricchi e poveri sono ugualmente esposti al rischio di morte e convivono l'uno accanto all'altro in una promiscuità che sarebbe inimmaginabile in condizioni normali. Manzoni invita dunque il lettore a trarre una lezione di umiltà e a guardare nella giusta prospettiva le cose di questo mondo che perdono ogni importanza al cospetto della vita ultraterrena, come fa capire chiaramente Renzo che infatti perdona il suo nemico agonizzante e rinuncia a ogni pensiero di rivalsa; la peste può diventare allora, in questa prospettiva, opera di giustizia divina in quanto sconvolge l'assetto normale della società e aiuta a comprendere che siamo tutti uguali di fronte a Dio, ma è altrettanto chiaro che ciò è presentato come un evento eccezionale, poiché alla fine dell'epidemia tutto è destinato a tornare alla normalità e i consueti rapporti sociali si ristabiliscono, con le tradizionali divisioni tra ricchi e poveri, umili e potenti. La peste non viene assolutamente presentata dall'autore come una sorta di "palingenesi" in grado di modificare le strutture sociali in modo permanente, in quanto esse si basano su rapporti di forza e differenze economiche che neppure l'epidemia può scalfire e che infatti, già nei capitoli finali del romanzo, tendono a ricomporsi in maniera naturale e a riprodurre il tessuto sociale preesistente alla calamità, creando addirittura le condizioni per un miglioramento economico della situazione dei protagonisti (Renzo approfitterà di un decreto che prevede esenzioni fiscali agli emigranti nel Bergamasco, gettando le basi della sua nuova attività imprenditoriale). La peste in questa prospettiva assolve la funzione di richiamare gli uomini ai reali valori della vita, che sono la carità, l'amore per il prossimo, il valore del perdono (specie nelle parole-testamento di padre Cristoforo ai due promessi, "dite [ai vostri figli] che perdonino sempre, sempre! tutto, tutto!"), tuttavia i valori materiali del mondo riemergono con forza alla fine della morìa e ciò rende almeno in parte il messaggio dell'autore ambiguo, non pienamente risolto nel rifiuto del mondo a vantaggio della morale evangelica, nonché tenacemente attaccato a quella struttura sociale che egli non mette mai in discussione, basata sull'ineguale distribuzione della ricchezza e sulla distinzione tra ricchi e poveri. Il dramma della peste può far riflettere sulla precarietà della vita e indurre forse i potenti ad essere più umili e rispettosi dei diritti dei deboli, ma ciò è affidato in ultima analisi alla buona volontà dei singoli e le parole finali di fra Cristoforo non potrebbero essere più pessimistiche, col dire che i figli di Renzo e Lucia nasceranno "in un triste mondo, e in tristi tempi, in mezzo a' superbi e a' provocatori", un mondo rispetto al quale la peste non ha apportato significativi cambiamenti. Anche riguardo all'epidemia il pensiero di Manzoni resta rigidamente conservatore e la peste non diventa mai nella narrazione metafora di significati "altri", ma solo lo specchio della triste condizione umana rispetto alla quale poco o nulla si può fare in questa vita per modificarne la sostanza, solo riporre fiducia nella compensazione che potrà esserci nell'altra vita, dove davvero e per sempre saremo tutti uguali (dunque la rappresentazione della peste mostra tutto il pessimismo e la visione sconsolata di Manzoni, il cui messaggio nel romanzo appare molto lontano da quello edificante e consolatorio attribuitogli da una certa critica cattolica e si presta piuttosto all'analisi ben più sottile di autori come Calvino, che non a caso ha potuto parlare a proposito dei Promessi sposi di un "mondo senza Provvidenza").
Per approfondire: G. Baldissone, La rappresentazione iconografica della peste; I. Calvino, Un mondo senza Provvidenza; U. Dotti, Guerra, fame, peste.
Clicca qui per ascoltare l'audio del capitolo dal sito www.liberliber.it
(voce narrante di Silvia Cecchini).
Capitolo XXXVII
Appena infatti ebbe Renzo passata la soglia del lazzeretto e preso a diritta, per ritrovar la viottola di dov’era sboccato la mattina sotto le mura, principiò come una grandine di goccioloni radi e impetuosi, che, battendo e risaltando sulla strada bianca e arida, sollevavano un minuto polverìo; in un momento, diventaron fitti; e prima che arrivasse alla viottola, la veniva giù a secchie. Renzo, in vece d’inquietarsene, ci sguazzava dentro, se la godeva in quella rinfrescata, in quel susurrìo, in quel brulichìo dell’erbe e delle foglie, tremolanti, gocciolanti, rinverdite, lustre; metteva certi respironi larghi e pieni; e in quel risolvimento [1] della natura sentiva come più liberamente e più vivamente quello che s’era fatto nel suo destino.
Ma quanto più schietto e intero sarebbe stato questo sentimento, se Renzo avesse potuto indovinare quel che si vide pochi giorni dopo: che quell’acqua portava via il contagio; che, dopo quella, il lazzeretto, se non era per restituire ai viventi tutti i viventi che conteneva, almeno non n’avrebbe più ingoiati altri; che, tra una settimana, si vedrebbero riaperti usci e botteghe, non si parlerebbe quasi più che di quarantina [2]; e della peste non rimarrebbe se non qualche resticciolo qua e là; quello strascico che un tal flagello lasciava sempre dietro a sé per qualche tempo. Andava dunque il nostro viaggiatore allegramente, senza aver disegnato né dove, né come, né quando, né se avesse da fermarsi la notte, premuroso soltanto di portarsi avanti, d’arrivar presto al suo paese, di trovar con chi parlare, a chi raccontare, soprattutto di poter presto rimettersi in cammino per Pasturo, in cerca d’Agnese. Andava, con la mente tutta sottosopra dalle cose di quel giorno; ma di sotto le miserie, gli orrori, i pericoli, veniva sempre a galla un pensierino: l’ho trovata; è guarita; è mia! E allora faceva uno sgambetto, e con ciò dava un’annaffiata all’intorno, come un can barbone uscito dall’acqua; qualche volta si contentava d’una fregatina di mani; e avanti, con più ardore di prima. Guardando per la strada, raccattava, per dir così, i pensieri, che ci aveva lasciati la mattina e il giorno avanti, nel venire; e con più piacere quelli appunto che allora aveva più cercato di scacciare, i dubbi, le difficoltà, trovarla, trovarla viva, tra tanti morti e moribondi! “E l’ho trovata viva!” concludeva. Si rimetteva col pensiero nelle circostanze più terribili di quella giornata; si figurava con quel martello [3] in mano: ci sarà o non ci sarà? e una risposta così poco allegra; e non aver nemmeno il tempo di masticarla, che addosso quella furia di matti birboni; e quel lazzeretto, quel mare! lì ti volevo a trovarla! E averla trovata! Ritornava su quel momento quando fu finita di passare la processione de’ convalescenti: che momento! che crepacore non trovarcela! e ora non gliene importava più nulla. E quel quartiere delle donne! E là dietro a quella capanna, quando meno se l’aspettava, quella voce, quella voce proprio! E vederla, vederla levata! Ma che? c’era ancora quel nodo del voto, e più stretto che mai. Sciolto anche questo. E quell’odio contro don Rodrigo, quel rodìo continuo che esacerbava tutti i guai, e avvelenava tutte le consolazioni, scomparso anche quello. Talmenteché non saprei immaginare una contentezza più viva, se non fosse stata l’incertezza intorno ad Agnese, il tristo presentimento intorno al padre Cristoforo, e quel trovarsi ancora in mezzo a una peste. Arrivò a Sesto [4], sulla sera; né pareva che l’acqua volesse cessare. Ma, sentendosi più in gambe che mai, e con tante difficoltà di trovar dove alloggiare, e così inzuppato, non ci pensò neppure. La sola cosa che l’incomodasse, era un grand’appetito: ché una consolazione come quella gli avrebbe fatto smaltire altro che la poca minestra del cappuccino. Guardò se trovasse anche qui una bottega di fornaio; ne vide una; ebbe due pani con le molle, e con quell’altre cerimonie. Uno in tasca e l’altro alla bocca, e avanti. Quando passò per Monza, era notte fatta: nonostante, gli riuscì di trovar la porta che metteva sulla strada giusta. Ma meno questo, che, per dir la verità, era un gran merito, potete immaginarvi come fosse quella strada, e come andasse facendosi di momento in momento. Affondata (com’eran tutte; e dobbiamo averlo detto altrove) tra due rive, quasi un letto di fiume, si sarebbe a quell’ora potuta dire, se non un fiume, una gora [5] davvero; e ogni tanto pozze, da volerci del buono e del bello a levarne i piedi, non che le scarpe. Ma Renzo n’usciva come poteva, senz’atti d’impazienza, senza parolacce, senza pentimenti; pensando che ogni passo, per quanto costasse, lo conduceva avanti, e che l’acqua cesserebbe quando a Dio piacesse, e che, a suo tempo, spunterebbe il giorno, e che la strada che faceva intanto, allora sarebbe fatta. E dirò anche che non ci pensava se non proprio quando non poteva far di meno. Eran distrazioni queste; il gran lavoro della sua mente era di riandare la storia di que’ tristi anni passati: tant’imbrogli, tante traversìe, tanti momenti in cui era stato per perdere anche la speranza, e fare andata ogni cosa; e di contrapporci l’immaginazioni d’un avvenire così diverso: e l’arrivar di Lucia, e le nozze, e il metter su casa, e il raccontarsi le vicende passate, e tutta la vita. Come la facesse quando trovava due strade; se quella poca pratica, con quel poco barlume, fossero quelli che l’aiutassero a trovar sempre la buona, o se l’indovinasse sempre alla ventura, non ve lo saprei dire; ché lui medesimo, il quale soleva raccontar la sua storia molto per minuto, lunghettamente anzi che no (e tutto conduce a credere che il nostro anonimo l’avesse sentita da lui più d’una volta), lui medesimo, a questo punto, diceva che, di quella notte, non se ne rammentava che come se l’avesse passata in letto a sognare. Il fatto sta che, sul finir di essa, si trovò alla riva dell’Adda. Non era mai spiovuto; ma, a un certo tempo, da diluvio era diventata pioggia, e poi un’acquerugiola fine fine, cheta cheta, ugual uguale: i nuvoli alti e radi stendevano un velo non interrotto, ma leggiero e diafano; e il lume del crepuscolo fece vedere a Renzo il paese d’intorno. C’era dentro il suo; e quel che sentì, a quella vista, non si saprebbe spiegare. Altro non vi so dire, se non che que’ monti, quel Resegone vicino, il territorio di Lecco, era diventato tutto come roba sua. Diede un’occhiata anche a sé, e si trovò un po’ strano, quale, per dir la verità, da quel che si sentiva, s’immaginava già di dover parere: sciupata e attaccata addosso ogni cosa: dalla testa alla vita, tutto un fradiciume, una grondaia; dalla vita alla punta de’ piedi, melletta e mota [6]: le parti dove non ce ne fosse si sarebbero potute chiamare esse zacchere e schizzi. E se si fosse visto tutt’intero in uno specchio, con la tesa del cappello floscia e cascante, e i capelli stesi e incollati sul viso, si sarebbe fatto ancor più specie. In quanto a stanco, lo poteva essere, ma non ne sapeva nulla: e il frescolino dell’alba aggiunto a quello della notte e di quel poco bagno, non gli dava altro che una fierezza, una voglia di camminar più presto. È a Pescate; costeggia quell’ultimo tratto dell’Adda, dando però un’occhiata malinconica a Pescarenico; passa il ponte; per istrade e campi, arriva in un momento alla casa dell’ospite amico. Questo, che s’era levato allora, e stava sull’uscio, a guardare il tempo, alzò gli occhi a quella figura così inzuppata, così infangata, diciam pure così lercia, e insieme così viva e disinvolta: a’ suoi giorni non aveva visto un uomo peggio conciato e più contento. - Ohe! - disse: - già qui? e con questo tempo? Com’è andata? - La c’è, - disse Renzo: - la c’è: la c’è. - Sana? - Guarita, che è meglio. Devo ringraziare il Signore e la Madonna fin che campo. Ma cose grandi, cose di fuoco: ti racconterò poi tutto. - Ma come sei conciato! - Son bello eh? - A dir la verità, potresti adoprare il da tanto in su, per lavare il da tanto in giù. Ma, aspetta, aspetta; che ti faccia un buon fuoco. - Non dico di no. Sai dove la m’ha preso? proprio alla porta del lazzeretto. Ma niente! il tempo il suo mestiere, e io il mio. L’amico andò e tornò con due bracciate di stipa [7]: ne mise una in terra, l’altra sul focolare, e, con un po’ di brace rimasta della sera avanti, fece presto una bella fiammata. Renzo intanto s’era levato il cappello, e, dopo averlo scosso due o tre volte, l’aveva buttato in terra: e, non così facilmente, s’era tirato via anche il farsetto. Levò poi dal taschino de’ calzoni il coltello, col fodero tutto fradicio, che pareva stato in molle; lo mise su un panchetto, e disse: - anche costui è accomodato a dovere; ma l’è acqua! l’è acqua! sia ringraziato il Signore... Sono stato lì lì...! Ti dirò poi [8] -. E si fregava le mani. - Ora fammi un altro piacere, - soggiunse: - quel fagottino che ho lasciato su in camera, va’ a prendermelo, ché prima che s’asciughi questa roba che ho addosso...! Tornato col fagotto, l’amico disse: - penso che avrai anche appetito: capisco che da bere, per la strada, non te ne sarà mancato; ma da mangiare... - Ho trovato da comprar due pani, ieri sul tardi; ma, per dir la verità, non m’hanno toccato un dente [9]. - Lascia fare, - disse l’amico; mise l’acqua in un paiolo, che attaccò poi alla catena; e soggiunse: - vado a mungere: quando tornerò col latte, l’acqua sarà all’ordine [10]; e si fa una buona polenta. Tu intanto fa’ il tuo comodo. Renzo, rimasto solo, si levò, non senza fatica, il resto de’ panni, che gli s’eran come appiccicati addosso; s’asciugò, si rivestì da capo a piedi. L’amico tornò, e andò al suo paiolo: Renzo intanto si mise a sedere, aspettando. - Ora sento che sono stanco, - disse: - ma è una bella tirata! Però questo è nulla! Ne ho da raccontartene per tutta la giornata. Com’è conciato Milano! Le cose che bisogna vedere! Le cose che bisogna toccare! Cose da farsi poi schifo a se medesimo. Sto per dire che non ci voleva meno di quel bucatino che ho avuto. E quel che m’hanno voluto fare que’ signori di laggiù! Sentirai. Ma se tu vedessi il lazzeretto! C’è da perdersi nelle miserie. Basta; ti racconterò tutto... E la c’è, e la verrà qui, e sarà mia moglie; e tu devi far da testimonio, e, peste o non peste, almeno qualche ora, voglio che stiamo allegri. Del resto mantenne ciò, che aveva detto all’amico, di voler raccontargliene per tutta la giornata; tanto più, che, avendo sempre continuato a piovigginare, questo la passò tutta in casa, parte seduto accanto all’amico, parte in faccende intorno a un suo piccolo tino, e a una botticina, e ad altri lavori, in preparazione della vendemmia; ne’ quali Renzo non lasciò di dargli una mano; ché, come soleva dire, era di quelli che si stancano più a star senza far nulla, che a lavorare. Non poté però tenersi di non fare una scappatina alla casa d’Agnese, per rivedere una certa finestra [11], e per dare anche lì una fregatina di mani. Tornò senza essere stato visto da nessuno; e andò subito a letto. S’alzò prima che facesse giorno; e, vedendo cessata l’acqua, se non ritornato il sereno, si mise in cammino per Pasturo. Era ancor presto quando ci arrivò: ché non aveva meno fretta e voglia di finire, di quel che possa averne il lettore. Cercò d’Agnese; sentì che stava bene, e gli fu insegnata una casuccia isolata dove abitava. Ci andò; la chiamò dalla strada: a una tal voce, essa s’affacciò di corsa alla finestra; e, mentre stava a bocca aperta per mandar fuori non so che parola, non so che suono, Renzo la prevenne dicendo: - Lucia è guarita: l’ho veduta ierlaltro; vi saluta; verrà presto. E poi ne ho, ne ho delle cose da dirvi. Tra la sorpresa dell’apparizione, e la contentezza della notizia, e la smania di saperne di più, Agnese cominciava ora un’esclamazione, ora una domanda, senza finir nulla: poi, dimenticando le precauzioni ch’era solita a prendere da molto tempo, disse: - vengo ad aprirvi. - Aspettate: e la peste? - disse Renzo: - voi non l’avete avuta, credo. - Io no: e voi? - Io sì; ma voi dunque dovete aver giudizio. Vengo da Milano; e, sentirete, sono proprio stato nel contagio fino agli occhi. È vero che mi son mutato tutto da capo a piedi; ma l’è una porcheria che s’attacca alle volte come un malefizio. E giacché il Signore v’ha preservata finora, voglio che stiate riguardata fin che non è finito quest’influsso [12]; perché siete la nostra mamma: e voglio che campiamo insieme un bel pezzo allegramente, a conto del gran patire che abbiam fatto, almeno io. - Ma... - cominciava Agnese. [13] - Eh! - interruppe Renzo: - non c’è ma che tenga. So quel che volete dire; ma sentirete, sentirete, che de’ ma non ce n’è più. Andiamo in qualche luogo all’aperto, dove si possa parlar con comodo, senza pericolo; e sentirete. Agnese gl’indicò un orto ch’era dietro alla casa; e soggiunse: - entrate lì, e vedrete che c’è due panche, l’una in faccia all’altra, che paion messe apposta. Io vengo subito. Renzo andò a mettersi a sedere sur una: un momento dopo, Agnese si trovò lì sull’altra: e son certo che, se il lettore, informato come è delle cose antecedenti, avesse potuto trovarsi lì in terzo, a veder con gli occhi quella conversazione così animata, a sentir con gli orecchi que’ racconti, quelle domande, quelle spiegazioni, quell’esclamare, quel condolersi, quel rallegrarsi, e don Rodrigo, e il padre Cristoforo, e tutto il resto, e quelle descrizioni dell’avvenire, chiare e positive come quelle del passato, son certo, dico, che ci avrebbe preso gusto, e sarebbe stato l’ultimo a venir via. Ma d’averla sulla carta tutta quella conversazione, con parole mute, fatte d’inchiostro, e senza trovarci un solo fatto nuovo, son di parere che non se ne curi molto, e che gli piaccia più d’indovinarla da sé. La conclusione fu che s’anderebbe a metter su casa tutti insieme in quel paese del bergamasco dove Renzo aveva già un buon avviamento: in quanto al tempo, non si poteva decider nulla, perché dipendeva dalla peste, e da altre circostanze: appena cessato il pericolo, Agnese tornerebbe a casa, ad aspettarvi Lucia, o Lucia ve l’aspetterebbe: intanto Renzo farebbe spesso qualche altra corsa a Pasturo, a veder la sua mamma, e a tenerla informata di quel che potesse accadere. Prima di partire, offrì anche a lei danari, dicendo: - gli ho qui tutti, vedete, que’ tali: avevo fatto voto anch’io di non toccarli, fin che la cosa non fosse venuta in chiaro. Ora, se n’avete bisogno, portate qui una scodella d’acqua e aceto [14]; vi butto dentro i cinquanta scudi belli e lampanti. - No, no, - disse Agnese: - ne ho ancora più del bisogno per me: i vostri, serbateli, che saran buoni per metter su casa. Renzo tornò al paese con questa consolazione di più d’aver trovata sana e salva una persona tanto cara. Stette il rimanente di quella giornata, e la notte, in casa dell’amico; il giorno dopo, in viaggio di nuovo, ma da un’altra parte, cioè verso il paese adottivo. Trovò Bortolo, in buona salute anche lui, e in minor timore di perderla; ché, in que’ pochi giorni, le cose, anche là, avevan preso rapidamente una bonissima piega. Pochi eran quelli che s’ammalavano; e il male non era più quello; non più que’ lividi mortali, né quella violenza di sintomi; ma febbriciattole, intermittenti la maggior parte, con al più qualche piccol bubbone scolorito, che si curava come un fignolo [15] ordinario. Già l’aspetto del paese compariva mutato; i rimasti vivi cominciavano a uscir fuori, a contarsi tra loro, a farsi a vicenda condoglianze e congratulazioni. Si parlava già di ravviare i lavori: i padroni pensavano già a cercare e a caparrare [16] operai, e in quell’arti principalmente dove il numero n’era stato scarso anche prima del contagio, com’era quella della seta. Renzo, senza fare il lezioso, promise (salve però le debite approvazioni) al cugino di rimettersi al lavoro, quando verrebbe accompagnato, a stabilirsi in paese. S’occupò intanto de’ preparativi più necessari: trovò una casa più grande; cosa divenuta pur troppo facile e poco costosa; e la fornì di mobili e d’attrezzi, intaccando questa volta il tesoro, ma senza farci un gran buco, ché tutto era a buon mercato, essendoci molta più roba che gente che la comprassero. Dopo non so quanti giorni, ritornò al paese nativo, che trovò ancor più notabilmente cambiato in bene. Trottò subito a Pasturo; trovò Agnese rincoraggita affatto, e disposta a ritornare a casa quando si fosse; di maniera che ce la condusse lui: né diremo quali fossero i loro sentimenti, quali le parole, al rivedere insieme que’ luoghi. Agnese trovò ogni cosa come l’aveva lasciata. Sicché non poté far a meno di non dire che, questa volta, trattandosi d’una povera vedova e d’una povera fanciulla, avevan fatto la guardia gli angioli. - E l’altra volta, [17] - soggiungeva, - che si sarebbe creduto che il Signore guardasse altrove, e non pensasse a noi, giacché lasciava portar via il povero fatto nostro; ecco che ha fatto vedere il contrario, perché m’ha mandato da un’altra parte di bei danari, con cui ho potuto rimettere ogni cosa. Dico ogni cosa, e non dico bene; perché il corredo di Lucia che coloro avevan portato via bell’e nuovo, insieme col resto, quello mancava ancora; ma ecco che ora ci viene da un’altra parte. Chi m’avesse detto, quando io m’arrapinavo [18] tanto a allestir quell’altro: tu credi di lavorar per Lucia: eh povera donna! lavori per chi non sai: sa il cielo, questa tela, questi panni, a che sorte di creature anderanno indosso: quelli per Lucia, il corredo davvero che ha da servire per lei, ci penserà un’anima buona, la quale tu non sai né anche che la sia in questo mondo. Il primo pensiero d’Agnese fu quello di preparare nella sua povera casuccia l’alloggio il più decente che potesse, a quell’anima buona: poi andò in cerca di seta da annaspare; e lavorando ingannava il tempo. Renzo, dal canto suo, non passò in ozio que’ giorni già tanto lunghi per sé: sapeva far due mestieri per buona sorte; si rimise a quello del contadino. Parte aiutava il suo ospite, per il quale era una gran fortuna l’avere in tal tempo spesso al suo comando un’opera [19], e un’opera di quell’abilità; parte coltivava, anzi dissodava l’orticello d’Agnese, trasandato affatto nell’assenza di lei. In quanto al suo proprio podere, non se n’occupava punto, dicendo ch’era una parrucca troppo arruffata, e che ci voleva altro che due braccia a ravviarla. E non ci metteva neppure i piedi; come né anche in casa: ché gli avrebbe fatto male a vedere quella desolazione; e aveva già preso il partito di disfarsi d’ogni cosa, a qualunque prezzo, e d’impiegar nella nuova patria quel tanto che ne potrebbe ricavare. Se i rimasti vivi erano, l’uno per l’altro, come morti resuscitati, Renzo, per quelli del suo paese, lo era, come a dire, due volte: ognuno gli faceva accoglienze e congratulazioni, ognuno voleva sentir da lui la sua storia. Direte forse: come andava col bando? L’andava benone: lui non ci pensava quasi più, supponendo che quelli i quali avrebbero potuto eseguirlo, non ci pensassero più né anche loro: e non s’ingannava. E questo non nasceva solo dalla peste che aveva fatto monte [20] di tante cose; ma era, come s’è potuto vedere anche in vari luoghi di questa storia, cosa comune a que’ tempi, che i decreti, tanto generali quanto speciali, contro le persone, se non c’era qualche animosità privata e potente che li tenesse vivi, e li facesse valere, rimanevano spesso senza effetto, quando non l’avessero avuto sul primo momento; come palle di schioppo, che, se non fanno colpo, restano in terra, dove non dànno fastidio a nessuno. Conseguenza necessaria della gran facilità con cui li seminavano que’ decreti. L’attività dell’uomo è limitata; e tutto il di più che c’era nel comandare, doveva tornare in tanto meno nell’eseguire. Quel che va nelle maniche, non può andar ne’ gheroni. [21] Chi volesse anche sapere come Renzo se la passasse con don Abbondio, in quel tempo d’aspetto, dirò che stavano alla larga l’uno dall’altro: don Abbondio, per timore di sentire intonar qualcosa di matrimonio: e, al solo pensarci, si vedeva davanti agli occhi don Rodrigo da una parte, co’ suoi bravi, il cardinale dall’altra, co’ suoi argomenti: Renzo, perché aveva fissato di non parlargliene che al momento di concludere, non volendo risicare di farlo inalberar prima del tempo, di suscitar, chi sa mai? qualche difficoltà, e d’imbrogliar le cose con chiacchiere inutili. Le sue chiacchiere, le faceva con Agnese. - Credete voi che verrà presto? - domandava l’uno. - Io spero di sì, - rispondeva l’altro: e spesso quello che aveva data la risposta, faceva poco dopo la domanda medesima. E con queste e con simili furberie, s’ingegnavano a far passare il tempo, che pareva loro più lungo, di mano in mano che n’era più passato. Al lettore noi lo faremo passare in un momento tutto quel tempo, dicendo in compendio che, qualche giorno dopo la visita di Renzo al lazzeretto, Lucia n’uscì con la buona vedova; che, essendo stata ordinata una quarantina generale, la fecero insieme, rinchiuse nella casa di quest’ultima; che una parte del tempo fu spesa in allestire il corredo di Lucia, al quale, dopo aver fatto un po’ di cerimonie, dovette lavorare anche lei; e che, terminata che fu la quarantina, la vedova lasciò in consegna il fondaco e la casa a quel suo fratello commissario; e si fecero i preparativi per il viaggio. Potremmo anche soggiunger subito: partirono, arrivarono, e quel che segue; ma, con tutta la volontà che abbiamo di secondar la fretta del lettore, ci son tre cose appartenenti a quell’intervallo di tempo, che non vorremmo passar sotto silenzio; e, per due almeno, crediamo che il lettore stesso dirà che avremmo fatto male. La prima, che, quando Lucia tornò a parlare alla vedova delle sue avventure, più in particolare, e più ordinatamente di quel che avesse potuto in quell’agitazione della prima confidenza, e fece menzione più espressa della signora che l’aveva ricoverata nel monastero di Monza, venne a sapere di costei cose che, dandole la chiave di molti misteri, le riempiron l’animo d’una dolorosa e paurosa maraviglia. Seppe dalla vedova che la sciagurata, caduta in sospetto d’atrocissimi fatti, era stata, per ordine del cardinale, trasportata in un monastero di Milano; che lì, dopo molto infuriare e dibattersi, s’era ravveduta, s’era accusata; e che la sua vita attuale era supplizio volontario tale, che nessuno, a meno di non togliergliela, ne avrebbe potuto trovare un più severo. Chi volesse conoscere un po’ più in particolare questa trista storia, la troverà nel libro e al luogo che abbiam citato altrove, a proposito della stessa persona (Ripam. Hist. Pat., Dec. V, Lib. VI, Cap. III.). L’altra cosa è che Lucia, domandando del padre Cristoforo a tutti i cappuccini che poté vedere nel lazzeretto, sentì, con più dolore che maraviglia, ch’era morto di peste. Finalmente, prima di partire, avrebbe anche desiderato di saper qualcosa de’ suoi antichi padroni, e di fare, come diceva, un atto del suo dovere, se alcuno ne rimaneva. La vedova l’accompagnò alla casa, dove seppero che l’uno e l’altra erano andati tra que’ più. Di donna Prassede, quando si dice ch’era morta, è detto tutto; ma intorno a don Ferrante, trattandosi ch’era stato dotto, l’anonimo ha creduto d’estendersi un po’ più; e noi, a nostro rischio, trascriveremo a un di presso quello che ne lasciò scritto. Dice adunque che, al primo parlar che si fece di peste, don Ferrante fu uno de’ più risoluti a negarla, e che sostenne costantemente fino all’ultimo, quell’opinione; non già con ischiamazzi, come il popolo; ma con ragionamenti, ai quali nessuno potrà dire almeno che mancasse la concatenazione. - In rerum natura, [22] - diceva, - non ci son che due generi di cose: sostanze e accidenti [23]; e se io provo che il contagio non può esser né l’uno né l’altro, avrò provato che non esiste, che è una chimera. E son qui. Le sostanze sono, o spirituali, o materiali. Che il contagio sia sostanza spirituale, è uno sproposito che nessuno vorrebbe sostenere; sicché è inutile parlarne. Le sostanze materiali sono, o semplici [24], o composte. Ora, sostanza semplice il contagio non è; e si dimostra in quattro parole. Non è sostanza aerea; perché, se fosse tale, in vece di passar da un corpo all’altro, volerebbe subito alla sua sfera. Non è acquea; perché bagnerebbe, e verrebbe asciugata da’ venti. Non è ignea; perché brucerebbe. Non è terrea; perché sarebbe visibile. Sostanza composta, neppure; perché a ogni modo dovrebbe esser sensibile all’occhio o al tatto; e questo contagio, chi l’ha veduto? chi l’ha toccato? Riman da vedere se possa essere accidente. Peggio che peggio. Ci dicono questi signori dottori che si comunica da un corpo all’altro; ché questo è il loro achille [25], questo il pretesto per far tante prescrizioni senza costrutto. Ora, supponendolo accidente, verrebbe a essere un accidente trasportato: due parole che fanno ai calci, non essendoci, in tutta la filosofia, cosa più chiara, più liquida [26] di questa: che un accidente non può passar da un soggetto all’altro. Che se, per evitar questa Scilla, si riducono a dire che sia accidente prodotto, dànno in Cariddi [27]: perché, se è prodotto, dunque non si comunica, non si propaga, come vanno blaterando. Posti questi princìpi, cosa serve venirci tanto a parlare di vibici, d’esantemi, d’antraci...? [28] - Tutte corbellerie, - scappò fuori una volta un tale. - No, no, - riprese don Ferrante: - non dico questo: la scienza è scienza; solo bisogna saperla adoprare. Vibici, esantemi, antraci, parotidi, bubboni violacei, furoncoli nigricanti, [29] son tutte parole rispettabili, che hanno il loro significato bell’e buono; ma dico che non han che fare con la questione. Chi nega che ci possa essere di queste cose, anzi che ce ne sia? Tutto sta a veder di dove vengano. Qui cominciavano i guai anche per don Ferrante. Fin che non faceva che dare addosso all’opinion del contagio, trovava per tutto orecchi attenti e ben disposti: perché non si può spiegare quanto sia grande l’autorità d’un dotto di professione, allorché vuol dimostrare agli altri le cose di cui sono già persuasi. Ma quando veniva a distinguere, e a voler dimostrare che l’errore di que’ medici non consisteva già nell’affermare che ci fosse un male terribile e generale; ma nell’assegnarne la cagione; allora (parlo de’ primi tempi, in cui non si voleva sentir discorrere di peste), allora, in vece d’orecchi, trovava lingue ribelli, intrattabili; allora, di predicare a distesa [30] era finita; e la sua dottrina non poteva più metterla fuori, che a pezzi e bocconi. - La c’è pur troppo la vera cagione, - diceva; - e son costretti a riconoscerla anche quelli che sostengono poi quell’altra così in aria... La neghino un poco, se possono, quella fatale congiunzione di Saturno con Giove. E quando mai s’è sentito dire che l’influenze si propaghino...? E lor signori mi vorranno negar l’influenze? Mi negheranno che ci sian degli astri? O mi vorranno dire che stian lassù a far nulla, come tante capocchie di spilli ficcati in un guancialino?... Ma quel che non mi può entrare, è di questi signori medici; confessare che ci troviamo sotto una congiunzione così maligna, e poi venirci a dire, con faccia tosta: non toccate qui, non toccate là, e sarete sicuri! Come se questo schivare il contatto materiale de’ corpi terreni, potesse impedir l’effetto virtuale de’ corpi celesti! E tanto affannarsi a bruciar de’ cenci! Povera gente! brucerete Giove? brucerete Saturno? His fretus [31], vale a dire su questi bei fondamenti, non prese nessuna precauzione contro la peste; gli s’attaccò; andò a letto, a morire, come un eroe di Metastasio [32], prendendosela con le stelle. E quella sua famosa libreria? È forse ancora dispersa su per i muriccioli [33]. |
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Note
- Soluzione (riferito alla pioggia, in cui si è sciolta l'afa).
- Quarantena.
- Il battaglio della porta di don Ferrante.
- Sesto S. Giovanni, piccolo centro alle porte di Milano.
- Un canale.
- Melma e fango.
- Rami secchi per accendere il fuoco.
- Renzo allude al fatto che per poco, per sfuggire al linciaggio, è stato costretto a bagnare il coltello di sangue.
- Non mi hanno affatto saziato.
- Bollirà.
- Quella attraverso la quale parlava a Lucia.
- Renzo crede che la peste sia dovuta all'influsso degli astri (come già Bortolo, cfr. cap. XXXIII).
- Agnese pensa al voto, che non sa ancora essere stato sciolto.
- In cui mettere i soldi per disinfettarli (cfr. cap. XXXIII, il fornaio di Monza).
- Un foruncolo.
- Accaparrare, assicurarsi.
- Durante la calata dei lanzichenecchi.
- Mi affaticavo.
- Un operaio, un lavorante.
- Aveva messo da parte, eliminato.
- Detto proverbiale, che significa che ciò che si spende da una parte non si può spendere dall'altra (i gheroni erano pezze triangolari di stoffa che un tempo si cucivano in fondo ai teli delle camicie, per aumentarne l'ampiezza).
- In natura.
- Nella filosofia aristotelica sostanza è la cosa in sé, che rimane identica anche quando mutano le sue qualità, mentre accidente è la qualità mutevole della cosa.
- Le sostanze semplici sono i quattro elementi naturali, aria, acqua, terra e fuoco.
- Il loro argomento più valido, come Achille era il più valoroso dei guerrieri achei.
- Limpida, di facile comprensione.
- Se, per evitare questa contraddizione, dicono che sia un accidente prodotto, cadono in un'altra contraddizione (il riferimento è alle creature mitologiche di Scilla e Cariddi, poste ai lati dello Stretto di Messina e grave insidia per i naviganti).
- Le vibìci sono macchie livide della pelle, gli esantemi delle eruzioni cutanee, gli antraci piccoli gonfiori della pelle (sono tutti termini medici comuni al tempo della peste).
- Le parotidi sono le ghiandole salivari poste dietro l'orecchio, mentre i foruncoli nigricanti sono quasi neri (altri termini medici).
- Senza interruzioni.
- Espressione latina (di Cicerone), che significa "fondandosi su questi argomenti".
- Pietro Trapassi, in arte Metastasio (1698-1782), fu il principale autore di melodrammi del Settecento e i suoi eroi spesso muoiono protestando l'ingiustizia del destino a loro infausto (il paragone suona ovviamente ironico).
- Noi diremmo: sulle bancarelle di libri usati.