Capitolo XIII
Gustavino, Ferrer acclamato dalla folla
"La folla, da una parte e dell'altra, stava tutta in punta di piedi per vedere: mille visi, mille barbe in aria: la curiosità e l'attenzione generale creò un momento di generale silenzio. Ferrer, fermatosi quel momento sul predellino, diede un'occhiata in giro, salutò con un inchino la moltitudine, come da un pulpito, e messa la mano sinistra al petto, gridò: - Pane e giustizia; - e franco, diritto, togato, scese in terra, tra l'acclamazioni che andavano alle stelle..."
Personaggi:
Luoghi: Tempo: Temi: Trama: |
_Renzo, Antonio Ferrer, il vicario di Provvisione, il vecchio mal vissuto, il popolo di Milano, il cocchiere Pedro
Milano 11 novembre 1628 La giustizia, La carestia, Il tumulto di S. Martino, Nobiltà e potere La folla assedia la casa del vicario di Provvisione per linciarlo. Renzo assiste al tumulto e disapprova il proposito di uccidere il vicario. Arrivo di Ferrer in carrozza. Il gran cancelliere porta in salvo il vicario, promettendo falsamente di condurlo in prigione. |
La folla assalta la casa del vicario di Provvisione
F. Gonin, Il vicario
Il vicario di Provvisione è a casa sua, intento a digerire un magro pasto consumato senza pane fresco, quando alcuni cittadini giungono a informarlo che la folla si dirige alla sua abitazione per linciarlo. I servi lo avvertono che i rivoltosi sono in arrivo e la fuga è ormai impossibile, così sprangano porte e finestre mentre si sente l'urlo della sommossa che si avvicina minacciosamente. Il pover'uomo è in preda al terrore e si rifugia in soffitta, da dove si affaccia da un pertugio nella parete e scorge la folla che si avvicina, per poi rannicchiarsi in un angolo appartato e sperare vanamente che i disordini cessino.
Intanto i rivoltosi hanno raggiunto la porta della casa iniziando a sconficcarla in tutti i modi e Renzo si trova in mezzo al tumulto, questa volta cacciatosi in mezzo ai disordini per scelta deliberata: il giovane non ha disapprovato il saccheggio dei forni, tuttavia non condivide l'intento della folla di mettere a morte il vicario e, pur essendo convinto che il funzionario sia un affamatore di popolo, è inorridito all'idea di spargere sangue e si è unito alla sommossa col fine di dare una mano a salvare il vicario dal linciaggio. I più esagitati nel frattempo cercano di abbattere la porta colpendola con sassi, o lavorando con scalpelli e attrezzi vari, mentre altri cercano di aprire una breccia nel muro e altri ancora si limitano a incitare a parole, essendo tuttavia di impaccio con la loro sola presenza (per fortuna, osserva con amara ironia l'autore, accade talvolta che i sostenitori più accaniti di un'opera ne siano poi l'impedimento principale).
Intanto i rivoltosi hanno raggiunto la porta della casa iniziando a sconficcarla in tutti i modi e Renzo si trova in mezzo al tumulto, questa volta cacciatosi in mezzo ai disordini per scelta deliberata: il giovane non ha disapprovato il saccheggio dei forni, tuttavia non condivide l'intento della folla di mettere a morte il vicario e, pur essendo convinto che il funzionario sia un affamatore di popolo, è inorridito all'idea di spargere sangue e si è unito alla sommossa col fine di dare una mano a salvare il vicario dal linciaggio. I più esagitati nel frattempo cercano di abbattere la porta colpendola con sassi, o lavorando con scalpelli e attrezzi vari, mentre altri cercano di aprire una breccia nel muro e altri ancora si limitano a incitare a parole, essendo tuttavia di impaccio con la loro sola presenza (per fortuna, osserva con amara ironia l'autore, accade talvolta che i sostenitori più accaniti di un'opera ne siano poi l'impedimento principale).
L'arrivo dei soldati
F. Gonin, I "micheletti" schierati
I magistrati di Milano che sono stati informati dell'accaduto avvertono a loro volta il comandante della guarnigione del Castello Sforzesco, presso porta Giovia, il quale invia sul posto alcuni soldati: al loro arrivo, tuttavia, essi trovano la casa del vicario cinta d'assedio dai rivoltosi e si fermano a una certa distanza, mentre l'ufficiale che li guida riflette sul da farsi. Sparare sulla folla sarebbe crudele e pericoloso, poiché aizzerebbe i più violenti contro i soldati; del resto anche tentare di disperdere i rivoltosi è rischioso, in quanto i soldati potrebbero non mantenere i ranghi serrati ed essere facilmente sopraffatti da quella massa di esagitati. L'esitazione dell'ufficiale viene interpretata come paura e così i popolani più vicini ai soldati li provocano con grida di scherno e un atteggiamento di noncuranza, mentre quelli più vicini alla casa non si accorgono neppure della loro presenza e proseguono imperterriti la loro opera di scardinamento della porta.
Il vecchio mal vissuto
F. Gonin, Il vecchio mal vissuto
Tra gli esagitati si nota un vecchio dall'aspetto trasandato e lo sguardo pieno di odio, il quale agita in aria un martello, una corda e quattro chiodi coi quali dice di voler attaccare il corpo del vicario a un battente della porta, quando il funzionario sarà stato ucciso. Renzo è inorridito da tali parole e, vedendo che altri sembrano condividere la sua disapprovazione, si lascia sfuggire delle esclamazioni con cui incita i rivoltosi a non abbandonarsi ad atti insensati di violenza, contrari alla volontà di Dio. Uno dei rivoltosi vicino a lui sente le sue parole e lo accusa con rabbia di essere un traditore, mentre in men che non si dica si diffonde tra la folla la voce che lì in mezzo c'è una spia del vicario, o un suo servo, o addirittura il vicario che scappa travestito da contadino. Renzo vorrebbe sparire ed è protetto da alcuni che si trovano vicini a lui, quando a un tratto si sente gridare qualcuno che chiede alla folla di fare spazio, il che salva probabilmente il giovane dalla reazione inferocita degli altri popolani.
La scala a pioli. Si sparge la voce dell'arrivo di Ferrer
V. Fraschetti, La scala
Alcuni rivoltosi stanno portando sulle spalle una lunga e pesante scala a pioli, con cui intendono arrampicarsi per entrare nella casa del vicario da una finestra: l'operazione è tuttavia assai difficile, poiché nell'avanzare tra la folla la scala sfugge di mano a chi la trasporta e picchia sulle spalle e le costole degli altri, così essa (paragonata ironicamente dall'autore a una macchina da assedio) si avvicina molto lentamente alla casa. Renzo approfitta della confusione per sgomitare e allontanarsi dal punto in cui si trova, onde evitare rappresaglie da parte di quelli che lo hanno sentito difendere il vicario.
A un tratto si sparge tra la folla la voce che sta arrivando Ferrer in carrozza, notizia che suscita le più varie reazioni e l'iniziale incredulità dei rivoltosi: tutti si voltano a guardare verso il punto indicato (senza tuttavia veder nulla a causa del gran numero di persone) e da quella parte sta proprio arrivando il gran cancelliere per cercare di trarre in salvo il vicario, approfittando della popolarità che ha acquistato con la scriteriata decisione di imporre il calmiere sul prezzo del pane. Ben presto tra la folla si diffonde la convinzione che Ferrer sia venuto per portare il vicario in prigione e un certo numero di rivoltosi sono dunque favorevoli all'arrivo dell'alto funzionario di Stato, mentre altri sono contrari in quanto vorrebbero esser loro a farsi giustizia da sé e linciare il malcapitato vicario di Provvisione.
A un tratto si sparge tra la folla la voce che sta arrivando Ferrer in carrozza, notizia che suscita le più varie reazioni e l'iniziale incredulità dei rivoltosi: tutti si voltano a guardare verso il punto indicato (senza tuttavia veder nulla a causa del gran numero di persone) e da quella parte sta proprio arrivando il gran cancelliere per cercare di trarre in salvo il vicario, approfittando della popolarità che ha acquistato con la scriteriata decisione di imporre il calmiere sul prezzo del pane. Ben presto tra la folla si diffonde la convinzione che Ferrer sia venuto per portare il vicario in prigione e un certo numero di rivoltosi sono dunque favorevoli all'arrivo dell'alto funzionario di Stato, mentre altri sono contrari in quanto vorrebbero esser loro a farsi giustizia da sé e linciare il malcapitato vicario di Provvisione.
Digressione dell'autore sui tumulti popolari
L'autore osserva che nelle rivolte popolari c'è sempre un certo numero di esagitati, che per i motivi più vari (perché eccitati dagli eventi, o per fanatismo, o ancora per scelleratezza o semplice gusto del soqquadro) cercano di tirare le cose al peggio e vogliono rinnovare i disordini non appena questi sembrino acquietarsi: ci sono tuttavia anche coloro che si adoperano con altrettanto impegno per ottenere l'effetto contrario, per vicinanza alle persone minacciate o soltanto per sincero orrore verso qualunque atto di violenza. In ciascuna delle due fazioni si crea subito un comune sentire e un'identità d'intenti, mentre nel grosso della folla ci sono uomini di diverse idee e sentimenti che possono inclinare all'uno o all'altro partito, in quanto bisognosi di credere a qualcosa e facili dunque ad essere persuasi ad appoggiare un'idea o quella opposta. I rivoltosi sono come delle banderuole che si muovono senza volontà propria e possono essere usati per i fini altrui, e poiché hanno una grande forza ci sono sempre nei tumulti degli abili oratori in grado di tirarli dalla loro parte, istigandoli a fare qualcosa di bene o di male, e di suscitare in loro speranze e timori, paure e sentimenti vari.
Ferrer è acclamato dalla folla
Renzo scansa la folla (ediz. 1840)
L'arrivo di Ferrer, da solo e senza alcuna scorta né apparato in mezzo a quella folla tumultuante, suscita la viva approvazione di molti che lo acclamano come un benefattore del popolo e ridà forza a coloro che stanno cercando di rabbonire i rivoltosi, perché non commettano atti di violenza. Si diffonde anche la convinzione che egli voglia portare in prigione il vicario di Provvisione, per cui i suoi sostenitori si danno da fare per far passare la carrozza tra la folla e ripetono a tutti le sue parole, ricordando che il gran cancelliere è colui che ha messo il pane a buon mercato. Poco alla volta prevale il partito favorevole a Ferrer e alcuni rivoltosi allontanano con modi bruschi quelli che stanno ancora sconficcando la porta e il muro della casa, dicendo a coloro che stanno all'interno di tenersi pronti a fare uscire il vicario (è chiaro che il vero scopo del cancelliere è condurlo in salvo e la cosa non sfugge ad alcuni dei presenti).
Renzo chiede se si tratti di quel Ferrer che"aiuta a far le gride", poiché si rammenta della sua firma che ha visto sotto la grida mostratagli dal dottor Azzecca-garbugli, e dopo che la cosa gli viene confermata si convince che il gran cancelliere è un galantuomo venuto a castigare il vicario, per cui il giovane decide di dare una mano e, a forza di urti e spinte, arriva di fianco alla carrozza dove si adopera per fare stare indietro la folla e consentire al veicolo di passare.
Renzo chiede se si tratti di quel Ferrer che"aiuta a far le gride", poiché si rammenta della sua firma che ha visto sotto la grida mostratagli dal dottor Azzecca-garbugli, e dopo che la cosa gli viene confermata si convince che il gran cancelliere è un galantuomo venuto a castigare il vicario, per cui il giovane decide di dare una mano e, a forza di urti e spinte, arriva di fianco alla carrozza dove si adopera per fare stare indietro la folla e consentire al veicolo di passare.
La carrozza avanza tra la folla
G. B. Galizzi, Il cocchiere Pedro
La carrozza avanza con estrema lentezza e spesso deve fermarsi, occasione in cui Ferrer si affaccia dallo sportello e, atteggiandosi all'umiltà e alla benevolenza, con l'espressione che ha tenuto in serbo per l'incontro con re Filippo IV, si rivolge ai rivoltosi cercando di quietarli e dicendo nel chiasso infernale qualche parola. Il gran cancelliere manda baci alla folla, chiede con la mano di fare spazio e silenzio, quindi dice di voler fare "giustizia" e promette pane e abbondanza, un po' intimorito dalla calca tremenda intorno alla sua carrozza. Egli aggiunge di essere venuto a portare il vicario in prigione, anche se precisa in spagnolo "si es culpable" (se è colpevole), poi sollecita il cocchiere Pedro a procedere tra la folla se gli è possibile. Pedro sorride anche lui ai rivoltosi con fare manierato e chiede gentilmente che facciano passare la carrozza, mentre alcuni popolani ricacciano indietro gli altri e fanno un po' di spazio in cui, pur con grande fatica, essa riesce ad avanzare. Tra questi è particolarmente attivo anche Renzo, il quale ha deciso di aiutare Ferrer nella sua opera e non intende andar via finché l'uomo non sarà riuscito a portare con sé il vicario, per cui il giovane si dà un gran da fare con urti e spintoni ed è talmente suggestionato dagli eventi che gli sembra quasi di aver stretto un legame di amicizia col gran cancelliere.
Le parole di Ferrer alla folla
F. Gonin, Ferrer e la folla
La carrozza continua a procedere lentamente e a fermarsi di quando in quando, ostacolata dalla folla che ondeggia intorno ad essa come un mare in tempesta e fa sembrare un percorso assai lungo le poche decine di metri che la separano dalla casa del vicario. Ferrer continua a rivolgersi alla folla cercando di capire cosa dicano i rivoltosi e dando le risposte più gradite alle loro orecchie, ripetendo cioè le parole "pane" e "giustizia" e promettendo di portare il vicario in prigione, mentre la folla si tira indietro a fatica e qualche popolano rischia seriamente di essere schiacciato da una delle ruote della carrozza. Finalmente il veicolo giunge vicino alla casa del vicario e qui, proprio di fronte alla porta, si è creato uno spazio vuoto grazie all'opera incessante dei partigiani favorevoli a Ferrer, tra i quali Renzo che si trova in prima fila, in mezzo a una delle due ali di folla che accompagnano la carrozza sino alla porta dell'abitazione. Il gran cancelliere vede la porta mezza scardinata e un po' di spazio libero di fronte ad essa, quindi si affretta ad uscire dalla carrozza e si sofferma per qualche istante sul predellino, acclamato dai presenti a cui rivolge un profondo inchino promettendo "pane e giustizia".
Ferrer entra nella casa e ne porta fuori il vicario
F. Gonin, Ferrer scende dalla carrozza
_Ferrer si affretta a scendere dalla carrozza e ad avvicinarsi all'uscio sconficcato della casa, che nel frattempo è stato aperto da coloro che si trovano all'interno: il gran cancelliere sguscia rapidamente in mezzo ai battenti semichiusi, preoccupandosi che la sua toga non venga strappata, quindi scompare alla vista dei rivoltosi (l'autore lo paragona, non senza sarcasmo, a una serpe che si infila in un buco per sfuggire agli inseguitori). All'interno il vicario scende le scale mezzo morto dalla paura e si rianima un poco alla vista di Ferrer, che si affretta a riempire di ringraziamenti: il gran cancelliere lo rassicura e lo invita a seguirlo, informandolo che è sua intenzione condurlo via sulla sua carrozza, quindi lo accompagna verso la porta, invocando tra sé l'aiuto di Dio per affrontare quel passo pericoloso e difficile.
I due escono dalla casa, Ferrer per primo e il vicario che lo segue piccino piccino, appiattito dietro alla sua toga, mentre i popolani lì vicino li aiutano a passare e cercano di sottrarre il vicario alla vista della moltitudine: quest'ultimo e il suo salvatore si affrettano a entrare nella carrozza e qui il vicario si nasconde in un angolo, mentre la folla applaude all'indirizzo di Ferrer e impreca contro l'odiato funzionario. La carrozza si allontana dalla casa e questa volta riesce ad avanzare più celermente, sia perché tutti sono abbastanza favorevoli a lasciare andare in prigione il vicario, sia perché si è ormai creato un corridoio in mezzo alla folla che agevola il passaggio del veicolo.
I due escono dalla casa, Ferrer per primo e il vicario che lo segue piccino piccino, appiattito dietro alla sua toga, mentre i popolani lì vicino li aiutano a passare e cercano di sottrarre il vicario alla vista della moltitudine: quest'ultimo e il suo salvatore si affrettano a entrare nella carrozza e qui il vicario si nasconde in un angolo, mentre la folla applaude all'indirizzo di Ferrer e impreca contro l'odiato funzionario. La carrozza si allontana dalla casa e questa volta riesce ad avanzare più celermente, sia perché tutti sono abbastanza favorevoli a lasciare andare in prigione il vicario, sia perché si è ormai creato un corridoio in mezzo alla folla che agevola il passaggio del veicolo.
La carrozza si allontana dalla folla
La carrozza raggiunge il Castello Sforzesco (ediz. 1840)
_Ferrer raccomanda al vicario di stare ben nascosto sul fondo della carrozza per non farsi vedere dalla folla, mentre il gran cancelliere si affaccia ora all'uno ora all'altro sportello rivolgendosi ai popolani e cercando di blandirli con parole accorte, promettendo cioè pane e giustizia, nonché di portare il vicario alle prigioni dove sarà castigato. Ogni tanto, tuttavia, si volta verso l'interno e parla in spagnolo al vicario, spiegandogli che dice quelle cose solo per rabbonire i rivoltosi: così facendo riesce a tenere a bada la folla e intanto la carrozza si allontana dal cuore del tumulto, raggiungendo infine i soldati spagnoli che sono rimasti inerti e che rappresentano per il cancelliere una sorta di "soccorso di Pisa". L'uomo politico risponde con ironia al saluto dell'ufficiale in comando, che capisce di essere in torto e si stringe nelle spalle, quindi il cocchiere Pedro si rianima alla vista delle armi dei "micheletti" e sprona a dovere i cavalli, facendo imboccare alla carrozza la strada che conduce al Castello Sforzesco.
Ferrer esorta il vicario a rialzarsi, dal momento che il pericolo è cessato, così il funzionario si rianima e inizia a coprire di ringraziamenti il suo salvatore: il gran cancelliere è in realtà preoccupato degli sviluppi della vicenda, nonché delle reazioni del governatore di Milano, don Gonzalo de Cordoba, del primo ministro conte duca di Olivares, del re di Spagna, di fronte allo sconquasso provocato dalla rivolta di quella giornata. Dal canto suo il vicario esprime il proposito di dimettersi dalla sua carica e di ritirarsi in una grotta o sulla cima di una montagna, lontano dalla folla inferocita dei Milanesi, ma il Ferrer gli risponde con tono grave che lui dovrà fare ciò che sarà più conveniente per il servizio al re, benché il vicario non sembri molto convinto di questa affermazione. La carrozza raggiunge il Castello Sforzesco e l'anonimo non dice quale sia poi il destino del vicario di Provvisione.
Ferrer esorta il vicario a rialzarsi, dal momento che il pericolo è cessato, così il funzionario si rianima e inizia a coprire di ringraziamenti il suo salvatore: il gran cancelliere è in realtà preoccupato degli sviluppi della vicenda, nonché delle reazioni del governatore di Milano, don Gonzalo de Cordoba, del primo ministro conte duca di Olivares, del re di Spagna, di fronte allo sconquasso provocato dalla rivolta di quella giornata. Dal canto suo il vicario esprime il proposito di dimettersi dalla sua carica e di ritirarsi in una grotta o sulla cima di una montagna, lontano dalla folla inferocita dei Milanesi, ma il Ferrer gli risponde con tono grave che lui dovrà fare ciò che sarà più conveniente per il servizio al re, benché il vicario non sembri molto convinto di questa affermazione. La carrozza raggiunge il Castello Sforzesco e l'anonimo non dice quale sia poi il destino del vicario di Provvisione.
Temi principali e collegamenti
- Il capitolo è dedicato ancora alla descrizione del tumulto del giorno di S. Martino (come il XII che ne ha spiegato l'origine e le cause) e mostra l'assalto della folla inferocita alla casa del vicario di Provvisione, accusato a torto di essere responsabile della carestia: l'episodio è storico e l'autore si è forse ispirato a quello analogo avvenuto a Milano nel 1814, quando la folla assalì la casa del ministro delle Finanze nel governo vicereale francese, Giuseppe Prina (a differenza del vicario, Prina venne ucciso). Manzoni sottolinea l'insensato modo di agire della folla, che accusa il vicario di colpe non sue e acclama invece il Ferrer che è il vero responsabile della rabbia popolare, e che è pronta a dividersi in opposte fazioni se opportunamente sollecitata da chi è fautore di un partito o di quello opposto (il riferimento, fin troppo ovvio, è ad analoghi episodi verificatisi durante la Rivoluzione francese). L'ironia del romanziere è a tratti impietosa, come quando paragona la lunga scala portata a spalle dai rivoltosi a una "macchina" da assedio con la citazione indiretta addirittura dell'Eneide, per indicare la sproporzione tra l'assalto a una città e l'azione disordinata dei tumultuanti.
- Il "vecchio mal vissuto" che vuole inchiodare il vicario alla porta, la cui "canizie vituperosa" è in certo modo opposta alla "decorosa vecchiezza" di Ferrer, suscita la viva riprovazione di Renzo che rifiuta l'idea di commettere un omicidio e che, per questo, rischia di essere a sua volta linciato dalla folla (ciò sottolinea ancora una volta l'indole aliena dalla violenza del giovane, come durante il suo monologo interiore del cap. II, dopo aver appreso delle minacce di don Rodrigo al curato). Renzo, che aiuta Ferrer a passare in carrozza in mezzo alla folla, lo considera un "galantuomo" e pensa quasi di aver acquisito dei meriti nei suoi confronti, tanto che nel cap. XV chiederà al notaio criminale di essere condotto dal gran cancelliere.
- Il gran cancelliere Antonio Ferrer fa in questo capitolo la sua unica apparizione diretta nel romanzo, impegnato nel salvataggio del vicario di Provvisione che è nei guai anche per colpa sua: il funzionario di Stato in un certo senso si riscatta e la sua azione non è priva di coraggio, anche se la sua figura è descritta in modo negativo specie nel modo in cui inganna i rivoltosi con la sua doppia parola (si veda oltre). Nel Fermo e Lucia l'episodio era in gran parte simile, con la differenza che il Ferrer non alternava spagnolo e italiano, mentre alla fine l'autore aggiungeva una breve digressione con cui condannava in modo esplicito la condotta dell'uomo politico (cfr. il brano Il salvataggio del vicario).
- Il cocchiere Pedro è uno dei "bozzetti" più felici del romanzo e la sua breve comparsa in questo episodio è una sorta di intermezzo comico nel contesto serissimo della rivolta: è quasi la controfigura ridicola del suo padrone, per cui si rivolge rispettoso e pieno di ossequio alla folla quando questa è ancora minacciosa, mentre torna ad assumere toni burberi nel momento in cui la carrozza è al sicuro e protetta dai "micheletti" (analogo atteggiamento è quello assunto dal Ferrer, come si è visto). La frase "Adelante, Pedro, con juicio" ("Avanti, Pedro, con prudenza") pronunciata dal gran cancelliere è rimasta famosa e passata quasi in proverbio.
- Renzo ricorda di aver letto la firma di Ferrer in calce alla grida letta dall'Azzecca-garbugli nel cap. III, quindi chiede ingenuamente alla folla se si tratta di colui "che aiuta a far le gride" (in realtà il cancelliere le siglava soltanto come prescriveva la sua alta carica). Anche per questo il giovane contadino si convince che Ferrer sia un "galantuomo" e lo citerà più volte come esempio di giustizia e benefattore del popolo nel suo improvvisato discorso all'inizio del cap. XIV.
Ferrer, ovvero l'ambiguità del linguaggio del potere
G. Previati, La carrozza di Ferrer
Nei Promessi sposi i personaggi che esercitano il potere politico sono spesso oggetto di una critica impietosa, accusati di essere degli sciocchi incompetenti e incapaci di ricoprire gli incarichi loro affidati (ciò emerge soprattutto nel periodo della peste), oppure di agire in modo subdolo e menzognero, abili a dissimulare le loro vere intenzioni usando un linguaggio pieno di ambiguità (in questo acquista grande rilievo la questione della lingua e della sua comprensibilità da parte del popolo). Benché siano diversi i personaggi illustri che nel romanzo assumono questo ruolo spiacevole, l'esempio più significativo è certo quello del gran cancelliere Antonio Ferrer, protagonista del cap. XIII quando si reca in carrozza a trarre in salvo il vicario di Provvisione, assediato dalla folla durante il tumulto di S. Martino: la situazione è già di per sé grottesca, in quanto Ferrer è il vero responsabile della sommossa a causa della scriteriata decisione di imporre un calmiere sul prezzo del pane (mentre il vicario è ovviamente incolpevole della carestia e del rincaro, nonostante i rivoltosi vogliano linciarlo) e tuttavia la folla lo acclama come un benefattore del popolo e lo accoglie con grandissimo favore, con un rovesciamento delle parti che suona ridicolo e decisamente parodico. Il gran cancelliere è abile a sfruttare la popolarità che gode tra i Milanesi e se ne serve per rabbonire la folla, pronunciando parole-chiave che sa essere gradite alla moltitudine ("pane", "giustizia"...) e promettendo falsamente di portare in carcere il vicario, mentre è ovvio che il suo intento è solo di trarlo in salvo e, infatti, si affretta a precisare che il funzionario sarà castigato "si es culpable" (se è colpevole), usando una doppia parola e un doppio linguaggio che ingannano i rivoltosi (la stessa cosa aveva fatto don Abbondio parlando in latino a Renzo, nel cap. II). Benché il fine di Ferrer sia nobile e giustificato dall'autore, che non ha certo simpatia per i moti popolari, tuttavia la sua figura è descritta con tratti decisamente negativi e il funzionario è mostrato come un consumato commediante abile a catturare il favore del popolo, che assiste come un pubblico alla sua eccellente performance e si lascia abbindolare dalla sua verve di attore improvvisato: per tutto l'episodio è evidente che Ferrer recita una parte a beneficio di chi lo osserva e lo ascolta, mostrando "un viso tutto umile, tutto ridente, tutto amoroso... che aveva tenuto sempre in serbo per quando si trovasse alla presenza di don Filippo IV" e usando anche una ricca gestualità per ottenere l'appoggio della folla, ad esempio mimando il gesto di inviare baci o mettendo la mano al petto per assumere un'aria di grave solennità.
L'autore crea una situazione da "commedia" pur nel contesto tragico del tumulto, che raggiunge il suo culmine quando Ferrer scende dalla carrozza e riceve le acclamazioni delle due ali di folla festante, come un attore che prende l'applauso del pubblico dopo uno spettacolo: anche più avanti il gran cancelliere è protagonista di un grottesco siparietto, allorché dalla carrozza si rivolge in italiano alla folla promettendo castighi per il vicario e al contempo, come in una specie di buffo a parte, si rivolge al vicario nascosto precisando in spagnolo che dice questo solo per rabbonire il popolo, per il suo bene, chiedendogli scusa per le minacce che è costretto a proferire. Quando invece è lontano dallo sguardo dei rivoltosi egli mostra il suo vero volto, manifestando una natura ben più misera e meschina dell'immagine solenne dell'uomo di Stato con cui si è presentato alla folla: nel momento in cui entra nella casa del vicario si preoccupa ridicolmente che la toga, simbolo del suo potere politico, non resti pizzicata in mezzo ai battenti, mentre quando sguscia all'interno della casa e il lembo della veste scompare dietro di lui, essa è paragonata alla coda "d’una serpe, che si rimbuca inseguita", sottolineando la natura menzognera e ambigua dell'uomo politico (il serpente è anche simbolo demoniaco ed è normalmente associato alla falsità e all'ipocrisia). E alla fine, quando ormai la carrozza è al sicuro e protetta dalle armi dei soldati che non hanno offerto alcun aiuto concreto, Ferrer getta una volta per tutte la maschera e torna a indossare i panni dell'uomo di Stato e del politico che parla il linguaggio del potere, rispondendo con frasi di scherno all'ufficiale che non ha saputo intervenire nella sommossa ("Bacio le mani a vossignoria", in spagnolo) ed esprimendo i suoi timori circa la reazione dei suoi superiori per i disordini della sommossa, citando in un "crescendo" il governatore dello Stato, il primo ministro spagnolo, il re e Dio stesso (è chiaro che ciò che gli sta a cuore è la sua carriera politica e le conseguenze che su di essa potranno avere i fatti della giornata, non certo le ragioni profonde del disagio subìto dal popolo e di cui lui stesso è in parte responsabile). Quando poi il povero vicario, ancora terrorizzato dalla brutta avventura che ha vissuto, manifesta il proposito di dimettersi dalla carica e di rifugiarsi in un luogo lontano da quella "gente bestiale", Ferrer gli risponde con la freddezza del funzionario di Stato ricordandogli che lui dovrà fare ciò che sarà più conveniente "por el servicio de su magestad", poiché ormai si è riappropriato del ruolo che gli compete e si dimostra quindi ben diverso dal Ferrer benevolo e cordiale quale si era presentato al popolo poco prima (il linguaggio della politica è dunque un linguaggio doppio e ambiguo, così come l'atteggiamento dell'uomo di Stato deve necessariamente essere falso e adattarsi alle diverse situazioni, abile nell'arte della simulazione e della dissimulazione).
Va ricordato che la critica al mondo del potere è uno dei temi portanti del libro e si esprime anche in altri celebri episodi, come il colloquio tra il conte zio e il padre provinciale dei cappuccini (cap. XIX) che ha come fine l'allontanamento di padre Cristoforo da Pescarenico: anche qui l'uomo politico usa tutte le tecniche di un raffinato commediante per ottenere il suo scopo, benché il suo interlocutore non sia la folla in tumulto della sommossa di Milano ma un alto prelato che appartiene al suo stesso mondo ed è dunque sensibile agli argomenti del suo linguaggio (il dialogo si svolge quindi su un piano retorico e stilistico decisamente più elevato, anche se l'atteggiamento del conte è per certi versi analogo a quello di Ferrer). La critica di Manzoni si concentra sull'arte della politica e del potere del XVII secolo, in cui grande spazio aveva il concetto di simulazione e veniva teorizzato l'ideale della "ragion di Stato", ma è evidente che l'autore condanna l'uso distorto del potere e del suo linguaggio indipendentemente dall'epoca della narrazione e, dunque, rende il discorso per certi versi "universale": non si dimentichi che la stessa critica emerge anche nelle tragedie, ambientate entrambe in epoche ben diverse dal romanzo, e che lo stesso anonimo nel manoscritto accenna ai "Labirinti de’ Politici maneggj", lasciando intendere che parte della narrazione sarà proprio dedicata ai raggiri e ai sotterfugi che sono naturalmente propri di chi esercita il potere (Ferrer e il conte zio ne sono due importanti esempi, per cui è giustificato considerare i Promessi sposi una sorta di "romanzo del potere" in cui le strategie degli uomini di Stato vengono svelate e mostrate al lettore nella loro essenza, specie quando il fine è quello di ingannare il popolo con un uso distorto del linguaggio).
L'autore crea una situazione da "commedia" pur nel contesto tragico del tumulto, che raggiunge il suo culmine quando Ferrer scende dalla carrozza e riceve le acclamazioni delle due ali di folla festante, come un attore che prende l'applauso del pubblico dopo uno spettacolo: anche più avanti il gran cancelliere è protagonista di un grottesco siparietto, allorché dalla carrozza si rivolge in italiano alla folla promettendo castighi per il vicario e al contempo, come in una specie di buffo a parte, si rivolge al vicario nascosto precisando in spagnolo che dice questo solo per rabbonire il popolo, per il suo bene, chiedendogli scusa per le minacce che è costretto a proferire. Quando invece è lontano dallo sguardo dei rivoltosi egli mostra il suo vero volto, manifestando una natura ben più misera e meschina dell'immagine solenne dell'uomo di Stato con cui si è presentato alla folla: nel momento in cui entra nella casa del vicario si preoccupa ridicolmente che la toga, simbolo del suo potere politico, non resti pizzicata in mezzo ai battenti, mentre quando sguscia all'interno della casa e il lembo della veste scompare dietro di lui, essa è paragonata alla coda "d’una serpe, che si rimbuca inseguita", sottolineando la natura menzognera e ambigua dell'uomo politico (il serpente è anche simbolo demoniaco ed è normalmente associato alla falsità e all'ipocrisia). E alla fine, quando ormai la carrozza è al sicuro e protetta dalle armi dei soldati che non hanno offerto alcun aiuto concreto, Ferrer getta una volta per tutte la maschera e torna a indossare i panni dell'uomo di Stato e del politico che parla il linguaggio del potere, rispondendo con frasi di scherno all'ufficiale che non ha saputo intervenire nella sommossa ("Bacio le mani a vossignoria", in spagnolo) ed esprimendo i suoi timori circa la reazione dei suoi superiori per i disordini della sommossa, citando in un "crescendo" il governatore dello Stato, il primo ministro spagnolo, il re e Dio stesso (è chiaro che ciò che gli sta a cuore è la sua carriera politica e le conseguenze che su di essa potranno avere i fatti della giornata, non certo le ragioni profonde del disagio subìto dal popolo e di cui lui stesso è in parte responsabile). Quando poi il povero vicario, ancora terrorizzato dalla brutta avventura che ha vissuto, manifesta il proposito di dimettersi dalla carica e di rifugiarsi in un luogo lontano da quella "gente bestiale", Ferrer gli risponde con la freddezza del funzionario di Stato ricordandogli che lui dovrà fare ciò che sarà più conveniente "por el servicio de su magestad", poiché ormai si è riappropriato del ruolo che gli compete e si dimostra quindi ben diverso dal Ferrer benevolo e cordiale quale si era presentato al popolo poco prima (il linguaggio della politica è dunque un linguaggio doppio e ambiguo, così come l'atteggiamento dell'uomo di Stato deve necessariamente essere falso e adattarsi alle diverse situazioni, abile nell'arte della simulazione e della dissimulazione).
Va ricordato che la critica al mondo del potere è uno dei temi portanti del libro e si esprime anche in altri celebri episodi, come il colloquio tra il conte zio e il padre provinciale dei cappuccini (cap. XIX) che ha come fine l'allontanamento di padre Cristoforo da Pescarenico: anche qui l'uomo politico usa tutte le tecniche di un raffinato commediante per ottenere il suo scopo, benché il suo interlocutore non sia la folla in tumulto della sommossa di Milano ma un alto prelato che appartiene al suo stesso mondo ed è dunque sensibile agli argomenti del suo linguaggio (il dialogo si svolge quindi su un piano retorico e stilistico decisamente più elevato, anche se l'atteggiamento del conte è per certi versi analogo a quello di Ferrer). La critica di Manzoni si concentra sull'arte della politica e del potere del XVII secolo, in cui grande spazio aveva il concetto di simulazione e veniva teorizzato l'ideale della "ragion di Stato", ma è evidente che l'autore condanna l'uso distorto del potere e del suo linguaggio indipendentemente dall'epoca della narrazione e, dunque, rende il discorso per certi versi "universale": non si dimentichi che la stessa critica emerge anche nelle tragedie, ambientate entrambe in epoche ben diverse dal romanzo, e che lo stesso anonimo nel manoscritto accenna ai "Labirinti de’ Politici maneggj", lasciando intendere che parte della narrazione sarà proprio dedicata ai raggiri e ai sotterfugi che sono naturalmente propri di chi esercita il potere (Ferrer e il conte zio ne sono due importanti esempi, per cui è giustificato considerare i Promessi sposi una sorta di "romanzo del potere" in cui le strategie degli uomini di Stato vengono svelate e mostrate al lettore nella loro essenza, specie quando il fine è quello di ingannare il popolo con un uso distorto del linguaggio).
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(voce narrante di Silvia Cecchini).
Capitolo XIII
Lo sventurato vicario stava, in quel momento, facendo un chilo agro e stentato d’un desinare biascicato senza appetito [1], e senza pan fresco, e attendeva, con gran sospensione [2], come avesse a finire quella burrasca, lontano però dal sospettar che dovesse cader così spaventosamente addosso a lui. Qualche galantuomo precorse di galoppo la folla, per avvertirlo di quel che gli sovrastava. I servitori, attirati già dal rumore sulla porta, guardavano sgomentati lungo la strada, dalla parte donde il rumore veniva avvicinandosi. Mentre ascoltan l’avviso, vedon comparire la vanguardia: in fretta e in furia, si porta l’avviso al padrone: mentre questo pensa a fuggire, e come fuggire, un altro viene a dirgli che non è più a tempo. I servitori ne hanno appena tanto che basti per chiuder la porta. Metton la stanga, metton puntelli, corrono a chiuder le finestre, come quando si vede venire avanti un tempo nero, e s’aspetta la grandine, da un momento all’altro. L’urlìo crescente, scendendo dall’alto come un tuono, rimbomba nel vòto cortile; ogni buco della casa ne rintrona: e di mezzo al vasto e confuso strepito, si senton forti e fitti colpi di pietre alla porta.
- Il vicario! Il tiranno! L’affamatore! Lo vogliamo! vivo o morto! Il meschino girava di stanza in stanza, pallido, senza fiato, battendo palma a palma, raccomandandosi a Dio, e a’ suoi servitori, che tenessero fermo, che trovassero la maniera di farlo scappare. Ma come, e di dove? Salì in soffitta; da un pertugio, guardò ansiosamente nella strada, e la vide piena zeppa di furibondi; sentì le voci che chiedevan la sua morte; e più smarrito che mai, si ritirò, e andò a cercare il più sicuro e riposto nascondiglio. Lì rannicchiato, stava attento, attento, se mai il funesto rumore s’affievolisse, se il tumulto s’acquietasse un poco; ma sentendo in vece il muggito alzarsi più feroce e più rumoroso, e raddoppiare i picchi, preso da un nuovo soprassalto al cuore, si turava gli orecchi in fretta. Poi, come fuori di sé, stringendo i denti, e raggrinzando il viso, stendeva le braccia, e puntava i pugni, come se volesse tener ferma la porta... Del resto, quel che facesse precisamente non si può sapere, giacché era solo; e la storia è costretta a indovinare. Fortuna che c’è avvezza [3]. Renzo, questa volta, si trovava nel forte del tumulto, non già portatovi dalla piena, ma cacciatovisi deliberatamente. A quella prima proposta di sangue, aveva sentito il suo rimescolarsi tutto: in quanto al saccheggio, non avrebbe saputo dire se fosse bene o male in quel caso; ma l’idea dell’omicidio gli cagionò un orrore pretto e immediato. E quantunque, per quella funesta docilità degli animi appassionati all’affermare appassionato di molti, fosse persuasissimo che il vicario era la cagion principale della fame, il nemico de’ poveri, pure, avendo, al primo moversi della turba, sentita a caso qualche parola che indicava la volontà di fare ogni sforzo per salvarlo, s’era subito proposto d’aiutare anche lui un’opera tale; e, con quest’intenzione, s’era cacciato, quasi fino a quella porta, che veniva travagliata in cento modi. Chi con ciottoli picchiava su’ chiodi della serratura, per isconficcarla; altri, con pali e scarpelli e martelli, cercavano di lavorar più in regola: altri poi, con pietre, con coltelli spuntati, con chiodi, con bastoni, con l’unghie, non avendo altro, scalcinavano e sgretolavano il muro, e s’ingegnavano di levare i mattoni, e fare una breccia. Quelli che non potevano aiutare, facevan coraggio con gli urli; ma nello stesso tempo, con lo star lì a pigiare, impicciavan di più il lavoro già impicciato dalla gara disordinata de’ lavoranti: giacché, per grazia del cielo, accade talvolta anche nel male quella cosa troppo frequente nel bene, che i fautori più ardenti divengano un impedimento. I magistrati ch’ebbero i primi l’avviso di quel che accadeva, spediron subito a chieder soccorso al comandante del castello, che allora si diceva di porta Giovia [4]; il quale mandò alcuni soldati. Ma, tra l’avviso, e l’ordine, e il radunarsi, e il mettersi in cammino, e il cammino, essi arrivarono che la casa era già cinta di vasto assedio; e fecero alto [5] lontano da quella, all’estremità della folla. L’ufiziale che li comandava, non sapeva che partito prendere. Lì non era altro che una, lasciatemi dire, accozzaglia di gente varia d’età e di sesso, che stava a vedere. All’intimazioni che gli venivan fatte, di sbandarsi, e di dar luogo, rispondevano con un cupo e lungo mormorìo; nessuno si moveva. Far fuoco sopra quella ciurma, pareva all’ufiziale cosa non solo crudele, ma piena di pericolo; cosa che, offendendo i meno terribili, avrebbe irritato i molti violenti: e del resto, non aveva una tale istruzione. Aprire quella prima folla, rovesciarla a destra e a sinistra, e andare avanti a portar la guerra a chi la faceva, sarebbe stata la meglio; ma riuscirvi, lì stava il punto. Chi sapeva se i soldati avrebber potuto avanzarsi uniti e ordinati? Che se, in vece di romper la folla, si fossero sparpagliati loro tra quella, si sarebber trovati a sua discrezione, dopo averla aizzata. L’irresolutezza del comandante e l’immobilità de’ soldati parve, a diritto o a torto, paura. La gente che si trovavan vicino a loro, si contentavano di guardargli in viso, con un’aria, come si dice, di me n’impipo [6]; quelli ch’erano un po’ più lontani, non se ne stavano [7] di provocarli, con visacci e con grida di scherno; più in là, pochi sapevano o si curavano che ci fossero; i guastatori seguitavano a smurare, senz’altro pensiero che di riuscir presto nell’impresa; gli spettatori non cessavano d’animarla con gli urli. Spiccava tra questi, ed era lui stesso spettacolo, un vecchio mal vissuto, che, spalancando due occhi affossati e infocati, contraendo le grinze a un sogghigno di compiacenza diabolica, con le mani alzate sopra una canizie vituperosa, agitava in aria un martello, una corda, quattro gran chiodi, con che diceva di volere attaccare il vicario a un battente della sua porta, ammazzato che fosse. - Oibò! vergogna! - scappò fuori Renzo, inorridito a quelle parole, alla vista di tant’altri visi che davan segno d’approvarle, e incoraggito dal vederne degli altri, sui quali, benché muti, traspariva lo stesso orrore del quale era compreso lui. - Vergogna! Vogliam noi rubare il mestiere al boia? assassinare un cristiano? Come volete che Dio ci dia del pane, se facciamo di queste atrocità? Ci manderà de’ fulmini, e non del pane! - Ah cane! ah traditor della patria! - gridò, voltandosi a Renzo, con un viso da indemoniato, un di coloro che avevan potuto sentire tra il frastono quelle sante parole. - Aspetta, aspetta! È un servitore del vicario, travestito da contadino: è una spia: dàlli, dàlli! - Cento voci si spargono all’intorno. - Cos’è? dov’è? chi è? Un servitore del vicario. Una spia. Il vicario travestito da contadino, che scappa. Dov’è? dov’è? dàlli, dàlli! Renzo ammutolisce, diventa piccino piccino, vorrebbe sparire; alcuni suoi vicini lo prendono in mezzo; e con alte e diverse grida cercano di confondere quelle voci nemiche e omicide. Ma ciò che più di tutto lo servì fu un - largo, largo, - che si sentì gridar lì vicino: - largo! è qui l’aiuto: largo, ohe! Cos’era? Era una lunga scala a mano, che alcuni portavano, per appoggiarla alla casa, e entrarci da una finestra. Ma per buona sorte, quel mezzo, che avrebbe resa la cosa facile, non era facile esso a mettere in opera. I portatori, all’una e all’altra cima, e di qua e di là della macchina [8], urtati, scompigliati, divisi dalla calca, andavano a onde: uno, con la testa tra due scalini, e gli staggi [9] sulle spalle, oppresso come sotto un giogo scosso, mugghiava; un altro veniva staccato dal carico con una spinta; la scala abbandonata picchiava spalle, braccia, costole: pensate cosa dovevan dire coloro de’ quali erano. Altri sollevano con le mani il peso morto, vi si caccian sotto, se lo mettono addosso, gridando: - animo! andiamo! - La macchina fatale [10] s’avanza balzelloni, e serpeggiando. Arrivò a tempo a distrarre e a disordinare i nemici di Renzo, il quale profittò della confusione nata nella confusione; e, quatto quatto sul principio, poi giocando di gomita a più non posso, s’allontanò da quel luogo, dove non c’era buon’aria per lui, con l’intenzione anche d’uscire, più presto che potesse, dal tumulto, e d’andar davvero a trovare o a aspettare il padre Bonaventura. Tutt’a un tratto, un movimento straordinario cominciato a una estremità, si propaga per la folla, una voce si sparge, viene avanti di bocca in bocca: - Ferrer! Ferrer! - Una maraviglia, una gioia, una rabbia, un’inclinazione, una ripugnanza, scoppiano per tutto dove arriva quel nome; chi lo grida, chi vuol soffogarlo; chi afferma, chi nega, chi benedice, chi bestemmia. - È qui Ferrer! - Non è vero, non è vero! - Sì, sì; viva Ferrer! quello che ha messo il pane a buon mercato. - No, no! - E qui, è qui in carrozza. - Cosa importa? che c’entra lui? non vogliamo nessuno! - Ferrer! viva Ferrer! l’amico della povera gente! viene per condurre in prigione il vicario. - No, no: vogliamo far giustizia noi: indietro, indietro! - Sì, sì: Ferrer! venga Ferrer! in prigione il vicario! E tutti, alzandosi in punta di piedi, si voltano a guardare da quella parte donde s’annunziava l’inaspettato arrivo. Alzandosi tutti, vedevano né più né meno che se fossero stati tutti con le piante in terra; ma tant’è, tutti s’alzavano. In fatti, all’estremità della folla, dalla parte opposta a quella dove stavano i soldati, era arrivato in carrozza Antonio Ferrer, il gran cancelliere; il quale, rimordendogli probabilmente la coscienza d’essere co’ suoi spropositi e con la sua ostinazione, stato causa, o almeno occasione di quella sommossa, veniva ora a cercar d’acquietarla, e d’impedirne almeno il più terribile e irreparabile effetto: veniva a spender bene una popolarità mal acquistata. Ne’ tumulti popolari c’è sempre un certo numero d’uomini che, o per un riscaldamento di passione, o per una persuasione fanatica, o per un disegno scellerato, o per un maledetto gusto del soqquadro, fanno di tutto per ispinger le cose al peggio; propongono o promovono i più spietati consigli, soffian nel fuoco ogni volta che principia a illanguidire: non è mai troppo per costoro; non vorrebbero che il tumulto avesse né fine né misura. Ma per contrappeso, c’è sempre anche un certo numero d’altri uomini che, con pari ardore e con insistenza pari, s’adoprano per produr l’effetto contrario: taluni mossi da amicizia o da parzialità per le persone minacciate; altri senz’altro impulso che d’un pio e spontaneo orrore del sangue e de’ fatti atroci. Il cielo li benedica. In ciascuna di queste due parti opposte, anche quando non ci siano concerti [11] antecedenti, l’uniformità de’ voleri crea un concerto istantaneo nell’operazioni. Chi forma poi la massa, e quasi il materiale del tumulto, è un miscuglio accidentale d’uomini, che, più o meno, per gradazioni indefinite, tengono dell’uno e dell’altro estremo: un po’ riscaldati, un po’ furbi, un po’ inclinati a una certa giustizia, come l’intendon loro, un po’ vogliosi di vederne qualcheduna grossa, pronti alla ferocia e alla misericordia, a detestare e ad adorare, secondo che si presenti l’occasione di provar con pienezza l’uno o l’altro sentimento; avidi ogni momento di sapere, di credere qualche cosa grossa, bisognosi di gridare, d’applaudire a qualcheduno, o d’urlargli dietro. Viva e moia, son le parole che mandan fuori più volentieri; e chi è riuscito a persuaderli che un tale non meriti d’essere squartato, non ha bisogno di spender più parole per convincerli che sia degno d’esser portato in trionfo: attori, spettatori, strumenti, ostacoli, secondo il vento; pronti anche a stare zitti, quando non sentan più grida da ripetere, a finirla, quando manchino gl’istigatori, a sbandarsi, quando molte voci concordi e non contraddette abbiano detto: andiamo; e a tornarsene a casa, domandandosi l’uno con l’altro: cos’è stato? Siccome però questa massa, avendo la maggior forza, la può dare a chi vuole, così ognuna delle due parti attive usa ogni arte per tirarla dalla sua, per impadronirsene: sono quasi due anime nemiche, che combattono per entrare in quel corpaccio, e farlo movere. Fanno a chi saprà sparger le voci più atte a eccitar le passioni, a dirigere i movimenti a favore dell’uno o dell’altro intento; a chi saprà più a proposito trovare le nuove che riaccendano gli sdegni, o gli affievoliscano, risveglino le speranze o i terrori; a chi saprà trovare il grido, che ripetuto dai più e più forte, esprima, attesti e crei nello stesso tempo il voto della pluralità, per l’una o per l’altra parte. Tutta questa chiacchierata s’è fatta per venire a dire che, nella lotta tra le due parti che si contendevano il voto della gente affollata alla casa del vicario, l’apparizione d’Antonio Ferrer diede, quasi in un momento, un gran vantaggio alla parte degli umani, la quale era manifestamente al di sotto, e, un po’ più che quel soccorso fosse tardato, non avrebbe avuto più, né forza, né motivo di combattere. L’uomo era gradito alla moltitudine, per quella tariffa di sua invenzione così favorevole a’ compratori, e per quel suo eroico star duro contro ogni ragionamento in contrario. Gli animi già propensi erano ora ancor più innamorati dalla fiducia animosa del vecchio che, senza guardie, senza apparato, veniva così a trovare, ad affrontare una moltitudine irritata e procellosa. Faceva poi un effetto mirabile il sentire che veniva a condurre in prigione il vicario: così il furore contro costui, che si sarebbe scatenato peggio, chi l’avesse preso con le brusche, e non gli avesse voluto conceder nulla, ora, con quella promessa di soddisfazione, con quell’osso in bocca, s’acquietava un poco, e dava luogo agli altri opposti sentimenti, che sorgevano in una gran parte degli animi. I partigiani della pace, ripreso fiato, secondavano Ferrer in cento maniere: quelli che si trovavan vicini a lui, eccitando e rieccitando col loro il pubblico applauso, e cercando insieme di far ritirare la gente, per aprire il passo alla carrozza; gli altri, applaudendo, ripetendo e facendo passare le sue parole, o quelle che a lor parevano le migliori che potesse dire, dando sulla voce ai furiosi ostinati, e rivolgendo contro di loro la nuova passione della mobile adunanza. - Chi è che non vuole che si dica: viva Ferrer? Tu non vorresti eh, che il pane fosse a buon mercato? Son birboni che non vogliono una giustizia da cristiani: e c’è di quelli che schiamazzano più degli altri, per fare scappare il vicario. In prigione il vicario! Viva Ferrer! Largo a Ferrer! - E crescendo sempre più quelli che parlavan così, s’andava a proporzione abbassando la baldanza della parte contraria; di maniera che i primi dal predicare vennero anche a dar sulle mani a quelli che diroccavano ancora, a cacciarli indietro, a levar loro dall’unghie gli ordigni. Questi fremevano, minacciavano anche, cercavan di rifarsi; ma la causa del sangue era perduta: il grido che predominava era: prigione, giustizia, Ferrer! Dopo un po’ di dibattimento, coloro furon respinti: gli altri s’impadroniron della porta, e per tenerla difesa da nuovi assalti, e per prepararvi l’adito a Ferrer; e alcuno di essi, mandando dentro una voce a quelli di casa (fessure non ne mancava), gli avvisò che arrivava soccorso, e che facessero star pronto il vicario, - per andar subito... in prigione: ehm, avete inteso? - È quel Ferrer che aiuta a far le gride? - domandò a un nuovo vicino il nostro Renzo, che si rammentò del vidit Ferrer che il dottore gli aveva gridato all’orecchio, facendoglielo vedere in fondo di quella tale. - Già: il gran cancelliere - gli fu risposto. - È un galantuomo, n’è vero? - Eccome se è un galantuomo! è quello che aveva messo il pane a buon mercato; e gli altri non hanno voluto; e ora viene a condurre in prigione il vicario, che non ha fatto le cose giuste. Non fa bisogno di dire che Renzo fu subito per Ferrer. Volle andargli incontro addirittura: la cosa non era facile; ma con certe sue spinte e gomitate da alpigiano, riuscì a farsi far largo, e a arrivare in prima fila, proprio di fianco alla carrozza. Era questa già un po’ inoltrata nella folla; e in quel momento stava ferma, per uno di quegl’incagli inevitabili e frequenti, in un’andata di quella sorte. Il vecchio Ferrer presentava ora all’uno, ora all’altro sportello, un viso tutto umile, tutto ridente, tutto amoroso, un viso che aveva tenuto sempre in serbo per quando si trovasse alla presenza di don Filippo IV [12]; ma fu costretto a spenderlo anche in quest’occasione. Parlava anche; ma il chiasso e il ronzlo di tante voci, gli evviva stessi che si facevano a lui, lasciavano ben poco e a ben pochi sentir le sue parole. S’aiutava dunque co’ gesti, ora mettendo la punta delle mani sulle labbra, a prendere un bacio che le mani, separandosi subito, distribuivano a destra e a sinistra in ringraziamento alla pubblica benevolenza; ora stendendole e movendole lentamente fuori d’uno sportello, per chiedere un po’ di luogo; ora abbassandole garbatamente, per chiedere un po’ di silenzio. Quando n’aveva ottenuto un poco, i più vicini sentivano e ripetevano le sue parole: - pane, abbondanza: vengo a far giustizia: un po’ di luogo di grazia -. Sopraffatto poi e come soffogato dal fracasso di tante voci, dalla vista di tanti visi fitti, di tant’occhi addosso a lui, si tirava indietro un momento, gonfiava le gote, mandava un gran soffio, e diceva tra sé: “por mi vida’ que de gente!” [13] - Viva Ferrer! Non abbia paura. Lei è un galantuomo. Pane, pane! - Sì; pane, pane, - rispondeva Ferrer: - abbondanza; lo prometto io, - e metteva la mano al petto. - Un po’ di luogo, - aggiungeva subito: - vengo per condurlo in prigione, per dargli il giusto gastigo che si merita: - e soggiungeva sottovoce: - si es culpable [14]-. Chinandosi poi innanzi verso il cocchiere, gli diceva in fretta: - adelante’ Pedro’ si puedes [15]. Il cocchiere sorrideva anche lui alla moltitudine, con una grazia affettuosa, come se fosse stato un gran personaggio; e con un garbo ineffabile, dimenava adagio adagio la frusta, a destra e a sinistra, per chiedere agl’incomodi vicini che si ristringessero e si ritirassero un poco. - Di grazia, - diceva anche lui, - signori miei, un po’ di luogo, un pochino; appena appena da poter passare. Intanto i benevoli più attivi s’adopravano a far fare il luogo chiesto così gentilmente. Alcuni davanti ai cavalli facevano ritirar le persone, con buone parole, con un mettere le mani sui petti, con certe spinte soavi: - in là, via, un po’ di luogo, signori -; alcuni facevan lo stesso dalle due parti della carrozza, perché potesse passare senza arrotar piedi, né ammaccar mostacci [16]; che, oltre il male delle persone, sarebbe stato porre a un gran repentaglio l’auge d’Antonio Ferrer. Renzo, dopo essere stato qualche momento a vagheggiare quella decorosa vecchiezza, conturbata un po’ dall’angustia, aggravata dalla fatica, ma animata dalla sollecitudine, abbellita, per dir così, dalla speranza di togliere un uomo all’angosce mortali, Renzo, dico, mise da parte ogni pensiero d’andarsene; e si risolvette d’aiutare Ferrer, e di non abbandonarlo, fin che non fosse ottenuto l’intento. Detto fatto, si mise con gli altri a far far largo; e non era certo de’ meno attivi. Il largo si fece; - venite pure avanti, - diceva più d’uno al cocchiere, ritirandosi o andando a fargli un po’ di strada più innanzi. - Adelante, presto, con juicio [17], - gli disse anche il padrone; e la carrozza si mosse. Ferrer, in mezzo ai saluti che scialacquava al pubblico in massa, ne faceva certi particolari di ringraziamento, con un sorriso d’intelligenza, a quelli che vedeva adoprarsi per lui: e di questi sorrisi ne toccò più d’uno a Renzo, il quale per verità se li meritava, e serviva in quel giorno il gran cancelliere meglio che non avrebbe potuto fare il più bravo de’ suoi segretari. Al giovane montanaro invaghito di quella buona grazia, pareva quasi d’aver fatto amicizia con Antonio Ferrer. La carrozza, una volta incamminata, seguitò poi, più o meno adagio, e non senza qualche altra fermatina. Il tragitto non era forse più che un tiro di schioppo; ma riguardo al tempo impiegatovi, avrebbe potuto parere un viaggetto, anche a chi non avesse avuto la santa fretta di Ferrer. La gente si moveva, davanti e di dietro, a destra e a sinistra della carrozza, a guisa di cavalloni intorno a una nave che avanza nel forte della tempesta. Più acuto, più scordato, più assordante di quello della tempesta era il frastono. Ferrer, guardando ora da una parte, ora dall’altra; atteggiandosi e gestendo insieme, cercava d’intender qualche cosa, per accomodar le risposte al bisogno; voleva far alla meglio un po’ di dialogo con quella brigata d’amici; ma la cosa era difficile, la più difficile forse che gli fosse ancora capitata, in tant’anni di gran-cancellierato. Ogni tanto però, qualche parola, anche qualche frase, ripetuta da un crocchio nel suo passaggio, gli si faceva sentire, come lo scoppio d’un razzo più forte si fa sentire nell’immenso scoppiettìo d’un fuoco artifiziale. E lui, ora ingegnandosi di rispondere in modo soddisfacente a queste grida, ora dicendo a buon conto le parole che sapeva dover esser più accette, o che qualche necessità istantanea pareva richiedere, parlò anche lui per tutta la strada. - Sì, signori; pane, abbondanza. Lo condurrò io in prigione: sarà gastigato... si es culpable. Sì, sì, comanderò io: il pane a buon mercato. Asi es... così è, voglio dire: il re nostro signore non vuole che codesti fedelissimi vassalli patiscan la fame. Ox! ox! guardaos [18]: non si facciano male, signori. Pedro’ adelante con juicio. Abbondanza, abbondanza. Un po’ di luogo, per carità. Pane, pane. In prigione, in prigione. Cosa? - domandava poi a uno che s’era buttato mezzo dentro lo sportello, a urlargli qualche suo consiglio o preghiera o applauso che fosse. Ma costui, senza poter neppure ricevere il “cosa?” era stato tirato indietro da uno che lo vedeva lì lì per essere schiacciato da una rota. Con queste botte e risposte, tra le incessanti acclamazioni, tra qualche fremito anche d’opposizione, che si faceva sentire qua e là, ma era subito soffogato, ecco alla fine Ferrer arrivato alla casa, per opera principalmente di que’ buoni ausiliari. Gli altri che, come abbiam detto, eran già lì con le medesime buone intenzioni, avevano intanto lavorato a fare e a rifare un po’ di piazza. Prega, esorta, minaccia; pigia, ripigia, incalza di qua e di là, con quel raddoppiare di voglia, e con quel rinnovamento di forze che viene dal veder vicino il fine desiderato; gli era finalmente riuscito di divider la calca in due, e poi di spingere indietro le due calche; tanto che, tra la porta e la carrozza, che vi si fermò davanti, v’era un piccolo spazio voto. Renzo, che, facendo un po’ da battistrada, un po’ da scorta, era arrivato con la carrozza, poté collocarsi in una di quelle due frontiere di benevoli, che facevano, nello stesso tempo, ala alla carrozza e argine alle due onde prementi di popolo. E aiutando a rattenerne una con le poderose sue spalle, si trovò anche in un bel posto per poter vedere. Ferrer mise un gran respiro, quando vide quella piazzetta libera, e la porta ancor chiusa. Chiusa qui vuol dire non aperta; del resto i gangheri eran quasi sconficcati fuor de’ pilastri: i battenti scheggiati, ammaccati, sforzati e scombaciati nel mezzo lasciavano veder fuori da un largo spiraglio un pezzo di catenaccio storto, allentato, e quasi divelto, che, se vogliam dir così, li teneva insieme. Un galantuomo s’era affacciato a quel fesso, a gridar che aprissero; un altro spalancò in fretta lo sportello della carrozza: il vecchio mise fuori la testa, s’alzò, e afferrando con la destra il braccio di quel galantuomo, uscì, e scese sul predellino. La folla, da una parte e dall’altra, stava tutta in punta di piedi per vedere: mille visi, mille barbe in aria: la curiosità e l’attenzione generale creò un momento di generale silenzio. Ferrer, fermatosi quel momento sul predellino, diede un’occhiata in giro, salutò con un inchino la moltitudine, come da un pulpito, e messa la mano sinistra al petto, gridò: - pane e giustizia -; e franco, diritto, togato, scese in terra, tra l’acclamazioni che andavano alle stelle. Intanto quelli di dentro avevano aperto, ossia avevan finito d’aprire, tirando via il catenaccio insieme con gli anelli già mezzi sconficcati, e allargando lo spiraglio, appena quanto bastava per fare entrare il desideratissimo ospite. - Presto, presto, - diceva lui: - aprite bene, ch’io possa entrare: e voi, da bravi, tenete indietro la gente; non mi lasciate venire addosso... per l’amor del cielo! Serbate un po’ di largo per tra poco. Ehi! ehi! signori, un momento, - diceva poi ancora a quelli di dentro: - adagio con quel battente, lasciatemi passare: eh! le mie costole; vi raccomando le mie costole. Chiudete ora: no; eh! eh! la toga! la toga! - Sarebbe in fatti rimasta presa tra i battenti, se Ferrer non n’avesse ritirato con molta disinvoltura lo strascico, che disparve come la coda d’una serpe, che si rimbuca inseguita. Riaccostati i battenti, furono anche riappuntellati alla meglio. Di fuori, quelli che s’eran costituiti guardia del corpo di Ferrer, lavoravano di spalle, di braccia e di grida, a mantener la piazza vota, pregando in cuor loro il Signore che lo facesse far presto. - Presto, presto, - diceva anche Ferrer di dentro, sotto il portico, ai servitori, che gli si eran messi d’intorno ansanti, gridando: - sia benedetto! ah eccellenza! oh eccellenza! uh eccellenza! - Presto, presto, - ripeteva Ferrer: - dov’è questo benedett’uomo? Il vicario scendeva le scale, mezzo strascicato e mezzo portato da altri suoi servitori, bianco come un panno lavato. Quando vide il suo aiuto, mise un gran respiro; gli tornò il polso, gli scorse un po’ di vita nelle gambe, un po’ di colore sulle gote; e corse, come poté, verso Ferrer, dicendo: - sono nelle mani di Dio e di vostra eccellenza. Ma come uscir di qui? Per tutto c’è gente che mi vuol morto. - Venga usted con migo [19], e si faccia coraggio: qui fuori c’è la mia carrozza; presto, presto -. Lo prese per la mano, e lo condusse verso la porta, facendogli coraggio tuttavia; ma diceva intanto tra sé: “aqui està el busilis; Dios nos valga!” [20] La porta s’apre; Ferrer esce il primo; l’altro dietro, rannicchiato, attaccato, incollato alla toga salvatrice, come un bambino alla sottana della mamma. Quelli che avevan mantenuta la piazza vota, fanno ora, con un alzar di mani, di cappelli, come una rete, una nuvola, per sottrarre alla vista pericolosa della moltitudine il vicario; il quale entra il primo nella carrozza, e vi si rimpiatta in un angolo. Ferrer sale dopo; lo sportello vien chiuso. La moltitudine vide in confuso, riseppe, indovinò quel ch’era accaduto; e mandò un urlo d’applausi e d’imprecazioni. La parte della strada che rimaneva da farsi, poteva parer la più difficile e la più pericolosa. Ma il voto pubblico era abbastanza spiegato per lasciar andare in prigione il vicario [21]; e nel tempo della fermata, molti di quelli che avevano agevolato l’arrivo di Ferrer, s’eran tanto ingegnati a preparare e a mantener come una corsìa nel mezzo della folla, che la carrozza poté, questa seconda volta, andare un po’ più lesta, e di seguito. Di mano in mano che s’avanzava, le due folle rattenute dalle parti, si ricadevano addosso e si rimischiavano, dietro a quella. Ferrer, appena seduto, s’era chinato per avvertire il vicario, che stesse ben rincantucciato nel fondo, e non si facesse vedere, per l’amor del cielo; ma l’avvertimento era superfluo. Lui, in vece, bisognava che si facesse vedere, per occupare e attirare a sé tutta l’attenzione del pubblico. E per tutta questa gita, come nella prima, fece al mutabile uditorio un discorso, il più continuo nel tempo, e il più sconnesso nel senso, che fosse mai; interrompendolo però ogni tanto con qualche parolina spagnola, che in fretta in fretta si voltava a bisbigliar nell’orecchio del suo acquattato compagno. - Sì, signori; pane e giustizia: in castello, in prigione, sotto la mia guardia. Grazie, grazie, grazie tante. No, no: non iscapperà. Por ablandarlos [22]. E troppo giusto; s’esaminerà, si vedrà. Anch’io voglio bene a lor signori. Un gastigo severo. Esto lo digo por su bien [23]. Una meta [24] giusta, una meta onesta, e gastigo agli affamatori. Si tirin da parte, di grazia. Sì, sì; io sono un galantuomo, amico del popolo. Sarà gastigato: è vero, è un birbante, uno scellerato. Perdone, usted [25]. La passerà male, la passerà male... si es culpable. Sì, sì, li faremo rigar diritto i fornai. Viva il re, e i buoni milanesi, suoi fedelissimi vassalli! Sta fresco, sta fresco. Animo; estamos ya quasi fuera [26]. Avevano in fatti attraversata la maggior calca, e già eran vicini a uscir al largo, del tutto. Lì Ferrer, mentre cominciava a dare un po’ di riposo a’ suoi polmoni, vide il soccorso di Pisa, que’ soldati spagnoli, che però sulla fine non erano stati affatto inutili, giacché sostenuti e diretti da qualche cittadino, avevano cooperato a mandare in pace un po’ di gente, e a tenere il passo libero all’ultima uscita. All’arrivar della carrozza, fecero ala, e presentaron l’arme al gran cancelliere, il quale fece anche qui un saluto a destra, un saluto a sinistra; e all’ufiziale, che venne più vicino a fargli il suo, disse, accompagnando le parole con un cenno della destra: - beso a usted las manos [27]-: parole che l’ufiziale intese per quel che volevano dir realmente, cioè: m’avete dato un bell’aiuto! In risposta, fece un altro saluto, e si ristrinse nelle spalle. Era veramente il caso di dire: cedant arma togae [28]; ma Ferrer non aveva in quel momento la testa a citazioni: e del resto sarebbero state parole buttate via, perché l’ufiziale non intendeva il latino. A Pedro, nel passar tra quelle due file di micheletti [29], tra que’ moschetti così rispettosamente alzati, gli tornò in petto il cuore antico. Si riebbe affatto dallo sbalordimento, si rammentò chi era, e chi conduceva; e gridando: - ohe! ohe! - senz’aggiunta d’altre cerimonie, alla gente ormai rada abbastanza per poter esser trattata così, e sferzando i cavalli, fece loro prender la rincorsa verso il castello. - Levantese’ levantese; estàmos ya fuera [30], - disse Ferrer al vicario; il quale, rassicurato dal cessar delle grida, e dal rapido moto della carrozza, e da quelle parole, si svolse, si sgruppò, s’alzò; e riavutosi alquanto, cominciò a render grazie, grazie e grazie al suo liberatore. Questi, dopo essersi condoluto con lui del pericolo e rallegrato della salvezza: - ah! - esclamò, battendo la mano sulla sua zucca monda, - que dirà de esto su excelencia [31], che ha già tanto la luna a rovescio, per quel maledetto Casale, che non vuole arrendersi? Que dirà el conde duque [32], che piglia ombra se una foglia fa più rumore del solito? Que dirà el rey nuestro señor [33], che pur qualche cosa bisognerà che venga a risapere d’un fracasso così? E sarà poi finito? Dios lo sabe [34]. - Ah! per me, non voglio più impicciarmene, - diceva il vicario: - me ne chiamo fuori; rassegno la mia carica nelle mani di vostra eccellenza, e vo a vivere in una grotta, sur una montagna, a far l’eremita, lontano, lontano da questa gente bestiale. - Usted farà quello che sarà più conveniente por el servicio de su magestad [35], - rispose gravemente il gran cancelliere. - Sua maestà non vorrà la mia morte, - replicava il vicario: - in una grotta, in una grotta; lontano da costoro. Che avvenisse poi di questo suo proponimento non lo dice il nostro autore, il quale, dopo avere accompagnato il pover’uomo in castello, non fa più menzione de’ fatti suoi. |
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Note
- Una digestione laboriosa e lenta, dopo aver mangiato in modo svogliato.
- Inquietudine, incertezza.
- Allusione ironica agli storici mediocri, che spesso ricostruiscono gli eventi in modo impreciso e approssimativo.
- Oggi Porta Sempione, nel XVII secolo sorgeva accanto al Castello Sforzesco, costruito nel XIV sec. e adibito a fortezza.
- Si fermarono.
- Me ne infischio (un'aria di noncuranza, di disprezzo).
- Non si astenevano.
- La scala è paragonata ironicamente a una macchina da assedio, come quelle usate nell'antichità per scalare le mura delle città.
- Le stanghe verticali della scala.
- Il riferimento, ancora una volta ironico, è a Aen., II, 237: "scandit fatalis machina muros" ("la macchina fatale sale verso le mura di Troia).
- Accordi.
- Il re di Spagna sul trono al momento della vicenda (regnò dal 1621 al 1665).
- "Per la mia vita, quanta gente!".
- "Se è colpevole".
- "Avanti, Pedro, se puoi".
- Facce, musi.
- "Avanti, presto, con prudenza".
- "Oh! oh! fate attenzione".
- "Venga con me, vossignoria".
- "Qui sta il difficile; Dio ci aiuti!".
- La volontà popolare era ormai decisamente favorevole a lasciar andare in prigione il vicario.
- "Per rabbonirli".
- "Questo lo dico per il suo bene".
- Calmiere, prezzo imposto al pane.
- "Mi perdoni, vossignoria".
- "Coraggio, ormai siamo quasi fuori".
- "Bacio le mani a vossignoria", detto con amara ironia (i soldati non sono stati di nessun aiuto).
- "Le armi si ritirino davanti alla toga": è un verso di Cicerone (Cedant arma togae, concedat laurea laudi, "Le armi si ritirino davanti alla toga e il trionfo militare alla lode oratoria), contenuto nel perduto poemetto De consulatu suo.
- Erano i soldati spagnoli reclutati nelle montagne dei Pirenei e addestrati alla guerra e al saccheggio, una sorta di fanteria leggera armata di moschetto (il nome deriva da Miquelot de Prats, il catalano loro creatore, o - secondo altri - da un santuario di S. Michele che si trovava nel distretto dei Pirenei dove erano addestrati).
- "Si alzi, si alzi; ormai siamo fuori".
- "Che dirà di questo sua eccellenza?" (il governatore di Milano, don Gonzalo Fernandez de Cordoba).
- "Che dirà il conte duca?" (il primo ministro spagnolo, il conte duca Olivares).
- "Che dirà il re nostro signore?" (Filippo IV).
- "Dio lo sa".
- "Vossignoria farà ciò che è più conveniente per il servizio di Sua Maestà".