Il lazzaretto

R. Focosi, Il lazzaretto durante la peste
È il recinto di forma rettangolare posto esternamente alle mura di Milano, vicino a Porta Orientale, destinato al ricovero degli appestati durante l'epidemia di peste del 1630: il luogo è presentato per la prima volta nel cap. XI, quando Renzo giunge a Milano dopo aver lasciato il paese in seguito al fallito tentativo di rapimento di Lucia, indirizzato da padre Cristoforo al convento dei cappuccini di Porta Orientale (l'edificio è descritto come una "fabbrica lunga e bassa" che costeggia le mura della città e il giovane, seguendo le indicazioni di un passante, percorre il fossato che lo circonda arrivando ben presto a Porta Orientale). Il nome "lazzaretto" è collegato al lebbroso Lazzaro della parabola evangelica del ricco epulone (Luca, XVI, 19-31), con probabile influenza anche dell'episodio della resurrezione di Lazzaro di Betania ad opera di Gesù (Giov., XI), anche se il termine propriamente deriva dalla storpiatura del nome dell'isola veneziana di S. Maria di Nazareth, che veniva detta Nazarethum ed era destinata al ricovero di malati contagiosi provenienti dalla Terrasanta (Manzoni usa nel romanzo la forma lazzeretto, in uso nell'italiano dell'epoca). A Milano il lazzaretto era originariamente destinato al ricovero e alla quarantena dei malati di peste, diventando poi sinonimo di luogo in cui venivano curate malattie infettive e contagiose, nonché, per estensione, di spazio pieno di miserie e squallore indicibile. Il lazzaretto è uno spazio narrativo autonomo rispetto al resto della città di Milano e viene descritto in due momenti salienti della vicenda, all'epoca della carestia (XXVIII) e della peste (XXXI ss.).
Le origini e la struttura dell'edificio

Il lazzaretto (ediz. 1840)
L'autore ricostruisce sinteticamente la storia del lazzaretto nel corso del cap. XXVIII, durante la descrizione della terribile carestia che affligge il Milanese negli anni 1628-1629: il progetto risale al 1489 e venne realizzato in parte con denaro pubblico e in parte con lasciti e donazioni testamentarie di privati cittadini, su iniziativa del governo di quello che allora era il Ducato di Milano, allo scopo di realizzare uno spazio dove tenere in quarantena gli ammalati di peste (il morbo riesplodeva spesso in forma epidemica in tutta Europa, specie nel corso dei secc. XV-XVI). Il lazzaretto fu dunque usato molte volte come ricovero per gli appestati e al tempo dei fatti del romanzo era un recinto di forma quadrangolare, coi lati maggiori lunghi circa cinquecento passi e gli altri più corti di quindici, che sorgeva appunto lungo le mura cittadine dal lato di Porta Orientale. Era circondato da un fossato e da un canale per il deflusso delle acque (la "gora" citata dall'autore), nonché da una strada che lo costeggiava, e lungo tutti i lati aveva delle piccole stanze o celle del numero di circa duecentottantotto, mentre in tre lati interni c'era un lungo porticato sostenuto da piccole colonne. Al centro dello spazio era presente una chiesetta di forma ottagonale, ancora esistente ai tempi di Manzoni e, come si vedrà in seguito, anche oggigiorno. All'inizio del sec. XVII il lazzaretto era quasi in disuso e veniva utlizzato unicamente come luogo in cui stoccare e tenere in "contumacia", ovvero in quarantena, le merci entrate a Milano che si sospettava potessero essere infette; l'ultima volta in cui era servito come ricovero di appestati era stato nel 1576, al tempo della cosiddetta "peste di S. Carlo" più volte citata dal romanziere nei capp. XXXI-XXXII dedicati all'epidemia del 1630.
Il lazzaretto durante la carestia del 1628-29

F. Gonin, Gli accattoni al lazzaretto
Nel cap. XXVIII l'autore descrive l'incrudelire della terribile carestia già presentata negli episodi precedenti del romanzo, aggravata e resa ancor più acuta dagli insensati provvedimenti delle autorità di Milano: le strade della città sono affollate di poveri e mendicanti di ogni risma, molti dei quali sono contadini affamati provenienti dal territorio circostante, la cui presenza massiccia è fonte di giustificate preoccupazioni da parte del Tribunale di Sanità per il possibile propagarsi di malattie contagiose. Nella primavera del 1629 viene proposto di ricoverare gli accattoni in diversi ospizi della città, ma il Tribunale di Provvisione decide in modo più sbrigativo di raccogliere tutti i poveri nel lazzaretto, occupato solo dalle merci tenute in quarantena: il luogo viene liberato alla bell'e meglio, con disinfezioni e controlli superficiali, vengono acquistati viveri nella quantità e della qualità che è possibile reperire, quindi si invitano con un provvedimento pubblico gli accattoni ad accedere all'edificio. Molti accorrono spontaneamente per avere un ricovero e pane gratuito e si aggiungono anche gli infermi che vi sono portati di peso, per cui in pochi giorni il lazzaretto ospita più di tremila persone; in seguito le autorità costringono ad entrarvi con la forza anche i riottosi, cosicché la popolazione della struttura raggiunge ben presto la cifra di diecimila individui. L'autore suppone che donne e bambini siano stati separati dagli uomini (non esiste alcun documento a riguardo) e che siano stati prescritti regolamenti per mantenere l'ordine, ma è evidente che la convivenza forzosa di tante persone in un luogo così ristretto, tra cui per di più vi erano volontari e prigionieri, nonché accattoni di professione e criminali, sia stata terribilmente penosa. Secondo alcune testimonianze le persone dormivano stese sulla paglia (sporca e cambiata di rado) oppure sulla nuda terra, a venti o trenta per volta nelle cellette, oppure sotto i portici; il pane scarseggiava ed era per lo più di cattiva qualità, mentre vi era persino penuria d'acqua e quella poca veniva attinta dal canale circostante l'edificio, dunque era sporca e fangosa. Le precarie condizioni igieniche e la mancanza di cibo, unitamente alla massiccia concentrazione di tante persone nello stesso luogo, favorisce il diffondersi di malattie infettive tra i ricoverati al lazzaretto e la mortalità inizia a crescere in modo preoccupante, toccando il centinaio di individui al giorno (le malattie sono favorite dalla condizione di debolezza delle persone affamate, nonché dalle cattive condizioni atmosferiche e dal caldo precoce e intenso dell'estate del 1629). Alla fine il Tribunale di Sanità decide di aprire le porte del lazzaretto e di farne uscire gli accattoni ancora sani, i quali corrono via con "gioia furibonda" e tornano a riversarsi nelle strade cittadine, benché la loro folla sia meno numerosa che in passato; i malati più gravi vengono portati all'ospizio di S. Maria della Stella, dove molti di loro muoiono di stenti. Con l'estate 1629 la carestia finalmente cessa e il lazzaretto si svuota progressivamente dei suoi abitanti, anche se in seguito alla calata dei lanzichenecchi (autunno 1629) e al diffondersi della peste verrà nuovamente usato come luogo di ricovero coatto degli ammalati, tornando quindi alla destinazione originaria.
Il lazzaretto durante la peste del 1630

Gustavino, Il lazzaretto nel 1630
Nel cap. XXXI, il primo dei due dedicati dall'autore alla digressione storica sulla peste a Milano nel 1630, il lazzaretto è indicato come il luogo dove vengono segregati e isolati dal resto della popolazione i malati, a cominciare da coloro che sono entrati a contatto con il soldato che ha portato il contagio in città; in seguito l'autore precisa che molti cittadini nascondono la malattia propria o dei familiari per il terrore di essere portati in modo coatto al lazzaretto, dove nel frattempo la popolazione degli appestati cresce di giorno in giorno. Qui diventa sempre più arduo supplire a tutte le necessità e assicurare ai malati le cure di cui abbisognano, per cui i decurioni (i magistrati municipali che governano la città) si rivolgono ai padri cappuccini e chiedono al commissario che sostituisce il padre provinciale, morto poco prima, di trovare qualche confratello in grado di sovrintendere al lazzaretto, incarico che viene affidato a padre Felice Casati e a padre Michele Pozzobonelli, il primo con la carica di presidente della struttura e il secondo quale suo aiutante. Il presidente del Tribunale di Sanità consegna loro il lazzaretto il 30 marzo 1630 e in seguito molti altri cappuccini vi confluiscono per occuparsi del governo di quel luogo di miserie, svolgendo il ruolo di infermieri, confessori, portantini, supplendo in tal modo alle mancanze del potere pubblico che si è mostrato incapace di provvedere alle circostanze.
Dopo la processione solenne dell'11 giugno (cap. XXXII), cui invano si è opposto il cardinal Borromeo e che doveva, almeno nelle intenzioni, arrestare l'infuriare del contagio, la peste accresce la propria virulenza e la popolazione del lazzaretto passa in breve tempo da duemila a dodicimila individui, per arrivare di lì a poco alla cifra spaventosa di sedicimila appestati. Le autorità sanitarie faticano non poco a rifornire il lazzaretto di tutto il necessario e a trovare posto agli ammalati sempre nuovi che vi affluiscono, scopo per il quale vengono approntate alla meglio delle capanne di legno e paglia nello spazio interno della struttura, mentre un'altra simile viene costruita con un semplice recinto di legno e capanne, in grado di accogliere quattromila persone (l'autore riferisce che si progetta di realizzare altri due lazzaretti, che poi per mancanza di mezzi non sono completati). Non rari sono i casi in cui al lazzaretto principale mancano medici o cibo, per cui si riesce a far fronte alle necessità non solo grazie alla solerzia infaticabile dei padri cappuccini, ma spesso anche grazie alle donazioni in denaro di privati che non hanno smarrito del tutto la compassione del prossimo. Fra le persone che si prodigano per l'assistenza ai malati spicca anche il cardinal Borromeo, il quale rifiuta gli inviti a lasciare la città per non esporsi al contagio e non rinuncia a fare spesso visita agli appestati entrando nello stesso lazzaretto, quando non si reca di persona a dare aiuti ai malati sequestrati nelle case per ordine della Sanità (il prelato esce illeso dall'epidemia e viene ritratto da più di un pittore dell'epoca nell'atto di visitare gli infermi).
Dopo la processione solenne dell'11 giugno (cap. XXXII), cui invano si è opposto il cardinal Borromeo e che doveva, almeno nelle intenzioni, arrestare l'infuriare del contagio, la peste accresce la propria virulenza e la popolazione del lazzaretto passa in breve tempo da duemila a dodicimila individui, per arrivare di lì a poco alla cifra spaventosa di sedicimila appestati. Le autorità sanitarie faticano non poco a rifornire il lazzaretto di tutto il necessario e a trovare posto agli ammalati sempre nuovi che vi affluiscono, scopo per il quale vengono approntate alla meglio delle capanne di legno e paglia nello spazio interno della struttura, mentre un'altra simile viene costruita con un semplice recinto di legno e capanne, in grado di accogliere quattromila persone (l'autore riferisce che si progetta di realizzare altri due lazzaretti, che poi per mancanza di mezzi non sono completati). Non rari sono i casi in cui al lazzaretto principale mancano medici o cibo, per cui si riesce a far fronte alle necessità non solo grazie alla solerzia infaticabile dei padri cappuccini, ma spesso anche grazie alle donazioni in denaro di privati che non hanno smarrito del tutto la compassione del prossimo. Fra le persone che si prodigano per l'assistenza ai malati spicca anche il cardinal Borromeo, il quale rifiuta gli inviti a lasciare la città per non esporsi al contagio e non rinuncia a fare spesso visita agli appestati entrando nello stesso lazzaretto, quando non si reca di persona a dare aiuti ai malati sequestrati nelle case per ordine della Sanità (il prelato esce illeso dall'epidemia e viene ritratto da più di un pittore dell'epoca nell'atto di visitare gli infermi).
Il lazzaretto nelle vicende del romanzo

F. Gonin, fra Cristoforo indica a Renzo la cappella
Nel cap. XXXV il lazzaretto diventa autentico spazio narrativo nel romanzo, poiché Renzo, da poco giunto a Milano in cerca di Lucia e dopo aver appreso che la giovane è ricoverata tra gli appestati in quella struttura, riesce ad arrivarvi in modo fortunoso in seguito al tentativo di linciaggio subìto dalla folla che lo crede un untore, a bordo del carro dei monatti da cui scende nei pressi del convento dei cappuccini di Porta Orientale (lo stesso già visto nel cap. XI). Il giovane si avvicina al lato meridionale del recinto esterno e vi vede molti appestati, alcuni in preda al delirio e altri privi di forze, oltre a un "frenetico" in groppa a un cavallo che sprona a sangue ed è inseguito dai monatti. Renzo attraversa l'ingresso e si addentra nel lazzaretto, occupato all'interno da moltissime capanne e popolato da circa sedicimila appestati: si vede la cappella ottagonale al centro e una specie di strada maestra che conduce alla chiesa attraversando la struttura da un lato all'altro, percorsa da carri che trasportano malati o cadaveri. Renzo rimane stupefatto da quello spettacolo e inizia a camminare tra le capanne, attento a non farsi scorgere da nessuno e guardando all'interno dei vari quartieri in cerca di Lucia, anche se ben presto non tarda a capire che quello dev'essere il quartiere destinato agli uomini. Mentre prosegue si imbatte poi in un recinto più basso, circondato da uno steccato sconnesso, che ospita molti bambini in fasce che vengono allattati al seno da balie, mentre altri sono allattati da capre usate per quello scopo (lo spettacolo è talmente pietoso e inusitato che il giovane impiega un certo tempo per staccarsi da esso e riprendere la sua dolorosa ricerca).
Più avanti Renzo incontra padre Cristoforo fuori da una delle baracche, non molto distante da quella dove giace don Rodrigo ammalato e in fin di vita: il cappuccino indicherà a Renzo la cappella al centro dove, di lì a poco, padre Felice terrà un breve discorso ai guariti che escono dal lazzaretto e fra i quali potrebbe essere Lucia, mentre poi gli mostra la parte della struttura destinata alle donne e gli fornisce indicazioni per entrarvi. Alla fine del lungo e drammatico confronto tra i due personaggi, dopo che il frate ha mostrato a Renzo l'agonizzante don Rodrigo e che il giovane lo ha perdonato, i due si separano e Renzo raggiunge la cappella ottagonale (XXXVI), descritta dall'autore quale si mostrava all'epoca, cioè come una cupola sostenuta da piccole colonne e sovrastante un edificio aperto da tutti i lati, per cui l'altare posto al centro è visibile da ogni parte. Dopo aver ascoltato la predica di padre Felice ed essersi sincerato che Lucia non è fra i guariti che vanno a fare la quarantena, Renzo si introduce nel quartiere femminile seguendo le istruzioni di padre Cristoforo e trova per terra un campanello dei monatti: se lo attacca al piede, per fingersi un ministro della Sanità e poter girare liberamente, salvo poi essere apostrofato da un commissario che lo scambia appunto per un monatto e gli ordina di provvedere ad alcune incombenze. Renzo si accorge della sua imprudenza e si china per togliersi il campanello, nello spazio compreso tra la parte posteriore di due capanne, ed è qui che sente le voci di Lucia e della mercantessa che parlano dall'interno di una delle due baracche: dopo l'incontro tra i due promessi e il drammatico confronto sulla questione del voto della ragazza, Renzo raggiunge nuovamente padre Cristoforo e torna con lui alla capanna dov'è Lucia, alla quale il frate comunica che il voto è nullo e che lei è libera dall'obbligo incautamente contratto.
In seguito Renzo si accommiata da Lucia e dal frate, uscendo dal lazzaretto (XXXVII) proprio quando inizia il temporale che pone fine alla lunga siccità e coincide con l'inizio dello scemare dell'epidemia. È questa di fatto l'ultima apparizione della struttura come spazio narrativo vero e proprio, salvo l'accenno alla completa guarigione di Lucia che ne esce insieme alla mercantessa, poco dopo aver appreso che padre Cristoforo è morto di peste.
Più avanti Renzo incontra padre Cristoforo fuori da una delle baracche, non molto distante da quella dove giace don Rodrigo ammalato e in fin di vita: il cappuccino indicherà a Renzo la cappella al centro dove, di lì a poco, padre Felice terrà un breve discorso ai guariti che escono dal lazzaretto e fra i quali potrebbe essere Lucia, mentre poi gli mostra la parte della struttura destinata alle donne e gli fornisce indicazioni per entrarvi. Alla fine del lungo e drammatico confronto tra i due personaggi, dopo che il frate ha mostrato a Renzo l'agonizzante don Rodrigo e che il giovane lo ha perdonato, i due si separano e Renzo raggiunge la cappella ottagonale (XXXVI), descritta dall'autore quale si mostrava all'epoca, cioè come una cupola sostenuta da piccole colonne e sovrastante un edificio aperto da tutti i lati, per cui l'altare posto al centro è visibile da ogni parte. Dopo aver ascoltato la predica di padre Felice ed essersi sincerato che Lucia non è fra i guariti che vanno a fare la quarantena, Renzo si introduce nel quartiere femminile seguendo le istruzioni di padre Cristoforo e trova per terra un campanello dei monatti: se lo attacca al piede, per fingersi un ministro della Sanità e poter girare liberamente, salvo poi essere apostrofato da un commissario che lo scambia appunto per un monatto e gli ordina di provvedere ad alcune incombenze. Renzo si accorge della sua imprudenza e si china per togliersi il campanello, nello spazio compreso tra la parte posteriore di due capanne, ed è qui che sente le voci di Lucia e della mercantessa che parlano dall'interno di una delle due baracche: dopo l'incontro tra i due promessi e il drammatico confronto sulla questione del voto della ragazza, Renzo raggiunge nuovamente padre Cristoforo e torna con lui alla capanna dov'è Lucia, alla quale il frate comunica che il voto è nullo e che lei è libera dall'obbligo incautamente contratto.
In seguito Renzo si accommiata da Lucia e dal frate, uscendo dal lazzaretto (XXXVII) proprio quando inizia il temporale che pone fine alla lunga siccità e coincide con l'inizio dello scemare dell'epidemia. È questa di fatto l'ultima apparizione della struttura come spazio narrativo vero e proprio, salvo l'accenno alla completa guarigione di Lucia che ne esce insieme alla mercantessa, poco dopo aver appreso che padre Cristoforo è morto di peste.
Il lazzaretto nel XIX secolo

Un'immagine del lazzaretto alla fine del XIX sec.
Il lazzaretto sopravvisse come struttura della città di Milano ancora nei secoli successivi al Seicento, utilizzato occasionalmente per scopi militari o come ospedale (le epidemie di peste erano nel frattempo cessate), mentre le pareti della chiesa al centro vennero murate già molto prima dell'epoca di Manzoni, che infatti così descrive l'edificio. L'intera struttura venne acquistata dalla Banca di Credito Italiano nel 1881, quando ormai le stanze erano adibite ad abitazioni o fienili e un viadotto ferroviario attraversava lo spazio interno da un capo all'altro: quel che restava dell'edificio venne completamente demolito tra 1882 e 1890, tranne un piccolo tratto che ancora esiste in via S. Gregorio (in zona Porta Venezia, quella che allora era Porta Orientale). La chiesa centrale era stata ristrutturata e in seguito venne consacrata a S. Carlo Borromeo, venendo riaperta al culto nel 1884 ed essendo ancora oggi presente nelle strade della città, anche se è quasi impossibile indovinarne la funzione primitiva (si veda la foto in basso).